Contro gli emblemi

Readwise mi ripropone un passaggio di Consider Phlebas di Iain M. Banks che mi sembra interessante e tuttora attuale:

It would have helped if the Culture had used some sort of emblem or logo; but, pointlessly unhelpful and unrealistic to the last, the Culture refused to place its trust in symbols. It maintained that it was what it was and had no need for such outward representation. The Culture was every single individual human and machine in it, not one thing. Just as it could not imprison itself with laws, impoverish itself with money or misguide itself with leaders, so it would not misrepresent itself with signs.

Sarebbe stato utile se la Cultura si fosse avvalsa di un qualche tipo di emblema o logo. Ma – rigida fino all’ultimo – si rifiutava di avere fiducia nei simboli. Sosteneva di essere ciò che era, e di non aver bisogno di una rappresentazione esteriore. La Cultura non era una cosa, ma ogni singolo individuo che ne faceva parte, uomo o macchina che fosse. Allo stesso modo in cui non poteva vincolarsi con le leggi, impoverirsi con il denaro o mettersi fuori strada con i leader, così non poteva ammettere di essere mal rappresentata da un segno. [libera traduzione mia]

Il punto è radicalmente libertario (o forse anarchico). Gli emblemi riducono la complessità, e come tali sono utili, alla stregua dei modelli che adoperiamo continuamente, nel metodo scientifico e nella vita quotidiana. Ma quando sono applicati alla individualità dei soggetti e alla molteplicità dei comportamenti – come accade nelle imprese, nelle istituzioni e nelle società – ne impoveriscono la ricchezza e ne banalizzano la rappresentazione.

Portare la sposa in braccio attraverso la soglia

La tradizione è diffusa in molte culture e in molti paesi.

Secondo Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Nozze#La_sposa_varca_la_soglia_in_braccio_allo_sposo) fu Plutarco di Cheronea (intorno all’anno 100 dell’era comune) a formulare tre possibili spiegazioni dell’uso, ma l’affermazione (sempre secondo Wikipedia) è priva della fonte.

Io ho scovato il passo in cui Plutarco ne parla, e ne sono abbastanza orgoglioso: è nella sua opera Moralia, al paragrafo 29. del capitolo 20, Questioni romane. Cito dall’edizione curata da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani per l’editore Bompiani (Tutti i Moralia, 2017):

Perché non consentono che la sposa varchi da sola la soglia della casa, ma gli accompagnatori la prendono in braccio? Forse perché così portarono in casa le prime mogli, dopo averle rapite, mentre esse non entrarono da sole? o vogliono mostrare che entrano costrette, e non volontariamente, dove sono destinate a perdere la verginità? o è un simbolo del non uscire e non lasciare la casa da sola, se non fosse costretta, così come costretta è entrata?

Di Pietro da Cortona – Web Gallery of Art:   Immagine  Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6489179

Per quanto pittoresco sia il riferimento al Ratto delle sabine nella prima ipotesi, dalle altre due emerge chiaramente una concezione patriarcale del matrimonio, né poteva essere diversamente nella cultura romana e anche in quella ellenistica di Plutarco. Non si può certo giudicare il passo alla luce delle sensibilità (e suscettibilità) di oggi.

A me – però – sembra molto più poetica e curiosa la spiegazione che ne dà Svetlana Aleksievič (Nobel per la letteratura 2015) nel suo Tempo di seconda mano:

Lo sposo porta la sposa tra le braccia come fosse un bambino per non farsi accorgere dallo spirito della casa. Il domovoj non ama gli estranei, li scaccia. È lui il padrone della casa, bisogna piacergli. A-a-ah… (posizione Kindle 1493)

File:Domovoi Bilibin.jpg
Ivan Jakovlevič Bilibin, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

Il domovoj è nella mitologia slava una creatura maschile, spesso di piccola taglia e coperta di peli, che alligna tra le mura domestiche e protegge l’unità familiare. In quanto nume tutelare, il domovoj era tenuto in grande considerazione dagli abitanti della casa e trattato con ogni riguardo (https://it.wikipedia.org/wiki/Domovoj).

Notre-Dame, la bibbia di pietra e lo stormo d’uccelli

Dopo l’incendio della cattedrale di Notre-Dame a Parigi sono state dette e scritte molte cose, spesso irrilevanti o stupide. Non voglio aggiungermi al coro.

Però vorrei dire che – nella mia modesta opinione – un punto centrale delle riflessioni che la distruzione della cattedrale già sta suscitando è quello dell’identità. Non tanto del rapporto tra il monumento e l’identità francese, che pure esiste ed è rilevante, ma della stessa identità della cattedrale stessa. L’identità di cui parliamo qui non è l’identità nella sua accezione logico-matematica di perfetta eguaglianza, ma in quella propria del linguaggio comune quando si fa riferimento all’identità di una persona come “entità distinta dalle altre e continua nel tempo”, come la definisce il Vocabolario Treccani. Non c’è dubbio che ognuno di noi ha il senso della propria identità, “il senso e la consapevolezza di sé” (è sempre i Vocabolario Treccani che ci soccorre), anche se in “un essere umano adulto ogni giorno muoiono dai 50 ai 100 miliardi di cellule” e in “un anno la massa delle cellule ricambiate è pari alla massa del corpo stesso” (lo afferma qui il prof. Paolo Pinton). E anche a fronte di un evento traumatico, come l’amputazione di un arto, non smettiamo neppure per un secondo di pensare che, nonostante quella perdita, siamo rimasti noi stessi.

Lo stesso – è quello che voglio dire – accade per le città e per gli edifici. L’identità di una città, nel senso che ho cercato di argomentare, non cambia al mutare delle vicende demografiche o dell’estensione dell’abitato. L’identità di una cattedrale non cambia per effetto dei periodici interventi di manutenzione cui è sottoposta. E, secondo me, non cambia neppure quali che siano le travagliate vicende che attraversa nella sua vita: dalla fantasia neogotica di Viollet-le-Duc nella seconda metà del XIX secolo a quella che sarà la ricostruzione da intraprendere ora.

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Democracy Index 2018: l’Italia perde 12 posizioni

Ieri, 9 gennaio 2019, l’Economist (o meglio l’Economist Intelligence Unit, EIU, la divisione di ricerca e analisi del gruppo che pubblica il settimanale) ha pubblicato l’edizione 2018 dell’annuale Democracy Index (Political participation, protest and democracy).

Non sono un tifoso delle classifiche, e sono perfettamente consapevole dei limiti in cui si incorre nella costruzione di indicatori compositi e complessi, essendo stato un operatore della statistica pubblica per quasi 25 anni. Il lavoro dell’EIU, se non altro, ha il merito di rendere pubbliche le sue metodologie: il relativo capitolo occupa 17 pagine delle 62 di cui si compone il rapporto.

Un punto su cui vorrei si riflettesse è che – per quanto affetti da errore possano essere le singole valutazione e i procedimenti di sintesi – la caduta di 12 posizioni è troppo grande per essere sottovalutata o passata sotto silenzio. Un secondo punto riguarda l’autorevolezza e la visibilità della fonte: non ci si può permettere di liquidare con un’alzata di spalle il giudizio qui formulato. Siate pur sicuri che qualcuno là fuori (i famigerati mercati, Soros, Bilderberg, la Trilateral, la Spectre…) ne prenderà nota e prenderà le sue decisioni tenendo conto anche di questo elemento.

La classifica stilata dall’EIU anno dopo anno è piuttosto stabile. Le prime e le ultime posizioni non sono cambiate di molto rispetto allo scorso anno. Ma nella parte centrale della classifica c’è stato un certo movimento. I due paesi che hanno perso più posizioni (17) sono entrambi nell’America centro-meridionale, Nicaragua e Venezuela. Ma se ho ben capito, noi siamo al terzo posto per entità della caduta: siamo precipitati più della Turchia (dieci posti persi) e della Russia (nove). Insomma, non siamo in compagni di fulgidi esempi di democrazia.

Secondo gli analisti dell’EIU, in Italia nelle elezioni parlamentari di marzo il venir meno della fiducia nelle forze politiche tradizionali ha prodotto una clamorosa vittoria per il Movimento 5 Stelle (M5S) e la Lega – il primo definito forza anti-establishment e la seconda forza euroscettica. La coalizione di governo che ne è scaturita ha assunto una posizione dura contro l’immigrazione. Siamo classificati tra le “democrazie imperfette” (e non tra le “democrazie piene”), ma almeno tra queste siamo in buona compagnia in Europa (le altre sono Portogallo, Francia, Belgio, Cipro e Grecia). La spiegazione del declino – secondo il rapporto, che ci accomuna in questa spiegazione all’Austria – è che l’incapacità dei grandi partiti tradizionali di affrontare le preoccupazioni e le insicurezze di fasce importanti della popolazione ha premiato le forze anti-sistema e che, a loro volta, le misure adottate dai nuovi governi hanno trascinato verso il basso i punteggi relativi a cultura politica, funzionamento del governo e libertà civili.

All’Italia sono dedicati un capoverso e un focus. Li riporto qui (parafrasati) nella mia traduzione:

In Italia, le elezioni parlamentari di marzo hanno visto la clamorosa vittoria del Movimento 5 Stelle (M5S), che ha conquistato il 33% dei voti, e della Lega, che si è assicurata il 17%. Il Partito Democratico (PD) di centro-sinistra, che era al governo, ha riportato una bruciante sconfitta. Le elezioni hanno messo in evidenza il malcontento popolare legato alla situazione economica e alle preoccupazioni per l’immigrazione. Dopo lunghi negoziati, a fine maggio le due forze vincitrici si sono accordate per formare una coalizione. Fin dalla formazione del governo, Matteo Salvini, leader della Lega, ministro dell’Interno e vice primo ministro, ha dominato l’agenda politica con la sua posizione dura contro l’immigrazione.

 

Il focus è intitolato “Il governo anti-sistema e la minaccia alle libertà civili”.

L’Italia ha sperimentato una caduta importante della sua posizione nella classifica complessiva del Democracy Index, scendendo al 33° posto, dal 21° del 2017. La profonda sfiducia nelle istituzioni politiche, compresi parlamento e partiti, ha alimentato il crescente sostegno a “uomini forti” e l’indebolimento della componente di “cultura politica” dell’indice. Questa disillusione è culminata nella formazione di un governo anti-sistema che include la Lega, partito xenofobo di estrema destra.

Il ministro dell’interno, vice primo ministro e leader della Lega, Matteo Salvini, ha spesso usato una retorica anti-straniera, ampiamente criticata dalle associazioni per i diritti umani. In qualità di ministro dell’interno, Salvini ha sostenuto lo sfratto di membri della minoranza Rom da case “occupate” in città come Roma e Torino nel mese di luglio, nonostante l’ordine emanato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. A settembre l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni unite, Michelle Bachelet, ha dichiarato di voler inviare osservatori dell’ONU in Italia per indagare sul crescente numero di attacchi contro i richiedenti asilo e la popolazione Rom.

Anche in materia di immigrazione il nuovo governo italiano ha adottato una linea più dura rispetto al precedente. In giugno e luglio il governo ha rifiutato di far attraccare navi che trasportavano migranti salvati in mare durante il viaggio verso l’Europa. Alla fine di agosto ha minacciato di trattenere il contributo al bilancio comunitario a meno che tutti i 150 migranti su una nave della guardia costiera italiana, l’Ubaldo Diciotti, in attesa del permesso di attracco nel porto di Catania, non fossero accolti da altri paesi dell’UE. A settembre la signora Bachelet ha dichiarato che la decisione del governo di rifiutare l’ingresso per il salvataggio delle navi che trasportano migranti ha avuto “gravi conseguenze per le persone più vulnerabili”.

Tutti questi aspetti contribuiscono ad aumentare il rischio di deterioramento delle libertà civili. Oltre a considerare esplicitamente la tutela dei diritti umani e la discriminazione, il Democracy Index tiene conto del fatto che il governo invoca nuove minacce come alibi per limitare le libertà civili. Alla fine di novembre il Parlamento italiano ha approvato il cosiddetto Decreto Sicurezza del governo, che potrebbe porre fine alla protezione umanitaria per circa centomila migranti. Il governo ha anche minacciato di sospendere la sua partecipazione a una missione internazionale volta a sostenere la guardia costiera libica se altri paesi membri dell’UE non accetteranno un maggior numero dei migranti salvati dalla missione, per la maggior parte destinati a sbarcare in porti italiani. Infine, l’Italia si è unita al gruppo di paesi che si oppongono al Global Compact on Migration, un accordo non vincolante proposto dalle Nazioni Unite, segnalando la volontà di sfidare le istituzioni internazionali sulla politica migratoria.

 

 

Sesso estremo: come fare se la tua ragazza è 70 volte più grande di te?

Nelle limpide acque della grande barriera corallina un maschio di polpo della specie Tremoctopus violaceus si avvicina alla femmina. Lei, 70 volte più grande di lui, nemmeno se ne accorge. Lui le lascia uno dei tentacoli, carico di sperma, e se ne va con gli altri sette.

Meglio così, perché ai ragni può andare peggio. Meglio se la femmina non si accorge di te: altrimenti ti mangia. Essere piccoli è dunque un vantaggio.

Quanto al maschio di questa rana pescatrice, non fa nemmeno la fatica di svilupparsi completamente. Privo di apparato digerente, sta in agguato sul fondo: quando percepisce l’avvicinarsi di una femmina, 64 volte più grande di lui, si lancia e l’addenta. Poi, lentamente, la sua bocca e il suo corpo si fondono con lei, prelevando nutrimento attraversi i vasi sanguigni, e rilasciando sperma per fecondarne le uova.

Fonte: What to Do When Your Girlfriend Is 70 Times Bigger Than You – Facts So Romantic – Nautilus

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Ne uccide più il selfie dello squalo

Quest’anno, fino a oggi, le persone morte facendosi un selfie sono state 12, quelle morte per l’attacco di uno squalo otto soltanto.

Aspettiamo con ansia la notizia di qualcuno morto per essere stato sbranato da uno squalo con cui stava facendosi un selfie.

66-year-old Japanese tourist has died, and his travel companion has been injured, after falling down stairs while attempting to take a selfie at the Taj Mahal.The man’s death raises the selfie-related death toll this year — to 12. To put that in perspective, in 2015 there have so far been eight deaths caused by shark attacks.

Fonte: More people have died from selfies than shark attacks this year

E vai con la mezza barba!

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Arial ed Helvetica pessimi per leggere testi lunghi

Meglio Georgia e, se proprio volete un carattere senza grazie, Verdana.

Qui tutta la spiegazione.

Your E-mail Font Is Ruining Your Life – Bloomberg Business.

Essere sicuri di sé non è essere convinti di farcela, ma saper convivere con i propri limiti

Detta così, è un’enorme banalità, ma l’articolo che segnalo (The one thing all confident people know – Quartz) va un po’ più in là.

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Non dàtevi obiettivi, costruite abitudini e sistemi, piuttosto

Tutte le bibbie aziendali e i loro profeti sostengono che dare (o darsi) degli obiettivi e poi realizzarli sia la ricetta sicura per il successo.

Contrordine, compagni. Adesso pare che darsi un obiettivo sia la ricetta sicura per l’insuccesso.

Non lo dico io. Lo sostiene Scott Adams, il creatore di Dilbert:

Goals are for losers. [Scott Adams. How to Fail at Almost Everything and Still Win Big: Kind of the Story of My Life]

… you will spend every moment until you reach the goal — if you reach it at all — feeling as if you were short of your goal. In other words, goal-oriented people exist in a state of nearly continuous failure that they hope will be temporary.

Per di più, fissare un obiettivo significa (ovviamente) non averlo ancora raggiunto e, quindi, conferma la sensazione di essere inadeguati. Tipico della mentalità da perdenti:

When you’re working toward a goal, you are essentially saying, ‘I’m not good enough yet, but I will be when I reach my goal’. [James Clear]

Se – come spesso accade – l’obiettivo è fuori dal tuo controllo, in tutto o in parte, ecco garantita la frustrazione.

Che fare allora? Questo articolo [Goals Suck: Why Building Habits and Systems Makes Sense] suggerisce di puntare su abitudini e sistemi.

Un sistema è un processo da seguire. Si può ripetere e ogni volta porta allo stesso risultato (o a un risultato simile). Naturalmente, per costruire un sistema ci vogliono tempo e fatica. Ma mentre lo costruisci, impari tantissimo sul risultato che vuoi ottenere e su come ottenerlo.

Sono sistemi in questa accezione il tuo programma di esercizio fisico, la tua routine di lavoro, il tuo progetto di auto-apprendimento.

Un’abitudine è un’azione ripetibile. È qualcosa che fai senza pensarci. In questo è diversa da un sistema, che è una sequenza di azioni consapevoli (nell’esempio che abbiamo fatto poco fa, il tuo programma di esercizio fisico è un sistema fatto di un alternarsi di corsa, ginnastica e riposo).

Sono esempi di abitudini quella di mangiare il frutta a colazione, di correre tutti i giorni di bel tempo, di leggere prima di addormentarsi.

Sistemi e abitudini hanno in comune la ripetizione. Per costruirli, si deve prendere una piccola decisione ogni giorno, non fissarsi su una meta lontana. Ci vorrà del tempo (tipicamente un paio di mesi, secondo l’articolo che sto citando), ma alla fine sarà diventata una seconda natura.