A complemento del mio: Perché depilarsi il pube non è una buona idea (https://borislimpopo.com/2012/08/10/perch-depilarsi-il-pube-non-una-buona-idea-2/)
A complemento del mio: Perché depilarsi il pube non è una buona idea (https://borislimpopo.com/2012/08/10/perch-depilarsi-il-pube-non-una-buona-idea-2/)
Comunque il popolo scelse Barabba.
Il che è un invito a riflettere sui pregi e i limiti della democrazia diretta.
Sono sempre troppo ottimista. Sono passato di nuovo, nelle mie passeggiate di salute (ma chiamarlo brisk walking fa più figo), davanti al civico 1 di viale del Ciclismo, nel quartiere dell’Eur a Roma. Campeggiava sul portone il cartello che proponeva l’acquisto o l’affitto di un prestigioso appartamento del 270 m2. Svelato l’arcano. Altro che eterogenesi dei fini, siamo davanti a una dura lezione della realtà.
Ora non ci resta che immaginare che il Defender dei Carabinieri stia diffondendo il suo puzzolente miscuglio di particolato, monossido di carbonio e altri gas di scarico in qualche altro quartiere di Roma o di qualche altra città.
fiammeblu.it
Roversi, Paolo (2013). L’ira funesta: Il primo caso del maresciallo Valdes. Milano: Rizzoli. 2013. ISBN 9788858640647. Pagine 320. 11,99 €
amazon.com
Paolo Roversi ha fatto carriera: è seguito da un’agenzia letteraria (la PNLA e associati, cioè la Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency – giuro che non sto celiando) ed è passato dalle piccole case editrici di nicchia (come direbbe l’indimenticabile personaggio di Natalino Balasso) alla Rizzoli. D’altra parte, Roversi è un giornalista del Corriere della sera e la cosa, quindi, non deve sorprenderci più di tanto.
Di Roversi, su questo blog, abbiamo già avuto occasione di parlare qualche anno fa (qui, per l’esattezza). Avevo confessato, in quell’occasione, di non essere un appassionato di gialli e che, comunque, non mi pareva che Roversi fosse uno dei maestri del genere. E che però Roversi è un suzzarese, viene cioè dal paese in cui affondano le mie gucciniane radici e in cui ho passato molte estati. Per questo, quando il romanzo è ambientato da quelle parti e in quei climi, ne traggo un piacere tutto mio.
Roversi non fa un grande sforzo per mischiare le carte e il borgo dove si svolge la vicenda è piuttosto riconoscibile in Torricella (coincide persino la toponomastica). La storia è gradevole, raccontata con un umorismo un po’ sornione (come si usa da quelle parti), rispetta le regole canoniche del romanzo poliziesco (compresa quella, non scritta, che prevede almeno una scopata tra il poliziotto protagonista e una ragazza carina – in questo caso una giornalista: si vede che l’autore, giornalista di nera anche lui, sogna una torrida notte di sesso con un maresciallo dei carabinieri …) e chi sia il colpevole non lo si scopre fin dalle prime pagine.
Purtroppo, Roversi non è un grande scrittore e ha il vizio, tutto giornalistico, di ricorrere alle frasi fatte e di maniera. Per di più, quali che siano i servizi che gli ha fornito l’agenzia letteraria di Piergiorgio Nicolazzini, non dovevano essere inclusi quelli di un bravo editor. Già alla terza riga del romanzo incontriamo un “omone a dorso nudo”: “a dorso nudo” ci vanno i cavalli senza sella, e si può dire anche “a bisdosso“; per gli umani, e soprattutto per i lottatori, invece, si dice e si scrive “a torso nudo“. Memorabile, in proposito, il neologismo torsonudista coniato dall’avvocato Augusto Salvadori, assessore al decoro di Venezia:
Ripresa confidenza col ruolo che aveva lasciato tanti anni fa, quello di tutore del Decoro di Venezia riavuto in consegna da [Massimo] Cacciari, Augusto Salvadori ha ricominciato a mulinare il remo contro torsonudisti, saccopelisti, pediluvionisti e gli altri «isti» che sporcano l’immagine della Serenissima. Battaglie che, a partire da quella mitica contro i gondolieri che cantavano «‘O sole mio» trascurando «Nineta monta in gondola», avevano fatto di lui l’assessore più famoso del pianeta. [Gian Antonio Stella, Corriere della sera, 23 luglio 2005, p. 16, Cronache]
Quelli che Salvadori chiama «torsonudisti», con un neologismo ardito del quale rivendica la paternità, li ha scoperti personalmente lui, negli Anni Ottanta: «Salgo in vaporetto una mattina per andare in assessorato, tutti schiacciati come sardine. Mi si attaccano addosso due tizi a torso nudo, sudati, una cosa orrenda. Sono arrivato in ufficio e ho firmato l’ordinanza». [Anna Sandri, Stampa, 3 agosto 2007, p. 22, Cronache Italiane].
E non basta, perché troviamo anche (alla posizione Kindle 2372) “qualche raro mobile in legno assediato dalle tarme.” Roversi ha evidentemente dimenticato le sue origini rurali, se ignora che le tarme fanno i buchi nei tessuti di lana, mentre le gallerie nei mobili in legno le scavano i tarli.
Più avanti [3379] troviamo un ragazzo turbatio da un “bikini inguinale”: scusa la pignoleria, Roversi, ma inguinale si può dire di un’ernia o, se si vuol fare gli spiritosi, di una minigonna, per segnalare che è così corta da coprire a malapena le pudenda. Ma il bikini – nel suo pezzo di sotto – è inguinale per forza.
minigonne.eu
Fin qui gli strafalcioni accidentali. Tra quelli voluti, ho trovato divertenti quelli del Gaggina. Uno per tutti: «Il silenzio è coro.» [3216]
salon.com
Salon, in un articolo del 27 marzo 2013 a firma di Victor L. Simpson, intitolato Knox case means more scrutiny for Italian justice system. A decision by the country’s highest criminal appeals court raises questions about how justice works in Italy, esordisce così:
Roma (AP) – Quando il finanziere americano Bernie Madoff fu condannato a New York, il Corriere della sera (il più autorevole quotidiano italiano) pubblicò una vignetta che prendeva in giro il sistema giudiziario.
In una corte americana, un giudice condannava l’imputato a 150 di galera dopo 6 mesi di processo. In una corte italiana, il giudice condannava a 6 mesi di reclusione dopo un processo durato 150 anni. In questo modo il più importante quotidiano del Paese metteva alla berlina il lentissimo, e a volte inconcludente, sistema giudiziario italiano.
Adesso, la decisione della Corte di cassazione – annullamento delle assoluzioni di Amanda Knox e del suo ex-fidanzato italiano e conseguente necessità di celebrare un nuovo processo per l’omicidio della sua compagna di stanza accaduto nel 2007 – suscita all’estero e all’interno nuove preoccupazioni sul funzionamento della giustizia in Italia.
È un sistema in cui le persone assolte dall’accusa di aver commesso reati gravi vivono per anni sotto la minaccia della reclusione [nel caso in cui vi sia un nuovo processo che si chiude con una sentenza di condanna – nota mia], mentre potenti politici come l’ex-premier Silvio Berlusconi possono evitare di essere condannati a una pena detentiva ricorrendo in appello quasi indefinitamente, fino allo scattare della prescrizione.
Potete leggere integralmente l’articolo in originale qui: Knox case means more scrutiny for Italian justice system – Salon.com.
Soltanto un commento: vi irrita, o peggio, un giudizio così sbrigativo sul nostro sistema giudiziario? Ritenete arrogante e affetta da complesso di superiorità la stampa statunitense? Considerereste un affronto alla nostra magistratura e al nostro Paese una campagna per sottrarre Amanda Knox a un nuovo processo in Italia, come stabilito dalla Cassazione?
Benissimo: rispetto qualsiasi opinione. Però, per favore, adesso andate a rileggere che cosa hanno scritto i nostri giornalisti sull’eventualità che sia la magistratura indiana a celebrare il processo ai 2 marò.
Nel mio piccolo, anch’io…
wikimedia.org/wikipedia/commons
Bob Dylan e Joan Baez, live, nel tour Rolling Thunder Revue (1976). Il video non c’è più su YouTube, ma lo trovate qui.
PLANE WRECK AT LOS GATOS (DEPORTEE)
Words by Woody Guthrie – Music by Martin HoffmanThe crops are all in and the peaches are rott’ning
The oranges piled in their creosote dumps
They’re flying ‘em back to the Mexican border
To pay all their money to wade back againGoodbye to my Juan goodbye Rosalita
Adios mis amigos Jesus y Maria
You won’t have your names when you ride the big airplane
All they will call you will be “Deportees”My father’s own father he waded that river
They took all the money he made in his life
Six hundred miles to that Mexican border
They chase us like outlaws like rustlers like thievesGoodbye to my Juan goodbye Rosalita
Adios mis amigos Jesus y Maria
You won’t have your names when you ride the big airplane
All they will call you will be “Deportees”The skyplane caught fire over Los Gatos Canyon
A fireball of lightning and shook all our hills
Who are all these friends all scattered like dry leaves
The radio says “They are just Deportees”Is this the best way we can grow our big orchards
Is this the best way we can grow our good fruit
To fall like dry leaves to rot on my topsoil
And be called by no name except “Deportees”Goodbye to my Juan goodbye Rosalita
Adios mis amigos Jesus y Maria
You won’t have your names when you ride the big airplane
All they will call you will be “Deportees”
Però c’è la bellissima versione che canto Bruce Springteen vent’anni dopo, nel 1996, in occasione della proclamazione dell’inserimento di Woody Guthrie nella Rock & Roll Hall Of Fame. La storia la racconta Andrea Falcone, che ha postato il brano su YouTube.
Nel 1996 Woody Guthrie venne accolto nella “Rock & Roll Hall Of Fame” e la sera della proclamazione, alla “Severance Hall” di Cleveland, alcuni grandi artisti suoi discepoli gli resero omaggio e accertarono la sua influenza a trent’anni ormai dalla morte. Fu un bellissimo show, con musicisti di varie e lontane generazioni: da Ramblin’ Jack Elliott che già negli anni Cinquanta agognava al ruolo di “figlio putativo di Woody” al figlio reale, Arlo, dai vecchi fan country Joe McDonald e Bruce Springsteen, a più giovani aficionados come Ani DiFranco e Dave Pirner, il leader dei “Soul Asylum”. Nel 2000, cioè quattro anni dopo, quel memorabile show esce dai cassetti e dalla circoscritta esperienza dei duemila spettatori e diventa disco, grazie all’amore e alla tenacia di Ani DiFranco e della sua etichetta “Righteous Baby”. Il CD si titola ” ‘Til We Outnumber ‘Em ” (e ha come sottotitolo “The Song Of Woody Guthrie”), vede l’interpretazione stupenda di Ani DiFranco in “Do Re Mi” e quella di Springsteen in “Plane Wreck At Los Gatos – Deportee” che vi propongo. Lo Springsteen che sceglie questa canzone è lo stesso che di lì a poco, in “The Ghost Of Tom Joad”, racconterà nella “trilogia del confine” storie analoghe dei tempi nostri, di immigrati messicani clandestini e ammazzati in California.
Los Gatos è uno di quei posti sperduti in fondo alla California che Jack Kerouac nomina di sfuggita senza fermarsi in “On The Road”, ma che per Woody Guthrie era carico di significato, perchè qui un aereo carico di braccianti messicani stagionali rispediti a casa a fine raccolto, precipitò uccidendoli tutti, e la radio commentò che in fondo erano “Just Deportees”, nient’altro che clandestini senza permesso di soggiorno, giustamente rispediti a casa loro quando non servivano più. E fu proprio durante gli anni Quaranta, il decennio più attivo per Guthrie, che scrisse “Plane Wreck At Los Gatos – Deportees” : è la voglia di Guthrie di affrontare temi difficile, la voglia di gridare la rabbia, il dolore. La voglia di essere la voce dei più deboli. Lui che veniva dalla campagna e dalla sua durezza e che aveva vissuto i picchetti degli operai, il crumiraggio, le angherie e la violenza dei padroni e dei proprietari terrieri, volle diventare il cantore, il testimone, dei più indifesi. Cantò la povertà, l’emarginazione, la fame e usò sempre il linguaggio della gente più povera, il linguaggio che aveva imparato da giovane e poi nei suoi vagabondaggi con gli altri hobos. Raccontava frammenti di vita, istantanee, singole immagine come solo una canzone può fare. Gridando il dolore e la disperazione ma senza vere velleità politiche come invece molti pensarono. La sua era una protesta che nasceva dalla conoscenza e dal dolore e che soprattutto nella prima fase delle sue canzoni non aveva, non poteva avere, una linea politica organica. Fu una voce ruvida e una chitarra elementare e non sempre accordata. Questo era Woody Guthrie con il suo talkin’ blues a metà tra la tradizione bianca e la tradizione nera della musica, una strada tutta sua con al centro i testi, le parole. Mai sconfitto cantò l’orgoglio degli sconfitti.
Stephenson, Neal, Joseph Brassey, Greg Bear, Erik Bear, Nicole Galland, Cooper Moo, Mark Teppo (2013). The Mongoliad: Book Three (The Foreworld Saga). Las Vegas: 47North. 2013. ISBN 1612182380. Pagine 804. 5,01 €
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Anche qui non ho molto da dire, rispetto alle recensioni che ho fatto al primo e al secondo volume della saga: una lettura piacevole, e poco più.
In questa terza parte si arriva a uno scioglimento, anche se molti fili restano penzolanti, ed è abbastanza evidente che gli autori si stanno lasciando aperta la possibilità di scrivere uno o più seguiti, gemmazioni, prequel, serie e di sfruttare – come si dice adesso – la franchise.
Tra i personaggi storici, è molto divertente il modo in cui è tratteggiato Federico II di Svevia; tra quelli non storici ma (quasi) credibili, il papa eletto Padre Rodrigo Bendrito, una specie di Albino Luciani ante litteram.
L’avanzata mongola – che nella storia raccontata sui libri di scuola si arresta per motivi in larga parte ignota – qui è interrotta dalle azioni dei nostri eroi, una via di mezzo tra il mucchio selvaggio del western e un’accolita di cavalieri jedi. Non si tratta quindi di una riscrittura integrale e ucronica della storia, ma di una sua piccola variante, di uno scarto in un universo parallelo in cui i sentieri che si dipartono nello svolgimento temporale canonico ritornano prima o poi a ricongiungersi alla strada principale (è la solita vecchia storia dell’ergodicità). Più che un Contro-passato prossimo alla Morselli un «para-passato remoto.»
* * *
Continuano a essere fastidiosissimi gli errori di latino. Ad esempio:
Quoniam fortiduo mea at refugium meum es tu. [2121; corsivo mio]
E, già che ci siamo, suppongo che quella che viene chiamata porta Flamina [7811] sia un refuso per Flaminia, che sia chiama peraltro Porta del Popolo. E quanto a the rounded dome of St. Peter’s Basilica [10531], nel 1241 non c’era nessuna cupola!
* * *
Ho imparato una nuova parola in inglese, che per la verità avevo già incontrato ma – avendone intuito il seno dal contesto – non ero andato a guardare sul vocabolario. Il Kindle, che ti dà la possibilità di raggiungere la definizione del lemma con un solo gesto sullo schermo, ti priva di ogni ragionevole alibi. Eccola:
widdershins:
adverb
chiefly Scottish
in a direction contrary to the sun’s course, considered as unlucky; anticlockwise:
she danced widdershins around him
Origin:
early 16th century: from Middle Low German weddersins, from Middle High German widersinnes, from wider ‘against’ + sin ‘direction’; the second element was associated with Scots sin ‘sun’
* * *
Come al solito, un piccolo florilegio di citazioni (riferimento alle posizioni Kindle):
[…] the palate of memory. [2037]
[…] the one whose hips are lower is the one who wins […] [2557]
They were prisoners, surely, but they were not broken men, not like some of the others who were so filled with bitterness and resentment that the very idea of rebellion was violently loathsome. But they were wary of being hopeful. It was a dangerous emotion, the kind that could get them killed. [2709]
“No,” she said, “the man with the huge sword speaks true. Were I as well-endowed as he, I would make sure to sheath such a weapon in every town I conquered. ’Tis only the basic rule of rapine, is it not? Take what isn’t yours. At sword point no less.” [3066: femminismo ante litteram in Vera!]
Gansukh waited a moment for Chucai to continue, but he wasn’t terribly surprised when the Khagan’s advisor said nothing. This was a not uncommon gambit on Chucai’s part: to start a conversation, and then let it peter into silence. He had infinite patience: as a hunter, he could probably outwait even the most cautious deer; as a veteran of the Khagan’s courts, there was no one more skilled than he at making silence excruciating. The more he learned from Lian, the more Gansukh had understood the merits of Chucai’s techniques. People were more likely to believe something they felt like they had a hand in creating. Order a man, and he will dutifully comply; let him possess an idea as his own, will he not leap to implement it with great enthusiasm? [5235]
“A man earns those things that he carries with him his entire life. Both his victories and his secrets. What he doesn’t earn haunts him, always.” [9256]
[…] I’m the most dedicated atheist alive.” [9458: è Federico II che parla]
Non so chi abiti, a Roma, al civico 1 di viale del Ciclismo, nel quartiere dell’Eur. Non mi interessa neanche tanto, e dico fin da subito – a scanso di equivoci e di possibili attenzioni poliziesche o giudiziarie – che la mia è una semplice osservazione / considerazione da cittadino che si trova a passare di lì nello svolgimento di attività salutistico-sportive.
Ho immaginato che si tratti (o si trattasse) di una personalità, e più esattamente di una personalità elettiva. Davanti a quella bella palazzina o villa unifamiliare (anche questo lo ignoro, dal momento che oltre alla recinzione metallica e alla siepe, l’abitazione è nascosta alla vista da un’impenetrabile staccionata in pannelli di legno) ha stazionato per mesi, 24 ore su 24, un Defender dei Carabinieri (a volte un diverso mezzo, e non posso escludere che a volte si sia trattato persino della Polizia di Stato). Sempre con il motore acceso. Sempre.
Non so per la verità da quanto tempo, dal momento che la mia attività sportiva, ancorché assidua, è piuttosto recente. Ma che il motore fosse sempre acceso (di notte e d’inverno per il freddo, suppongo; di giorno e d’estate per il caldo; nelle ore e nelle stagioni intermedie per noia o distrazione, chissà) ne sono certo.
Due o tre giorni dopo le elezioni, il mercoledì o il giovedì, la scorta e l’automezzo sono spariti. Naturalmente, mi sono figurato che il nostro sia uno dei tanti non eletti. Ma non ne sono certo e mi rallegro soltanto per l’alleviamento della sua impronta ecologica…
fiammeblu.it
Se vi state chiedendo il perché del titolo di questo post, posso riassumere così (da Wikipedia):
L’espressione eterogenesi dei fini, in tedesco Heterogonie der Zwecke, fu coniata dal filosofo e psicologo empirico Wilhelm Wundt. Con essa si fa riferimento a un campo di fenomeni i cui contorni e caratteri trovano più chiara descrizione nell’espressione «conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali».
last.fm
Un brano che mi è sempre piaciuto smodatamente, da un album che mi è sempre piaciuto smodatamente, di un gruppo che mi è sempre piaciuto smodatamente…
Riemerso oggi dal profondo della memoria e da un’imponente collezione musicale.
Quegli uccellacci stridenti al 3° minuto! Il video è costruito su Un Chien Andalou di Luis Buñuel.
The killer lives inside me: yes, I can feel him move.
Sometimes he’s lightly sleeping in the quiet of his room
but then his eyes
will rise and stare through mine;
he’ll speak my words and slice my mind inside…
Yes the killer lives.The angels live inside me: I can feel them smile.
Their presence strokes and soothes the tempest in my mind;
And their love
can heal the wounds that I have wrought,
They watch me as I go to fall – well, I know I shall be caught
While the angels live.How can I be free?
How can I get help?
Am I really me?
Am I someone else?But stalking in my cloisters hang the acolytes of gloom
and Death’s Head throws his cloak into the corner of my room
and I am doomed
But laughing in my courtyard play the pranksters of my youth
and solemn, waiting old man in the gables of the roof –
he tells me truth…I, too, live inside me and very often don’t know who I am;
I know I’m not a hero – well, I hope that I’m not damned.
I’m just a man
and killers, angels, all are these:
Dictators, saviours, refugees in war and peace
as long as man lives…I’m just a man
and killers, angels, all are these:
Dictators,
Saviours,
Refugees.
E come ho fatto a perdermi il concerto di Roma del 4 aprile 2011?
Non è una parola scoperta ora. La conosco da anni ed è anzi una delle mie preferite (per motivi che saranno presto ovvi). Ma la facevo derivare da un’etimologia erronea, anche se affascinante, e sono qui a emendarmi.
Ma intanto cominciamo dalla definizione che prendo, come di consueto, dal Vocabolario Treccani:
Aggettivo e sostantivo maschile: di medicamento (cardamomo, cannella, anice) cui si attribuiva la capacità di promuovere l’espulsione di gas presenti nel tratto gastro-intestinale e di calmare i dolori da questi provocati.
Cardamomo / wikimedia.org/wikipedia/commons
Cannella / wikimedia.org/wikipedia/commons
Anice / wikimedia.org/wikipedia/commons
Poiché ho l’età mentale di un bambino di 3 anni, che ha appena conseguito il controllo dei propri sfinteri e, pertanto, è ancora affascinato dalle sue funzioni corporali più “basse”, facevo discendere l’aggettivo italiano carminativo dal sostantivo latino carmen («canto»). I carminativi – mi dicevo –, favorendo l’espulsione di gas intestinali dall’un orifizio o dall’altro del tubo digerente, consentono prestazioni sonore tonitruanti, se non leggiadre. Celebrate da letterati e poeti: forse non dal Bruce Chatwin de La vie dei canti, ma certamente dal nostro padre Dante nel Canto XXI dell’Inferno, laddove il diavolo Barbariccia dà in questo modo il segnale del via alla marcia della sua demoniaca compagnia («ed elli avea del cul fatto trombetta»). Ma le citazioni letterarie sono troppe per poterle citare qui (potete andarvele a leggere alla voce Flatulenza di Wikipedia). Mi limiterò a citare il mio amato conterraneo Teofilo Folengo aka Merlin Cocai che nel suo Baldus disserta in latino maccheronico sulla differenza tra pernacchia e flatulenza, distinguendo poi all’interno di quest’ultima tra peto e scoreggia. Attribuendo peraltro il tutto nientemeno che al filosofo arabo medievale Averroè:
Petezatio fit dupliciter, ait Averois: altera causa bertezandi, altera causa sanitatis; prima ore, secunda et coetera.
Pettus est ventositas tundior coreza. Testatur Averois.
Purtroppo, pare che la mia etimologia sia sbagliata. Gli studiosi concordano nel derivare l’aggettivo dal verbo latino carminare, ma poi si dividono su quale dei due significati del verbo latino sia all’origine del significato dell’aggettivo italiano. Nella prima accezione, carminare deriva sì da carmen, ma inteso come strumento per cardare la lana:
Pettinare, scardassare la lana e il lino; figurato, scherzoso: il misero Martellino era senza pettine carminato (Boccaccio), cioè malmenato, graffiato. Con altro senso figurato, esaminare minutamente: carminandosi la questione (Sacchetti). [Vocabolario Treccani]
I carminativi, cioè, pettinerebbero l’intestino guidando passo passo i gas verso il loro esito naturale.
Nella seconda, di carmen si usa piuttosto l’accezione di «incantesimo», cioè sortilegio atto a sanare un malessere clinico:
Nel linguaggio medico del passato, promuovere l’espulsione dei gas presenti nell’intestino. [Vocabolario Treccani]