Mezz’ora dopo Dirksen entrava nella casa di Klane in compagnia dell’avvocato. Il cancello si era aperto automaticamente all’avvicinarsi della macchina, così come s’era aperta la porta, senza bisogno della chiave.
Seguì nel laboratorio del seminterrato Hunt, che aprì uno dei tanti armadietti e ne estrasse un grosso coleottero d’alluminio, con alcune spie luminose e qualche protuberanza su una superficie per il resto assolutamente liscia. Lo girò e Dirksen vide tre ruote di gomma sul lato inferiore, che era piatto e riportava incisa la scritta «BESTIA MOD. 3».
Hunt appoggiò l’aggeggio sulle piastrelle del pavimento e fece scattare il piccolo interruttore sulla pancia. Con un lieve ronzio il giocattolo cominciò a muoversi avanti e indietro sul pavimento, come se cercasse qualcosa. Esitò un attimo davanti a una grossa struttura, poi si fermò davanti a una presa di corrente, fece uscire una spina da una piccola apertura del suo corpo metallico e la infilò nella presa. Alcune delle spie si accesero sul verde e dall’interno si produsse un suono simile alle fusa di un gatto.
Dirksen guardò con interesse il congegno: “Un animale meccanico. Carino: a che serve?”
Hunt prese un martello dal bancone e glielo porse. “Vorrei che lo ammazzassi.”
“Ma che dici?” disse Dirksen un po’ allarmata. “Perché dovrei ammazzare… rompere… quella macchina?” E fece un passo indietro senza prendere in mano il martello.
“È solo un esperimento,” rispose Hunt. “L’ho fatto anch’io qualche anno fa su richiesta di Klane e l’ho trovato istruttivo.”
“E che cos’hai imparato?”
“Qualcosa sul significato della vita e della morte.”
Dirksen guardò Hunt perplessa.
“La ‘bestia’ non ha difese che ti possano fare del male,” la rassicurò. “Devi solo stare attenta a non andare a sbattere contro qualcosa mentre l’insegui.” E le porse di nuovo il martello.
Esitò, fece un passo in avanti, prese l’arma, guardò di sottecchi la strana macchina che ronfava beatamente e succhiava corrente elettrica. Si avvicinò, si chinò e alzò il martello. “Ma… sta mangiando,” disse, girandosi verso Hunt.
Hunt si mise a ridere. Allora Dirksen, punta nel vivo, sollevò il martello con entrambe le mani e lo calò con forza.
Ma con un rumore acuto come un grido di paura la bestia aveva ritratto le mandibola dalla presa ed era scappata. Il martello si abbatte sul pavimento dove poco prima c’era il corpo della macchina. La piastrella si scheggiò.
Dirksen alzò lo sguardo. Hunt rideva di nuovo. La macchina si era spostata di un paio metri e poi s’era fermata, tenendola d’occhio. Ma no, si disse Dirksen , non mi sta tenendo d’occhio.
Irritata con sé stessa, Dirksen riprese in mano il martello e avanzò cauta. La macchina indietreggiava, e un paio di spie rosse lampeggiavano, a volte più intense e a volte meno, all’incirca al ritmo delle onde alfa dell’elettroencefalogramma umano. Dirksen prese lo slancio, martello in mano, e fece cilecca …
Dopo dieci minuti tornò da Hunt, accaldata e affannata. Era dolorante dove era andata a sbattere contro qualche oggetto del laboratorio e le faceva male la testa dove aveva sbattuto contro un bancone. “È come cercare di prendere un topone! Quando si scaricano quelle stupide batterie?”
Hunt guardò l’orologio: “Un’altra mezzoretta, direi. Sempre che tu lo faccia correre.” Indicò sotto un bancone, dove la bestia aveva trovato un’altra presa elettrica. “Ma c’è un modo più facile di prenderlo.”
“Dimmelo.”
“Posa il martello e prendilo con le mani.”
“Tutto qui… con le mani?”
“Sì. Riconosce il pericolo soltanto nei suoi simili: in questo caso nel martello perché è di metallo. Ma non è programmato per percepire il protoplasma disarmato come una minaccia.”
Dirksen allora appoggiò il martello sul bancone e si avvicinò piano piano. La macchina non si mosse. Aveva smesso di fare le fusa e gli indicatori emanavano una pallida luce ambrata. Dirksen si chinò e provò a toccarlo: sentì una leggera vibrazione. Allora lo prese cautamente con tutte e due le mani. Le luci virarono al verde brillante e attraverso il confortevole tepore della pelle metallica si sentiva il quieto ronzio dei motori.
“E adesso che me ne faccio di questa stupida cosa?” chiese con un pizzico d’irritazione.
“Mettilo sul bancone a pancia all’aria. In quella posizione non può fare niente e lo puoi colpire con tutto comodo.”
“Uffa, ne ho abbastanza di antropomorfismi,” borbotto Dirksen, ma seguì i consigli di Hunt, decisa a farla finita una volta per tutte con quella storia.
Quando capovolse la macchina e l’appoggiò, le spie tornarono sul rosso. Le ruote girarono brevemente e poi si fermarono. Dirksen riprese il martello, gli fece percorrere un arco di cerchio e colpì la macchina indifesa: però di lato, danneggiando una delle ruote ma facendola ritornare nella posizione giusta. Si sentì il raschiare metallico della ruota rotta e la bestia, a scatti, cominciò a muoversi in tondo. Poi si senti che qualche cosa all’interno si schiantava e la macchina si fermò di nuovo. Le spie emanavano un chiarore triste.
Dirksen serrò le labbra e calò il martello per il colpo finale. In quel momento la bestia emise un suono, un grido tenue e lamentoso come un bambino piagnucoloso. Dirksen lasciò cadere il martello dalle mani e fece un balzo indietro, gli occhi fissi sulla pozza rosso sangue di lubrificante che si spandeva sul tavolo sotto la creatura. Guardò Hunt con orrore: “Ma è… è…”
“È soltanto una macchina,” disse Hunt, ora tutto serio. “Come queste, quelle che l’hanno preceduta nella sua storia evolutiva,” disse indicando le macchine appoggiate sugli scaffali del laboratorio, che sembravano osservarli mute e minacciose. “Ma a differenza di loro, può sentire l’avvicinarsi del suo fato e chiamare aiuto.”
“Spegnilo,” disse con voce sorda.
Hunt si avvicinò al bancone e trafficò intorno al piccolo interruttore. “Mi sa che l’hai incastrato.” Raccolse il martello dal pavimento, dove era caduto. “Ti va di dargli il colpo di grazia?”
Dirksen fece un passo indietro, scuotendo la testa. Hunt calò il martello. “Non potresti provare ad aggiustar…” Ci fu un breve schianto metallico. Dirksen sobbalzò e distolse lo sguardo. Il lamento cessò. Risalirono le scale in silenzio.
Non siamo di fronte a un capolavoro, direi. Però, c’è molta abilità artigianale nella costruzione del testo. Questo è il motivo per cui ho voluto tradurlo da solo (non che Longo abbia fatto un cattivo lavoro, ma è certo stato meno severo e meno attento di me nel seguire gli equilibrismi sottilmente calcolati da Miedaner). Tutto l’episodio è giocato sull’ambiguità della BESTIA MOD. 3. Sulla continua ambiguità di parlarne, a volte nella stessa frase, come di un macchina o come di un animale.
Per me il gioco è abbastanza trasparente: assumere la prospettiva intenzionale, attribuire cioè a qualcosa che c’è là fuori – e ha determinati comportamenti e le caratteristiche di un essere senziente dotato di credenze e obiettivi – è razionale e comporta un vantaggio evolutivo. Ne va letteralmente della pelle: meglio scambiare una roccia macchiettata per un leopardo nascosto (e prendersi una grande paura senza altre conseguenze), che scambiare un leopardo nascosto per una roccia macchiettata (#pitecantropostaisereno, ma non lo racconterai ai tuoi nipoti). Bersani docet.
Mi è più facile pensare che io sono una macchina come BESTIA MOD. 3 o come un astice, che non pensare che BESTIA MOD. 3 e l’astice siano esseri senzienti.