Piazza Fontana, 45 anni: c’è ancora tempo per la verità?

Piazza Fontana: quel gelido pomeriggio d’inverno, cupo e nebbioso come Milano sapeva essere soprattutto in quegli anni, ha cambiato per sempre la mia vita. Uno dei landmark che punteggiano un paesaggio di vita piuttosto normale.

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Religione, opinione, espulsione, Costituzione

Chi mi conosce anche superficialmente, sia pure soltanto per essere un lettore di questo blog, sa che sono ateo e anticlericale, contrario a ogni fanatismo, apprendista praticante delle fatiche del pensiero razionale. Non penso, perciò, di potere essere accusato di simpatia per il predicatore che ha invitato il suo dio a sterminare tutti i credenti in una religione diversa.

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La pratica di invocare l’aiuto divino nello sterminio dei nemici è antica e diffusa, soprattutto nelle religioni “del libro”: i credenti delle tre grandi religioni monoteistiche convergono nel figurarsi una divinità personale modellata sull’archetipo del patriarca mediorientale, una sorta di grande vecchio irascibile e geloso, pronto a intervenire a favore del “suo” popolo. La Bibbia – come sa chi l’ha letta (pochissimi, in Italia, dove tutti però fingono di saperla lunga) – pullula di episodi terrificanti e cruenti, con tutti i maschi nemici passati a fil di spada, mamme bambini e vecchi sterminati con una meticolosità degna delle SS e le giovani vergini rapite e deportate come prede di guerra. Un elenco parziale (ancorché dichiaratamente di parte) lo trovate qui. Ma vi assicuro (io la Bibbia l’ho letta davvero, dalla prima all’ultima pagina) che basta aprire l’Antico testamento a caso, soprattutto nei libri che raccontano la “storia” del popolo ebraico (piuttosto che quelli poetici, profetici o sapienziali) per trovare questi massacri.

Stando così le cose, non è stupefacente che fedeli e sacerdoti invochino l’aiuto di dio per lo sterminio dei nemici, come ha fatto l’imam di San Donà di Piave.

Questo, ad esempio, è Isaia – non l’ultimo dei predicatori di campagna, ma un profeta tra i sommi, accreditato tra i cristiani per aver previsto l’avvento di Gesù. È dio in persona che sta parlando al profeta:

Io avverserò i tuoi avversari;
io salverò i tuoi figli.
Farò mangiare le loro stesse carni ai tuoi oppressori,
si ubriacheranno del proprio sangue come di mosto.
Allora ogni uomo saprà
che io sono il Signore, tuo salvatore,
io il tuo redentore e il Forte di Giacobbe. [Isaia 49: 25-26. La traduzione è quella ufficiale della CEI-Conferenza episcopale italiana]

Ricordiamo anche che l’appellativo tradizionale del dio dell’Antico testamento era “dio degli eserciti” – che nei testi liturgici viene tradotto pudicamente (e cosmologicamente) “dio dell’universo” – e che di conseguenza il segno che gli viene richiesto più di frequente è un segno di potenza militare.

Di qui anche, prevedibilmente, una lunga sequenza di affermazioni a sostegno della tesi che dio è dalla parte tua, che gli sei fedele e che lo stai invocando: dal “deus lo volt” con cui Pietro l’eremita predicava la prima crociata, la crociata dei pezzenti; all’agghiacciante “Gott mit uns” sulla fibbia dei cinturoni degli eserciti tedeschi della prima e della seconda guerra mondiale (ma era già il motto dei cavaliere teutonici e fu adottato anche dall’impero russo, Съ нами богъ!), a “In God We Trust” motto nazionale degli Stati Uniti d’America (fino al 1956 era E pluribus unum che a me, per quel che conta, piace molto di più), fino alla nota canzone di Bob Dylan, With God on our Side. Ma non crediate che noi italiani ci possiamo chiamare fuori: basterebbe forse il “dio stramaledica gli inglesi” di mussoliniana memoria.

Alla luce di queste tradizionali invocazioni al proprio dio affinché stermini i propri nemici, quella di Abd Al-Barr Al-Rawdhi, imam marocchino di una comunità islamica di San Donà di Piave, non mi sembrano particolarmente originali o particolarmente cruente. Secondo l’Avvenire (quotidiano della CEI) avrebbe detto:

«O​h Allah, contali uno a uno e uccidili fino all’ultimo». O, secondo un’altra traduzione, «A morte tutti gli ebrei», tutti, «fino all’ultimo, senza risparmiare uno solo di loro», perché questo renderebbe «felici» i musulmani. E ancora: «Allah, trasforma il loro cibo in veleno». [Francesco Dal Mas, Espulso imam di San Donà: «Incita all’odio». L’Avvenire. 5 agosto 2014]

* * *

Qui arrivo alla domanda che mi interessa: sono giusti i provvedimenti di fermo e di espulsione?

Intanto: lo si può espellere perché è un cittadino straniero. Se fosse italiano non lo si potrebbe fare: non legalmente, quanto meno.

Il ministro Alfano – che pure è laureato in giurisprudenza – non ha dubbi:

[…] il titolare del Viminale ha disposto l’espulsione dell’imam marocchino, per grave turbamento dell’ordine pubblico e pericolo per la sicurezza nazionale e discriminazione per motivi religiosi. «Non è accettabile che venga pronunciata un’orazione di chiaro tenore antisemita, contenente espliciti incitamenti alla violenza e all’odio religioso», ha spiegato Alfano. «Per questo ne ho disposto l’immediata espulsione dal territorio nazionale. La mia decisione valga da monito per tutti coloro che pensano che in Italia si possa predicare odio». [è sempre l’articolo de l’Avvenire]

In un’intervista a Libero del 6 agosto 2014, ripresa sul sito del ministro, Alfano dichiara (tra l’altro):

Il comportamento dell`imam era inaccettabile. Il fatto che Libero lo abbia rilanciato in questo modo ha reso ancora più eclatante quello che già era noto ai nostri uffici tramite le attività di analisi e di indagine. Ho provato un sentimento di indignazione e di preoccupazione, che si è tradotto nella necessità di assumere un provvedimento immediato che desse la certezza agli italiani che nel nostro paese c’è la libertà di professione dei culti, ma non la libertà di professione degli odi.

Mi dispiace, signor ministro, non sono d’accordo. E mi piacerebbe che il presidente della Repubblica intervenisse – anche se mi rendo conto che sarebbe un intervento impopolare – come garante della Costituzione a ricordare che la libertà di religione e quella di opinione sono fondanti della nostra convivenza civile e sono valori democratici e liberali per cui ci si batte dal secolo dei lumi.

Se non lo fa nessun altro, lo faccio io, invitandovi a leggere le parole semplici e chiare della Costituzione.

Articolo 19. Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

Articolo 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Invece non trovo nella Costituzione, per quanti sforzi faccia, una clausola che limita la libertà di opinione nel caso della “professione degli odi”.

Cedevole

«La norma è cedevole», cinguetta una fine giurista.

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Si scopre così che la legge, un tempo incisa su tavole di bronzo, è ora cedevole, come la virtù di una demi-mondaine in un romanzo francese del XIX secolo…

Zan zan zan, le belle rane

Questa non è una ranocchia (grazie a Jerry Coyne: Ceci n’est pas une grenouille).

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Ed ecco spiegato l’arcano:

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L’anima della «Bestia mod. 3»

È la seconda volta che mi imbatto in questo testo, abbastanza noto negli Stati Uniti e (per quanto ne so) del tutto sconosciuto da noi. La prima volta è stato quando ho letto The Mind’s I di Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett, di cui ho parlato fuggevolmente poco tempo fa, qui. La seconda è stata qualche giorno fa, in un libro che sto ancora leggendo: Wetware di Dennis Bray.

È tratto da un romanzo di Terrel Miedaner, The Soul of Anna Klane. Non è mai stato tradotto in italiano, e non è facilissimo da trovare neppure in originale. Ma The Mind’s I è stato tradotto (L’Io della mente) e, quindi, una traduzione di questo brano esiste ed è dovuta a Giuseppe Longo, traduttore di The Mind’s I per Adelphi.

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Io però ho deciso di non utilizzare quella traduzione e cimentarmi nell’impresa in proprio.

* * *

I personaggi e interpreti sono: Dirksen, una donna; Hunt, un avvocato; Klane, nella cui casa si svolgono i fatti ma che non compare nell’episodio.

* * *

Mezz’ora dopo Dirksen entrava nella casa di Klane in compagnia dell’avvocato. Il cancello si era aperto automaticamente all’avvicinarsi della macchina, così come s’era aperta la porta, senza bisogno della chiave.

Seguì nel laboratorio del seminterrato Hunt, che aprì uno dei tanti armadietti e ne estrasse un grosso coleottero d’alluminio, con alcune spie luminose e qualche protuberanza su una superficie per il resto assolutamente liscia. Lo girò e Dirksen vide tre ruote di gomma sul lato inferiore, che era piatto e riportava incisa la scritta «BESTIA MOD. 3».

Hunt appoggiò l’aggeggio sulle piastrelle del pavimento e fece scattare il piccolo interruttore sulla pancia. Con un lieve ronzio il giocattolo cominciò a muoversi avanti e indietro sul pavimento, come se cercasse qualcosa. Esitò un attimo davanti a una grossa struttura, poi si fermò davanti a una presa di corrente, fece uscire una spina da una piccola apertura del suo corpo metallico e la infilò nella presa. Alcune delle spie si accesero sul verde e dall’interno si produsse un suono simile alle fusa di un gatto.

Dirksen guardò con interesse il congegno: “Un animale meccanico. Carino: a che serve?”

Hunt prese un martello dal bancone e glielo porse. “Vorrei che lo ammazzassi.”

“Ma che dici?” disse Dirksen un po’ allarmata. “Perché dovrei ammazzare… rompere… quella macchina?” E fece un passo indietro senza prendere in mano il martello.

“È solo un esperimento,” rispose Hunt. “L’ho fatto anch’io qualche anno fa su richiesta di Klane e l’ho trovato istruttivo.”

“E che cos’hai imparato?”

“Qualcosa sul significato della vita e della morte.”

Dirksen guardò Hunt perplessa.

“La ‘bestia’ non ha difese che ti possano fare del male,” la rassicurò. “Devi solo stare attenta a non andare a sbattere contro qualcosa mentre l’insegui.” E le porse di nuovo il martello.

Esitò, fece un passo in avanti, prese l’arma, guardò di sottecchi la strana macchina che ronfava beatamente e succhiava corrente elettrica. Si avvicinò, si chinò e alzò il martello. “Ma… sta mangiando,” disse, girandosi verso Hunt.

Hunt si mise a ridere. Allora Dirksen, punta nel vivo, sollevò il martello con entrambe le mani e lo calò con forza.

Ma con un rumore acuto come un grido di paura la bestia aveva ritratto le mandibola dalla presa ed era scappata. Il martello si abbatte sul pavimento dove poco prima c’era il corpo della macchina. La piastrella si scheggiò.

Dirksen alzò lo sguardo. Hunt rideva di nuovo. La macchina si era spostata di un paio metri e poi s’era fermata, tenendola d’occhio. Ma no, si disse Dirksen , non mi sta tenendo d’occhio.

Irritata con sé stessa, Dirksen riprese in mano il martello e avanzò cauta. La macchina indietreggiava, e un paio di spie rosse lampeggiavano, a volte più intense e a volte meno, all’incirca al ritmo delle onde alfa dell’elettroencefalogramma umano. Dirksen prese lo slancio, martello in mano, e fece cilecca …

Dopo dieci minuti tornò da Hunt, accaldata e affannata. Era dolorante dove era andata a sbattere contro qualche oggetto del laboratorio e le faceva male la testa dove aveva sbattuto contro un bancone. “È come cercare di prendere un topone! Quando si scaricano quelle stupide batterie?”

Hunt guardò l’orologio: “Un’altra mezzoretta, direi. Sempre che tu lo faccia correre.” Indicò sotto un bancone, dove la bestia aveva trovato un’altra presa elettrica. “Ma c’è un modo più facile di prenderlo.”

“Dimmelo.”

“Posa il martello e prendilo con le mani.”

“Tutto qui… con le mani?”

“Sì. Riconosce il pericolo soltanto nei suoi simili: in questo caso nel martello perché è di metallo. Ma non è programmato per percepire il protoplasma disarmato come una minaccia.”

Dirksen allora appoggiò il martello sul bancone e si avvicinò piano piano. La macchina non si mosse. Aveva smesso di fare le fusa e gli indicatori emanavano una pallida luce ambrata. Dirksen si chinò e provò a toccarlo: sentì una leggera vibrazione. Allora lo prese cautamente con tutte e due le mani. Le luci virarono al verde brillante e attraverso il confortevole tepore della pelle metallica si sentiva il quieto ronzio dei motori.

“E adesso che me ne faccio di questa stupida cosa?” chiese con un pizzico d’irritazione.

“Mettilo sul bancone a pancia all’aria. In quella posizione non può fare niente e lo puoi colpire con tutto comodo.”

“Uffa, ne ho abbastanza di antropomorfismi,” borbotto Dirksen, ma seguì i consigli di Hunt, decisa a farla finita una volta per tutte con quella storia.

Quando capovolse la macchina e l’appoggiò, le spie tornarono sul rosso. Le ruote girarono brevemente e poi si fermarono. Dirksen riprese il martello, gli fece percorrere un arco di cerchio e colpì la macchina indifesa: però di lato, danneggiando una delle ruote ma facendola ritornare nella posizione giusta. Si sentì il raschiare metallico della ruota rotta e la bestia, a scatti, cominciò a muoversi  in tondo. Poi si senti che qualche cosa all’interno si schiantava  e la macchina si fermò di nuovo. Le spie emanavano un chiarore triste.

Dirksen serrò le labbra e calò il martello per il colpo finale. In quel momento la bestia emise un suono, un grido tenue e lamentoso come un bambino piagnucoloso. Dirksen lasciò cadere il martello dalle mani e fece un balzo indietro, gli occhi fissi sulla pozza rosso sangue di lubrificante che si spandeva sul tavolo sotto la creatura. Guardò Hunt con orrore: “Ma è… è…”

“È soltanto una macchina,” disse Hunt, ora tutto serio. “Come queste, quelle che l’hanno preceduta nella sua storia evolutiva,” disse indicando le macchine appoggiate sugli scaffali del laboratorio, che sembravano osservarli mute e minacciose. “Ma a differenza di loro, può sentire l’avvicinarsi del suo fato e chiamare aiuto.”

“Spegnilo,” disse con voce sorda.

Hunt si avvicinò al bancone e trafficò intorno al piccolo interruttore. “Mi sa che l’hai incastrato.” Raccolse il martello dal pavimento, dove era caduto. “Ti va di dargli il colpo di grazia?”

Dirksen fece un passo indietro, scuotendo la testa. Hunt calò il martello. “Non potresti provare ad aggiustar…” Ci fu un breve schianto metallico. Dirksen sobbalzò e distolse lo sguardo. Il lamento cessò. Risalirono le scale in silenzio.

* * *

Non siamo di fronte a un capolavoro, direi. Però, c’è molta abilità artigianale nella costruzione del testo. Questo è il motivo per cui ho voluto tradurlo da solo (non che Longo abbia fatto un cattivo lavoro, ma è certo stato meno severo e meno attento di me nel seguire gli equilibrismi sottilmente calcolati da Miedaner). Tutto l’episodio è giocato sull’ambiguità della BESTIA MOD. 3. Sulla continua ambiguità di parlarne, a volte nella stessa frase, come di un macchina o come di un animale.

Per me il gioco è abbastanza trasparente: assumere la prospettiva intenzionale, attribuire cioè a qualcosa che c’è là fuori – e ha determinati comportamenti e le caratteristiche di un essere senziente dotato di credenze e obiettivi – è razionale e comporta un vantaggio evolutivo. Ne va letteralmente della pelle: meglio scambiare una roccia macchiettata per un leopardo nascosto (e prendersi una grande paura senza altre conseguenze), che scambiare un leopardo nascosto per una roccia macchiettata (#pitecantropostaisereno, ma non lo racconterai ai tuoi nipoti). Bersani docet.

Mi è più facile pensare che io sono una macchina come BESTIA MOD. 3 o come un astice, che non pensare che BESTIA MOD. 3 e l’astice siano esseri senzienti.

Ma questo lo sospettavate, no? E voi, che ne pensate?

Gli elastici degli astici

Quando l’ho letto su facebook, ho pensato a uno scherzo (non sono riuscito a ritrovare il post e me ne scuso con voi).

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Esiste, all’interno dei tanti movimenti animalisti e anti-specisti (che rispetto nelle opinioni dei loro aderenti e simpatizzanti, come rispetto le opinioni di tutti; chiedo loro, però, di rispettare le mie senza coprirmi di insulti e senza augurarmi una morte lenta e dolorosa perché non disdegno la carne), un movimento che si preoccupa del benessere dei crostacei. E che chiede, quando sono tenuti negli acquari, che siano liberati dagli elastici che impediscono loro di aprire e chiudere le chele. Leggi il seguito di questo post »

Se la Commissione europea vieta la cannella

Mentre altrove (soprattutto negli Stati Uniti, ma anche nell’America del Sud e persino sporadicamente in Italia) ferve il dibattito sulla legalizzazione della cannabis, la Commissione europea si accinge a limitare l’uso della cannella, almeno di quella più diffusa per aromatizzare gli alimenti.

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E i consumatori danesi, solitamente così miti dal rasentare un’equanimità bovina, questa volta si ribellano: «Toglieteci tutto, ma non i nostri kanelsnegle!»

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Le palle di Galileo e la rivincita di Aristotele

Nell’archivio della mia memoria (è soltanto un modo di dire: lo so che la nostra memoria non funziona come un archivio) c’è una vivida immagine mentale: quella di Galileo Galilei che, dalla cima della torre pendente di Pisa, lascia cadere due oggetti di peso diverso per dimostrare che raggiungono il suolo contemporaneamente. Contrariamente a quanto pensava Aristotele, che era convinto che il più pesante toccasse terra per primo. A me questa storia l’hanno insegnata a scuola e non dubito che molti di voi abbiano la stessa memoria.

C’è anche un quadro, esposto a Palazzo Pitti a Firenze, che commemora l’evento:

L. Catani, “Galileo effettua alla presenza del Granduca l’esperimento della caduta dei gravi dalla torre di Pisa”, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze. © Istituto e Museo di Storia della Scienza / Eurofoto. Fonte: vitruvio.imss.fi.it/foto

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Luigi Siciliani – Di sera

Per anni sono stato perseguitato da una falsa memoria, o da una memoria imprecisa. Sia come sia, non cambiano i risultati.

Dovevo aver letto, su una qualche antologia della letteratura italiana del ginnasio o del liceo, una poesia che mi piaceva molto.

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Forse l’avevo anche imparata a memoria come compito a casa: alle medie l’indimenticabile e indimenticato professor Brivio e, al ginnasio, l’altrettanto indimenticabile e indimenticato Padre Egidio Edini ci facevano studiare le poesie a memoria. E, con il senno di poi naturalmente, sono loro molto grato. Il primo dei due, una volta che mi ero giustificato per non aver saputo recitare l’inno alla carità della 1ª lettera di Paolo ai Corinzi raccontando che avevo dovuto studiare il pianoforte (ma come si fa a far studiare una cosa così, mi dicevo, che non ha né rime né ritmo?), mi ammonì: «Sì, continua così, studia pure piano», provocando le risate di scherno di tutta la classe. Me l’ero cercata.

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John Bingham – Five Roundabouts to Heaven

Bingham, John (1953). Five Roundabouts to Heaven. New York: Simon & Schuster. 2000. ISBN 9781416545033. Pagine 226. 7,09 €

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