Avoledo, Tullio e Davide Boosta Dileo (2011). Un buon posto per morire. Torino: Einaudi. 2011.
Ho già scritto parlando di altre sue opere (Breve storia di lunghi tradimenti, Tre sono le cose misteriose, La ragazza di Vajont e L’anno dei dodici inverni) che Avoledo è un autore che sa catturarti fin dalle prime pagine e, in genere, non si lascia mollare fino alla fine: quella sensazione, ben nota al lettore compulsivo, che quello che stai facendo durante il giorno non sia che una parentesi tra quando hai dovuto lasciare il libro e quando lo potrai riprendere in mano e che le ore di sonno siano sottratte ad attività ben più importanti (leggere quel libro). Ho anche scritto che Avoledo ha molti registri e molte storie diverse da raccontare, e non tutte con la stessa profondità e la stessa efficacia.
Ma non era mai caduto così in basso. Non serve dire: “Sarà colpa di questo Boosta Dileo.” I coautori uno se li sceglie, e non scrive (o permette alla sua casa editrice di scrivere) cose come: “Se non ne avesse pubblicati già sette, questo sarebbe il suo romanzo d’esordio. Invece il primo è stato L’elenco telefonico di Atlantide. Pensava di non poter fare di meglio fino alla fine del mondo. Poi ha scritto con Boosta questo libro sulla fine del mondo”.
Si può discutere se L’elenco telefonico di Atlantide sia il suo romanzo migliore. Ad esempio, io penso che sia stato un debutto folgorante, ma che il suo romanzo migliore sia La ragazza di Vajont. Ma secondo il mio modesto e tuttavia insindacabile parere, questo è il peggiore. Finora, quanto meno. A peggiorare e a perdere l’ispirazione si è sempre in tempo (Sandro Veronesi docet – ma questa è tutta un’altra storia). E spesso non scrivere da solo, ma cercarsi un coautore ne è un sintomo.
Qui siamo di fronte a una specie di Codice Da Vinci all’italiana e, francamente, non se ne sentiva la mancanza. C’è tutto, dall’asteroide agli zombi (giusto per restare in ordine alfabetico e non rovinarvi niente, anche se non voi ma il romanzo se lo meriterebbe). E nessuna leggerezza, meno che mai quella di A che punto è la notte di Fruttero e Lucentini che a un tratto un passaggio torinese mi ha fatto ricordare. Insomma, leggetelo a vostro rischio e pericolo. Quanto a me, ai miei cari lo sconsiglio.
Un altro aspetto irritante è che nel libro c’è un sacco di precisione sui nomi dei luoghi, e soprattutto degli alberghi e dei ristoranti (e questo fa pensare ai Segretissimo di Gérard de Villiers, che pur vendendo i suoi libriccini fascisti a milioni di copie non perde occasione per fare pubblicità a champagne, arredatori, marche d’orologi e quant’altro). Dopo di che gli autori mi inciampano a pagina 47 in un “i pneumatici”. Povero Giulio Einaudi, come è caduta in basso la sua casa editrice: lo spirito dello struzzo digeriva anche le cose più toste, ma poi è caduto (in modo non limpido) nelle fauci del caimano. E poi ancora, a pagina 214 i gatti hanno le proverbiali sette vite: diteglielo ad Avoledo, che in Friuli qualcuno ha rubato due vite proverbiali ai poveri gatti; potrebbe essere lo spunto per un nuovo romanzo. Ci fosse stato un editor, come usa nelle case editrici serie, gli avrebbe forse evitato questi errori, e forse avrebbe potuto anche chiedere e ottenere di tagliare 100-150 pagine.
Di salvabile ho trovato un proverbio tedesco e una battutaccia, politicamente scorretti entrambi. Ve li ripropongo entrambi.
Wo gehobelt wird, da fallen auch Späne. Quando si pialla. cadono i trucioli. [p. 362]
– Ehi, niente piagnistei. Le lacrime sono roba da froci.
– Anche Achille piangeva.
– E infatti Achille era frocio [p. 458]