Gianmaria Testa – 26 maggio 2012

Sapevo ben poco di Gianmaria Testa, soprattutto che era stato capostazione e che era un cantautore amato in Francia. Due buoni motivi per diffidarne:

  1. Se di un musicista i media riepetono ossessivamente per prima cosa che era stato un ferroviere, ti viene il sospetto che la sua musica sia poco rilevante.
  2. I francesi spesso amano di noi gli artisti più radical-chic (mi vengono in mente, in ordine sparso, Bernardo Bertolucci e Nanni Moretti, Paolo Conte e – appunto – Gianmaria Testa). Quelli che i francesi chiamano bobos.

Il CD Valzer di un giorno, venduto in edicola dalle edizioni de L’Unità, non mi aveva convinto del tutto. Alcune canzoni erano belle, ma l’operazione – che alternava canzoni scritte e cantate da Testa a poesie recitate, sempre da Testa, ma scritte da Pier Mario Giovannone – mi era sembrata al tempo stesso minimalista e ambiziosa. Un disco ascoltato qualche volta e presto dimenticato. Ero forse il solo a pensarla così: la sua musica la percepivo sì come minimale, ma spesso enfatica e non sempre ispirata. Quella che segue è la recensione di Gianni Sibilla su rockol.it del 18 novembre 2000:

Una buona occasione per scoprire un cantautore di cui si è parlato spesso a sproposito. Più noto in Francia che in patria, il cuneese Testa ha pubblicato oltralpe i suoi tre dischi, ricevendo attenzione soprattutto come “fenomeno” più che come musicista. Questo “Il valzer di un giorno” è il primo lavoro prodotto totalmente in Italia. E’ un disco “popolare”, come ama definirlo lo stesso Testa: distribuito nelle edicole dalla Elleu Multimedia al prezzo di 18.000 lire, è fatto di semplici canzoni per chitarra e voce.
Insieme a Piermario Giovannone, Testa rilegge il proprio repertorio, “denudando” con sola chitarra e voce canzoni come “Il viaggio”, “Un aeroplano a vela” (a suo tempo incisa anche dalla Mannoia) e “Polvere di gesso”. Completano la lista delle canzoni due inediti, quello che dà il titolo all’album e “Piccoli fiumi”, oltre a cinque poesie di Giovannone lette da Testa.
Quello che emerge è il ritratto di un musicista e della sua musica minimale, mai enfatica, ma sempre ispirata. Musica d’altri tempi, che giustamente si fa un vanto d’essere inattuale, e che merita attenzione, per il semplice fatto che è bella, al di là di ogni paragone temporale o personale.

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Qualche anno dopo, una persona mi chiese se conoscessi Gianmaria Testa e io risposi quello che vi ho appena raccontato: che avevo comprato un disco e che mi era piaciuto così così. Mi si spiegò dunque che quello era un disco sui generis nella produzione di Testa e che avrei dovuto ascoltare Lampo, il suo capolavoro. Lo ascoltai con attenzione, con altrettanta attenzione riascoltai Valzer di un giorno. Meglio, mi dissi, ma non sono convinto del tutto.

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Poi mi è capitato, quasi per caso, di sentire questo suo concerto in una piazza di Ravenna, a un festival organizzato dalla CGIL locale. Piazza Marsala. Una sera tiepida e serena, con qualche refolo di brezza. Un centinaio di persone, a occhio e croce. Gianmaria Testa suona per un paio d’ore, con un quartetto affiatato e composto (se interpreto bene quello che ho trovato sul web) da Philippe Garcia alla batteria, da Nicola Negrini al contrabbasso, dal polistrumentista Piero Ponzo, oltre che dallo stesso Testa alla chitarra e alla voce. Un bellissimo concerto, di gente che fa musica davvero e con passione.

Ascoltare per credere.

Chiesa e scienza: quando decretò che il castoro è un pesce

Lo racconta Scientific American in un articoletto gustoso (anche se sa un po’ di pesce) di Jason G. Goldman pubblicato il 23 maggio 2013: Once Upon A Time, The Catholic Church Decided That Beavers Were Fish | The Thoughtful Animal, Scientific American Blog Network.

scientificamerican.com/

In addition to disease, the European settlers also brought Catholicism with them, and successfully converted a large proportion of the indigenous population. And the native Americans and Canadians loved their beaver meat.

So in the 17th century, the Bishop of Quebec approached his superiors in the Church and asked whether his flock would be permitted to eat beaver meat on Fridays during Lent, despite the fact that meat-eating was forbidden. Since the semi-aquatic rodent was a skilled swimmer, the Church declared that the beaver was a fish. Being a fish, beaver barbeques were permitted throughout Lent. Problem solved!

Ma non è un caso isolato: oltre a quelli raccontati nell’articolo di Scientific American (fate i bravi, leggetelo tutto), c’è anche quello famoso dell’oca artica (chiamata barnacle gooseBranta leucopsis), di cui si credeva che i barnacles, o percebes, o perceves fossero le uova e che dunque, in quanto di origine marina, era consentito mangiare nei giorni e nei periodi di magro (è una storia che ho raccontato qui).

Dan Brown – Inferno

Brown, Dan (2013). Inferno. London: Bantam Press. 2013. ISBN 9781448169795. Pagine 482. 12,99 €

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Non vi dovrebbe essere sfuggito che, nonostante la mia età, in tema di libri la combinazione di curiosità e ingenuità mi porta a comprare e a leggere polpettoni inenarrabili.

Di Dan Brown sapevo tutto, perché se ne parla da anni. Anche di questo libro, atteso da molti (non da me) e non accolto favorevolmente dalle prime recensioni. Due le aggravanti: avevo già letto l’imbarazzante Codice Da Vinci e il marginalmente migliore Digital Fortress (per quest’ultimo, scritto da un autore non ancora baciato dall’inspiegabile successo, avevo la scusa che si parlava di crittografia, un tema che mi stuzzica molto). Ecco, anche per leggere questo avevo un alibi di questo tipo: avevo letto che il romanzo parlava di transumanesimo, che è un mio recente interesse (Nexus). È vero, se ne parla, e non è neppure la parte peggiore del romanzo. Ma non posso dirvi quasi niente di più, per non rovinarvi la lettura (ammesso che non vogliate seguire il mio consiglio, di consumare in modo diverso il vostro tempo prezioso, dedicandovi ad altre letture, o al giardinaggio, o ai pediluvi balsamici, e vi ostiniate pervicacemente a leggere best-seller di bassa qualità).

Posso invece raccontarvi con dovizia di particolari che cosa in questo brutto romanzo non funziona (il che, naturalmente, non gli impedirà di stare per mesi in cima alle classifiche di tutto il mondo, di arricchire ulteriormente il suo autore e di essere tradotto in un film di altrettanto successo).

Per prima cosa – me ne ero già reso ampiamente conto leggendo Digital Fortress dopo aver già letto The Da Vinci Code – Brown usa sempre gli stessi espedienti narrativi: i personaggi non sono quello che affermano o vogliono far credere di essere e quindi ogni tanto c’è un colpo di scena. Peccato che i colpi di scena non siano più tali dopo la prima o seconda volta che li usi e che alla lunga diventino una sorta di stilema browniano: i buoni sono in realtà cattivi ma forse alla fine si scopre che in fondo erano buoni davvero, e viceversa.

In secondo luogo, c’è il problema della serialità: questo è il quarto romanzo che vede come protagonista Robert Langdon, professore di storia dell’arte e simbologia all’Università di Harvard. Ora, se era plausibile che il nostro ignaro professore si trovasse catapultato in una storia di sangue e mistero la prima volta (Angeli e demoni, che non ho letto; Il codice Da Vinci è già la seconda avventura), al procedere della serie qualche sospetto di essere finito dentro un mondo di fantasia dovrebbe affacciarglisi alla mente, al nostro eroe, soprattutto a una mente tanto eccelsa come la sua. Che fare?, si dev’essere chiesto Dan Brown. Massì, facciamogli venire una bella amnesia retrograda. Magari limitata a un paio di giorni, in modo che conservi intatte le sue conoscenze enciclopediche e le sue facoltà mentali, ma che ci sia possibile manipolare la sequenza degli eventi e i ruoli dei personaggi nel modo più funzionale alla successione di colpi di scena (!) di cui si diceva poco fa.

Il romanzo è costruito come un gioco. Nel 1987 o poco dopo mi dedicavo sul Mac a un gioco che si chiamava The Fool’s Errand: la storia, articolata in cinque parti, era basata sugli arcani dei tarocchi e ogni capitoletto conteneva un incantesimo, cioè un rompicapo che ti faceva avanzare nel gioco, sbloccando il testo di capitoli che in precedenza non erano visibili. Ecco, Inferno è costruito così: gli indizi che via via Langdon decifra ti portano da qualche parte in un percorso (non rivelo niente che non sia già stato ampiamente commentato sulle recensioni) che va da Firenze, a Venezia, a Istanbul. Se vi viene il sospetto che il procedimento divenga rapidamente stucchevole, avete centrato il cuore del problema. Anche perché chi di noi (e io sono uno di quelli) per 3 anni al liceo è stato tormentato dal culto di Dante e dalle note al testo che ne svisceravano i molteplici livelli di significato, non si sorprende minimamente alla possibilità che possa essere utilizzato come generatore di rompicapo. Che tanto poi Langdon, nonostante l’amnesia e i tentativi di ammazzarlo, puntualmente svela.

I rompicapo sono tanti. Troppi per i miei gusti. Ma comunque non sufficienti a riempire le 500 pagine che contrattualmente il nostro Brown si era impegnato con la casa editrice a produrre. Niente paura. Basta prendere una buona guida delle 3 città visitate e inzeppare la storia di descrizioni tratte da lì. Ne consegue che almeno sotto il profilo turistico il libro è abbastanza preciso, anche se qualche strafalcione – come vedremo – sfugge all’autore. Ma almeno non abbiamo il brumoso porto di Civitavecchia visto dalla finestra di un palazzo di Roma, come accadeva (mi pare) ne Il mosaico di Parsifal di Robert Ludlum.

* * *

Le solite citazioni, compresi gli strafalcioni (riferimento alle posizioni Kindle):

[…] somewhere between dishonest and illegal. [689]

“[…] In the fourteenth century, Italian literature was, by requirement, divided into two categories: tragedy, representing high literature, was written in formal Italian; comedy, representing low literature, was written in the vernacular and geared toward the general population.” [1427: prima boiata]

I am the gateway to the Posthuman age. [2495]

Don’t ask. Just task. [3128]

[…] wooden planks propped between cinder blocks and inverted buckets. [3401: sarebbero le passerelle per l’acqua alta in piazza San Marco!]

“You almost sound like you’re a fan of Zobrist’s.”
“I’m a fan of the truth,” she replied forcefully, “even if it’s painfully hard to accept.” [3689]

[…] an entertaining Ross King book of the same name. [3990: si tratta di Brunelleschi’s Dome: The Story of the Great Cathedral in Florence. Ma chissà perché il nostro sente il bisogno di citarlo. Pubblicità?]

[…] Frecciargento’s private salottini […] [4692: ci sono solo sul Frecciarossa]

Soon the train would navigate the sinuous mountain pass and then descend again, powering eastward toward the Adriatic Sea. [4727: praticamente la tratta è tutta in galleria, altro che sinuoso passo di montagna da percorrere!]

[…] while there was no signal. [4927: Brown, che evidentemente questo viaggio non l’ha fatto, non sa che sul Frecciargento i salottini non ci sono, ma la copertura wifi sì]

[…] self-serve locker in the train station. [5172: anche questi mi pare li abbiano eliminati, per motivi di sicurezza, dopo l’11 settembre]

[…] before the plague weakened it enough for it to be conquered by the Ottomans, and then by Napoleon […] [5242: questa della conquista ottomana di Venezia è inedita]

Ironically, it was the population’s taste for foreign luxuries that brought about its demise—the deadly plague traveling from China to Venice on the backs of rats stowed away on trading vessels. The same plague that destroyed an unfathomable two-thirds of China’s population arrived in Europe and very quickly killed one in three—young and old, rich and poor alike. [5244: ma di che peste sta poi parlando? non di quella del 1348, direi; di quella manzoniana?]

“Robert, I thought you were a student of world history.”
“Yes, but the world is large, and history is long. […]” [5702]

“The best illusions involve as much of the real world as possible. […]” [6425]

Throughout all of human history, every groundbreaking technology ever discovered by science has been weaponized — from simple fire to nuclear power — and almost always at the hands of powerful governments. [7692]

You are a member of a new breed of thinkers. You provide counterpoint. [7920]

The Who – 25 febbraio 1967

Una parte dell’estate del 1966, il mese di luglio mi pare, lo passai in una vacanza organizzata dalla scuola, in una casa al mare tra Cecina e Vada, immersa nella pineta. Era l’estate tra la terza media e la prima superiore, un’estate di riti di passaggio. Erano i ruggenti anni Sessanta, l’età giusta per essere teenager (anche se mi sa che all’epoca si diceva adolescenti). C’erano i primi rotocalchi generazionali, Giovani e (un paio d’anni dopo) Ciao 2001: ricordo un numero di Giovani con Romina Power 14enne che ci fu prontamente sequestrato in classe. Quell’anno al mare c’erano due fratelli o cugini, di cui ero diventato amico. Lo ero particolarmente di uno dei due, che mi aveva guidato alla “nuova” musica (all’epoca la chiamavamo beat, non rock) e a un’inesorabile anglofilia (un’altra iniziazione che ebbi in quella vacanza fu quella a Tex e a Diabolik, io che ero cresciuto a Topolino). Quell’autunno convinsi i miei a comprarmi il primo 45 giri (Paperback Writer dei Beatles), mentre mia sorella (a rimorchio per par condicio ante litteram) si fece comprare Bang Bang dell’Equipe84 (con mio sommo disprezzo: perché non si era presa l’originale di Sonny & Cher?). Un 45 giri costava allora, ne sono abbastanza sicuro, 750 lire.

wikimedia.org/wikipedia

Ascoltavo tutto quello che G. S., il mio Virgilio, mi proponeva. Mi aveva segnalato questo gruppo, i Who (lo so che si chiamano The Who, è che uso la grafia e la pronuncia che usavamo all’epoca), che mi sembrava particolarmente “duro” e “progressivo” (parola che ancora non si usava) perché aveva la batteria in grande evidenza. Il loro singolo di quell’autunno, Happy Jack, aveva addirittura un assolo di batteria. Il batterista, Keith Moon, era già un mito e si era fatto fare una batteria speciale (sempre secondo G. S.: in realtà si limitava ad avere una doppia cassa). Ascoltare per credere.

Tutto questo per raccontare che il 25 febbraio 1967 gli Who fecero un concerto al Palalido di Milano. Il Palalido era a un passo da casa mia e il concerto era di pomeriggio, mi pare alle 14:30. I miei genitori non mi avrebbero mai dato il permesso, e quindi non lo chiesi. Tanto, non era poi difficile raccontare che sarei andato a studiare a casa di un compagno di scuola: ci coprivamo a vicenda. Così – ragionavamo allora, ma non mi sembra troppo sbagliato neppure adesso – così imparate a essere ossessivamente proibizionisti su tutto. Diventato a mia volta genitore, sono stato piuttosto permissivo e ho introdotto la massima aurea “non fare niente che papà non farebbe”: con quali risultati non so bene.

Insomma, andai. Non ricordo molto. Ricordo ad esempio un pallido solicello: ma Wolfram Alpha mi dice invece che era nuvoloso e che la mattina era piovuto. Su The Concert Database non c’è una tracklist o una setlist del concerto. L’unica traccia che mi sembra credibile è sul blog della classe 5ª F del liceo scientifico Vittorio Veneto, e non c’è poi molto da stupirsi, dal momento che stiamo parlando della maturità 1971 (lo stesso anno in cui mi sono ammaturato io, ancorché al classico) e che il Vittorio Veneto era lo scientifico pubblico di zona. Scrive dunque m (si firma solo con questa iniziale):

Nel ’67, al concerto degli Who al Palalido c’ero anche io. In quegli anni, si cominciava alle due del pomeriggio e si finiva alla sera con il susseguirsi di una dozzina di gruppi. Pete Townshend aveva una chitarra verde da un lato e gialla d’altro (una gretsch, per la precisione): alla fine fecero piazza pulita di tutto quanto fosse sul palco per la gioia (?) degli presenti.

Gli strumenti spaccati mi pare di ricordarli anch’io, come i saltelli di Pete Townshend: ma non sono in verità in grado di dire se sia un ricordo reale o la sedimentazione di quello che ho saputo e visto in molti concerti televisivi…

Insomma, un evento indimenticabile, ma dimenticato.

Andrés Neuman – Parlare da soli

Neuman, Andrés (2012). Parlare da soli (trad. Silvia Sichel). Firenze: Ponte alle Grazie. 2012. ISBN 9788862208130. Pagine 197. 9,99 €

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Vorrei sgombrare subito il campo da ogni possibile equivoco: stiamo parlando di un romanzo molto triste. La trama – se possiamo chiamarla così – è di una semplicità disarmante: Mario è molto malato e gli resta poco da vivere; il figlio Lito ha appena compiuto 10 anni; fanno insieme un viaggio in camion, un modo di stare insieme; la moglie, Elena, resta a casa.

Quello che è particolare di questo romanzo, dal punto di vista tecnico, è che i 3 protagonisti parlano da soli, a capitoli alterni (per quelli più pedanti di me: sì, l’ho controllato sul Vocabolario Treccani, lo si può dire anche se ad avvicendarsi sono in tre, e non soltanto in due, nonostante l’etimologia). Tre voci differenti, tre monologhi interiori, che vanno a formare una storia che le singole voci prima delineano e poi arricchiscono e completano.

E infatti, quello che ho trovato speciale in questo romanzo, pure così triste, è che nella vita di persone che si amano, anche se imperfettamente come si amano queste tre persone e come anche noi nelle nostre quotidiane esperienze ci amiamo (imperfettamente nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore non ci amiamo per niente), la diversità delle prospettive e dei punti di vista arricchisce e completa. E, se ci pensate, è per questo che in molti casi non stiamo da soli, ma costruiamo un nucleo in cui ci specchiamo e ci confrontiamo. Questo, secondo me, è quello che c’è di naturale nella famiglia come nucleo delle società umane, non una composizione standard sancita da qualche autorità superiore. La vita di queste tre persone (e il romanzo che ce la racconta) si dispiega così, nel contrappunto delle voci anche nella drammaticità e nella rassegnata tristezza di una storia come questa, in cui l’amore (imperfetto) finisce per la più irrimediabile delle ragioni, la morte di uno dei protagonisti.

Ed è il modo di raccontare di questo giovane scrittore argentino (posso chiamare giovane uno scrittore nato nel 1977? o sono io che invecchiando sposto l’asticella?) che rende questo romanzo veramente speciale, perché la storia – le dinamiche tra padre, madre e figlio – è quasi un luogo comune narratologico, da In viaggio con Pippo all’Ulysses di Joyce.

A parte gli scherzi, questo è un libro serissimo e molto bello. Vi consiglio vivamente di leggerlo (magari non in una grigia giornata di pioggia).

Prima di lasciare la parola a Neuman, vorrei segnalare l’uso che Elena, che è un’insegnante, fa delle letture che punteggiano le sue giornate, sottolineando dei brani e commentandoli con la sua voce, riportandoli alla sua vita e alle sue sensazioni di quel momento:

«La malattia, come la scrittura, ci viene imposta», sottolineo nel diario [di Juan Gracia Armendáriz]. «Perciò gli scrittori si sentono a disagio quando li si interroga circa la loro condizione», a noi professori, in un certo senso, capita il contrario, sembra sempre che sventoliamo il nostro ruolo come una bandiera, viviamo in un’aula. Immagino sia così anche per i medici, anzi ben peggio: per gli altri, sono sempre e soprattutto medici. «Però, se si domanda loro quali siano le tecniche preferite, o gli scrittori che amano di più, non smetteranno di parlare, proprio come gli ammalati che diventano particolarmente loquaci quando mostriamo interesse per i loro acciacchi», la differenza sarebbe che gli scrittori non possono evitare di parlare di ciò che li salva, mentre i malati non possono evitare di parlare di ciò che più odiano. [159]

Naturalmente non è tanto un vezzo di Elena, quanto una tecnica che Neuman usa per dare spessore alla dimensione filosofica del suo racconto e per aggiungere (molte) altre voci alle tre principali. E curiosamente (curiosamente almeno per me, cui è capitato di leggere fortuitamente questo romanzo a ridosso di Inventario sentimentale) è l’esatto opposto di quello che fa Giacomo Papi, che invece i riferimenti non li dissimula, ma li pone sotto i riflettori. E però sono del tutto inventati.

* * *

Qualche piccolo assaggio, per farvi capire come Neuman sia capace di far parlare le sue tre voci (consueti riferimenti alla posizione Kindle):

A volte ho la sensazione che i medici non ci parlino per farci capire cosa sta succedendo, ma perché impieghiamo ancora di più a capirlo. Nel frattempo, se si è fortunati, si guarisce dalla malattia. E, se non si guarisce, il medico almeno si sarà risparmiato la bega di anticipare gli eventi. [171: questa è Elena]

Il tappeto puzza di sigaretta. Ha dei buchi più grandi dei miei piedi. Ci si potrebbe giocare al minigolf [726: questo è Lito]

Il futuro: non la sua previsione, ma la semplice possibilità che esista. È questo che la malattia uccide, ancor prima di uccidere il malato. [726: questo è Mario]

L’amore non può entrare in noi che siamo disabitate. [948]

«L’immagine che costruisce Mallarmé parla della malattia come rassegnazione a vivere. E per evitare lo sfacelo gli oppone invano la lettura e il sesso». [996]

Quando muore una persona con cui sei andata a letto, cominci a dubitare del suo corpo e del tuo. Il corpo che avevi toccato si allontana dall’ipotesi di un nuovo incontro, diventa inverificabile, forse non è nemmeno esistito. Il tuo corpo stesso perde materialità. [1344]

L’amore fraterno è un legame sconcertante. In un secondo, può trasportarci dal più bieco distacco a una totale identificazione, e viceversa. [1667]

Giacomo Papi – Inventario sentimentale

Papi, Giacomo (2013). Inventario sentimentale. Bari-Roma: Laterza. 2013. ISBN 9788858108505. Pagine 188. 8,99 €

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Chi mi conosce nella vita reale oppure è un lettore assiduo od occasionale di questo blog sa, e ha toccato almeno metaforicamente con mano, la mia dabbenaggine. Fin dalle prime pagine e via via in misura crescente al procedere della lettura, mi chiedevo: ma come ho fatto a comprare questo libro? come sono caduto nella trappola dell’acquisto e della lettura di un genere letterario che sta molto in basso nella mia scala (pur onnivora) delle preferenze letterarie? un genere, che a essere sincero, un po’ disprezzo?

Ricordavo, piuttosto vagamente, un consiglio. Un consiglio non personale, piuttosto un articolo che avevo letto. Forse su Facebook un “amico” (sì, inutile sottolinearlo, sono scare quotes)? Un amico in carne e ossa mi sentivo di escluderlo. Più probabilmente una recensione: La Lettura del Corriere? Tuttolibri della Stampa? Poi mi si è accesa la lampadina: Il post! Ma certo! Un articolo su Il Post: Le madeleines di Giacomo Papi, di Giacomo Pai stesso, nella pagina della cultura, proprio il 25 aprile scorso. E d’impulso – perché se metti insieme che stai leggendo sull’iPad e che puoi acquistare l’e-book da Amazon con 1 click, letteralmente, non puoi che acquistare d’impulso – l’ho comprato.

Non l’ho letto immediatamente: avevo altro da fare e altri libri da finire. Quando l’ho finalmente preso in mano non ricordavo più molto bene le circostanze dell’acquisto e comunque il danno era fatto.

Perché Papi, a modo suo, è innocente. Nel suo articolo su Il Post lo dice addirittura già alla sesta riga:

Per tre anni ho scritto su «D di Repubblica» una rubrica intitolata Cose che non vanno più di moda (questo libro nasce così).

Certo, che il libro nasca così è una mezza verità, che potrebbe far pensare a uno sprovveduto (com’io sono e fui) che Papi abbia proceduto a una qualche rielaborazione o riscrittura, a una riorganizzazione dei materiali. Niente di tutto questo. Sono un centinaio di articoletti riprodotti tal quale: il colophon del volume, più onestamente, afferma che «[i] testi qui pubblicati, rivisti e modificati, sono apparsi su D di Repubblica tra il 2010 e il 2012». Il che mi fa pensare, dal momento che in 2 anni ci sono per l’appunto 104 settimane, che il nostro Papi non abbia fatto nessuna scrematura o abbia fatto una cernita quasi plebiscitaria: non si butta niente, come nel maiale.

Il genere è quello dell’elzeviro da terza pagina: cioè quello che, con rarissime eccezioni, mi sento di indicare come al tempo stesso sintomatico e responsabile del declino delle patrie lettere. Con l’aggravante di essere stato scritto per una di quelle riviste patinate che si allegano ai quotidiani per poter vendere pubblicità e i cui testi non pubblicitari spaziano tra l’assoluta irrilevanza e la tossicità.

Va detto a suo parziale merito che Giacomo Papi non è il peggiore, se lo paragoniamo ad esempio a Luca Goldoni che scriveva sul Corriere quando ero ragazzo e che mi irritava come la sabbia nelle brachette del costume da bagno, o alle platitude dell’immancabile e inarrivabile articolo del lunedì di Francesco Alberoni. Ma d’altro canto, leggere di seguito 100 componimenti scritti originariamente per essere letti, o meglio scorsi, a distanza di una settimana l’uno dall’altro non aiuta a gustare il libro. Ache se è prezioso per capire le tecniche narrative dell’autore: la descrizione dell’abitudine o della cosa che non c’è più, una dose di rimpianto un po’ crepuscolare (nel senso letterario, gozzanian-gucciniano, del termine), una spiegazione economico-sociologica sul perché le cose siano cambiate (naturalmente in peggio, come è sempre alla radice di ogni pensiero reazionario), qualche aforisma, e poi …

E poi il piccolo colpo di genio di Giacomo Papi, quello che alla fine lo salva dalla bocciatura senza esame di riparazione.

Poi la citazione, o l’aneddoto, di un personaggio rigorosamente inventato, di cui alla fine del volume si presenta una “bibliografia fantastica.” E, raffinatamente, come quei seduttori che sanno che la bellezza più preziosa è quella che rivela una minuscola imperfezione, accanto al raffinato poeta francese Jean-Pierre-Albert Bitouz e al monaco bizantino Esichio Cerulario, compare [posizione 279 sul Kindle] l’improbabile gesuita tolemaico ferrarese Giovanni Riccioli, che è invece un personaggio storico!

* * *

Alcune citazioni, divertenti se prese a piccole dosi:

Alle cabine telefoniche sono cresciute le ruote e si sono tramutate in automobili. [626]

[…] il dandy di massa […] [772]

L’esorcismo contro l’entropia e il caos si compie attraverso la sostituzione più che con la manutenzione. [826]

Il bello è il ridicolo visto di spalle. [1193]

Il tempo lungo della proprietà lascia spazio alla gioia breve dell’acquisto. [1230]

[…] brasarsi il cervello […] [1401]

Conoscere è un’attività, l’informazione invece si riceve. [1412]

Se ne può ricavare una specie di regola: se le macchine fanno un lavoro da uomini, tendono a comportarsi in modo umano; ma quando gli uomini fanno lavori da macchine, tendono a comportarsi da automi. [1904]

[…] fatichiamo ad accettare che la vita è una sola, non molte. Esistono più desideri di quanti possa contenerne un’esistenza […] [2217]

«Settembre, è l’ultima pesca, l’eterno si sgretola». [2237]

La vanità è una forza che non coincide con la stupidità, però le assomiglia parecchio, perché costituisce sempre un impedimento all’esercizio dell’intelligenza. [2342]

«Dicono che i giovani guardano lontano perché sono nani sulle spalle dei giganti (se fossero i giganti a sedersi sui nani sarebbe peggio)», annota nel 1937 Jules Les Jour in Je n’existe pas. «In verità siamo bruchi che sfottono farfalle, siamo farfalle che sfottono bruchi». [2681]

Le sei tasse più strane del mondo secondo GlobalPost

In un articolo di Katrine Dermody pubblicato il 14 maggio 2013 su Globalpost (Six of the world’s weirdest taxes) e ripreso lo stesso giorno da Salon (6 of the world’s weirdest taxes) le tasse più strane del mondo sono queste:

globalpost.com

  1. La tassa sugli smartphone e i tablet in Francia. In realtà è solo un’ipotesi, allo studio dello staff del presidente Hollande, volta a finanziare la celebrata exception culturelle francese, quella per cui dicono logiciel invece di software.
  2. La tassa sui superalcolici aromatizzati negli Stati Uniti. La tassa è attualmente di 13,50 US$ per proof-gallon (cioè per l’equivalente in alcol puro per unità di volume), ma se il prodotto è aromatizzato (tipo la vodka al lampone), a parità di gradazione gode di una riduzione d’imposta fino al 2,5%. Pare che Obama voglia cancellare questa anomalia.
  3. La tassa sulla barba in Russia. Non adesso, ma ai tempi di Pietro il Grande, che era glabro. Chi voleva portare la barba doveva acquistare dallo Stato, una tantum, una placca con incisa la frase «La barba è un inutile orpello».
  4. La tassa sulle scoregge di mucca nell’Unione Europea. Il metano contenuto nelle flatulenze dei ruminanti è responsabile del 18% dei gas serra a livello globale. Per questo, in molti paesi dell’Unione europea è stata introdotta una tassa sui bovini che varia tra i 18 e i 110 US$ per capo.
  5. La tassa sulla birra in Israele. Recentemente raddoppiata dal primo ministro Benjamin Netanyahu, da 60 cent a 1,20 US$ a bottiglia.
  6. La tassa sulle confezioni di cereali senza giocattoli in Canada. In realtà è il contrario: se le confezioni di cereali contengono un omaggio (purché non sia una bevanda alcolica!) sono esentate dalle tasse abituali. L’intento è quello di incentivare i bambini a fare una colazione sana. Evidentemente i canadesi non hanno la Nutella.

salon.com

 

Quelli che… Non abbia paura, guardi che è buonissimo

Combino in me due caratteri non proprio originalissimi: ho paura dei cani (da sempre: con qualche coloritura isterica, forse, ma con un solido fondamento razionale) e ho l’abitudine quotidiana di camminare di buon passo la mattina presto (da poco: per darmi delle arie ed essere à la page dovrei dire che pratico fitness walking). Una combinazione non particolarmente originale e, in genere, priva di problemi.

In genere, e quasi dappertutto, penso. Non in Italia, quanto meno non a Roma, dove alla mattina presto vige una sorta di happy hour, dedicata al latrato libero e aggressivo. Nei giardinetti della zona i cani scorrazzano senza freni, e anche senza museruola e senza guinzaglio, se è per quello. Ogni area verde è un cacatoio a cielo aperto (rarissimi i proprietari che raccolgono la deposizione con guanti, paletta e apposito contenitore). Ogni animale che si muova – altro cane, piccione, cornacchia, attempato camminatore come me – è un potenziale bersaglio, con tutto il corredo dell’aggressività canina: pelo irto e bocca spalancata con i denti in bella mostra, come ben descrive Ludovico Ariosto nel Canto II dell’Orlando Furioso:

Come soglion talor duo can mordenti,
o per invidia o per altro odio mossi,
avicinarsi digrignando i denti,
con occhi bieci e più che bracia rossi;
indi a’ morsi venir, di rabbia ardenti,
con aspri ringhi e ribuffati dossi […]

Eppure una norma recente, del 2009, ha confermato gli obblighi dei proprietari:

Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali
Ordinanza 03 marzo 2009
Ordinanza contingibile ed urgente concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani.
(G.U. Serie Generale, n. 68 del 23 marzo 2009)
[…]

Art. 1.
1. Il proprietario di un cane è sempre responsabile del benessere, del controllo e della conduzione dell’animale e risponde, sia civilmente che penalmente, dei danni o lesioni a persone, animali e cose provocati dall’animale stesso.
2. Chiunque, a qualsiasi titolo, accetti di detenere un cane non di sua proprietà ne assume la responsabilità per il relativo periodo.
3. Ai fini della prevenzione dei danni o lesioni a persone, animali o cose il proprietario e il detentore di un cane devono adottare le seguenti misure:
a) utilizzare sempre il guinzaglio ad una misura non superiore a m 1,50 durante la conduzione dell’animale nelle aree urbane e nei luoghi aperti al pubblico, fatte salve le aree per cani individuate dai comuni;
b) portare con sé una museruola, rigida o morbida, da applicare al cane in caso di rischio per l’incolumità di persone o animali o su richiesta delle Autorità competenti;
c) affidare il cane a persone in grado di gestirlo correttamente;
d) acquisire un cane assumendo informazioni sulle sue caratteristiche fisiche ed etologiche nonché sulle norme in vigore;
e) assicurare che il cane abbia un comportamento adeguato alle specifiche esigenze di convivenza con persone e animali rispetto al contesto in cui vive.
[…]

Dunque, i proprietari. Dove sono i proprietari? Stanno in branco anche loro. Forse non dovrei dire branco, ma muta: però stanno insieme per chiacchierare, e dunque il termine mi pare inappropriato. Guai a disturbarli, per chiedere aiuto o protestare. Prima ti guardano sorpresi. Poi, se osi protestare e richiamarli all’obbligo di guinzaglio e museruola, ti fanno osservare: «A quest’ora?» «A qualunque ora in cui manifestino la loro aggressività verso i malcapitati passanti,» rispondi. E a questo punto ti deridono: «Ma che, ci hai paura? [ti dànno del tu, come se foste vecchi compagni di bisbocce] Ma se non ha mai fatto male a nessuno!»

wikimedia.org/wikipedia/commons

Eh già. Non ha mai fatto male a nessuno.

Ma io non voglio essere il primo.

Fateci caso, ogni volta che un cane ferisce un passante o ammazza un bambino, il proprietario dichiara che era sempre stato un cane buonissimo e non aveva mai dato segni di aggressività.

L’ultimo caso è successo ieri a Lavinio, a pochi km da Roma (riprendo la notizia da RomaToday).

Lavinio: bimba di 15 mesi azzannata dal cane di famiglia

La piccola è stata trasportata in elisoccorso al Policlinico Gemelli e sottoposta ad intervento chirurgico. Il cane affidato al servizio veterinario locale

Una bimba di 15 mesi è in gravissime condizioni dopo essere stata azzannata dal cane di famiglia, un pastore maremmano. L’episodio è accaduto nella serata di ieri a Lavinio, sul litorale romano. Subito dopo, la bimba è stata trasportata in elisoccorso al Policlinico Gemelli di Roma, dove è stata sottoposta ad un intervento chirurgico.

AZZANNATA NEL GIARDINO – La bimba é stata azzannata dal cane alla testa e al collo mentre si trovava nel giardino di casa in braccio alla madre, che le stava dando da mangiare. Il cane, un pastore maremmano di cinque anni che era libero nel giardino, forse per gelosia si è scagliato su di lei. La mamma della bambina, una romana di circa 30 anni che durante l’episodio era in compagnia della nonna della piccola, ha subito chiamato i soccorsi. Il padre, convivente della donna, non era in casa durante l’episodio.

INDAGINI – Al momento il cane, che fino ad allora non aveva mai dato segni di particolare aggressività, è stato affidato al servizio veterinario locale. Sulla vicenda indagano i carabinieri della stazione di Lavinio.

Eccolo là, nella penultima riga: «il cane […] fino ad allora non aveva mai dato segni di particolare aggressività».

Mi auguro che i cani che dànno ripetuti e continui segni di particolare aggressività siano abbattuti tutti e subito. Senza farli soffrire, ma messi in condizione di non nuocere. Con buona pace dei miei amici specisti.

Jared Diamond – The World Until Yesterday: What Can We Learn from Traditional Societies?

Diamond, Jared ( 2012). The World Until Yesterday: What Can We Learn from Traditional Societies?. New York: Viking. 2012. ISBN 9781101606001. Pagine 512. 13,61 €

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Superato il traguardo dei 75 anni, Jared Diamond ha sentito il bisogno di scrivere una summa delle sue ricerche, ma anche delle sue convinzioni. O almeno così penso io, sia perché è una tentazione abbastanza frequente tra gli scienziati e gli accademici al momento di lasciare l’insegnamento e la ricerca attiva, sia perché – benché il filo conduttore del sottotitolo, Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, faccia da collante tra i vari capitoli – ognuno dei temi del libro avrebbe potuto costituire a pieno titolo un saggio a sé stante.

D’altro canto, Diamond ci ha sempre sorpreso per la vastità e l’apparente dispersione dei suoi interessi: dopo essersi addottorato in fisiologia sull’assorbimento del sale nella vescica, ha studiato sul campo (e continua a farlo) gli uccelli della Nuova Guinea e delle isole del Pacifico, ma la sua fama è legata soprattutto ad Armi, acciaio e malattie, un’originale sintesi di storia e geografia che gli ha valso un premio Pulitzer per la saggistica e fama mondiale. Lascio che sia la voce di Wikipedia a riassumerne i contenuti per voi:

Il libro è incentrato sulla ricerca di una risposta alla domanda che Yali, un abitante della Nuova Guinea, fece all’autore nel luglio del 1972: “Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?”, dove per Cargo si intendono tutti quei beni tecnologici di cui i guineani erano privi prima dell’arrivo dei coloni. In pratica l’autore cerca di rispondere alle seguenti domande: perché sono stati gli europei e gli americani del nord a sviluppare una civiltà tecnologicamente avanzata e non, ad esempio, i cinesi o i sumeri? Perché gli europei sono partiti alla conquista degli altri popoli (ottenendo evidenti successi, spesso con tragiche conseguenze per i “conquistati”), e non è avvenuto il contrario? Come mai i fieri guerrieri nativi americani sono stati spodestati dall’invasione di un popolo di agricoltori?

Riunendo in un unico libro cognizioni dalle più svariate discipline, Diamond sviluppa un quadro d’insieme sulla storia delle varie società umane a partire dalla fine dell’ultima glaciazione, avvenuta circa 13.000 anni fa. Per la prima volta, si riunisce nella visione storica un quadro formato da archeologia, antropologia, biologia molecolare, ecologia, epidemiologia, genetica, linguistica e scienze sociali, per non parlare della teoria del caos.

In pratica l’autore cerca di dare una sorta di metodo d’indagine scientifico ad una disciplina considerata finora “letteraria” e di respingere spiegazioni razziste della storia dell’umanità, non tanto per motivi ideologici, ma piuttosto, appunto, scientifici. Consapevole del suo ruolo di iniziatore, precisa che la sua è solo una visione generale, i cui dettagli vanno indagati più approfonditamente.

Non riesco a ricordare in che modo sono venuto a conoscenza di Guns, Germs, and Steel. Ho la prima edizione britannica (Jonathan Cape) e ho la certezza (e la prova) di averlo comprato all’Anglo American Book Co. di via della Vite, a Roma. Ricordo di esserne stato conquistato fin dalla prima pagina del Prologo, quella in cui Yali pone la famosa domanda sul cargo (sapevo già qualcosa sui cargo cults delle isole del Pacifico) e di averlo divorato (il libro, non il cargo).

Subito dopo sono andato a cercare gli altri libri di Diamond: The Rise And Fall Of The Third Chimpanzee (Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate homo sapiens) e Why Is Sex Fun? (Perché il sesso è divertente?). Del primo ho la prima edizione britannica in brossura (Vintage): l’edizione è del 1992, ma io possiedo l’undicesima ristampa e sono certo di aver letto il libro dopo Guns, Germs, and Steel. Non ricordo dove l’ho comprato, ma nell’ultima pagina del testo c’è ancora, come segnalibro, un biglietto della metropolitana di Lisbona del 14 agosto 1998: ne desumo che non posso che averlo letto, o almeno finito, dopo quella data. Sul secondo qualche certezza in più: ho di nuovo la prima edizione, questa volta americana (BasicBooks) e l’ho certamente acquistato su Amazon il 4 giugno 1998: Amazon.com tiene traccia di tutto, e quindi posso raccontarvi che è stato in assoluto il mio primo avventuroso ordine su Amazon; che insieme al libro di Diamond mi sono fatto mandare Girlfriend in a Coma di Douglas Coupland, Visual Explanations: Images and Quantities, Evidence and Narrative di Edward R. Tufte e Timequake di Kurt Vonnegut; e che ho speso in totale, compresi i costi di spedizione, $ 109,87.

Poi ho dovuto aspettare il 2005 per leggere Collapse (Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere): di nuovo una prima edizione americana (Viking), di nuovo un acquisto (ormai meno avventuroso) su Amazon.com, il 19 gennaio 2005. Il segnalibro all’ultima pagina è il tagliando di un concerto all’Auditorium Santa Cecilia del Parco della musica di Roma: un Requiem di Brahms diretto da Antonio Pappano il 9 maggio 2005.

Ormai siamo all’epoca contemporanea: perché di Natural Experiments of History, curato da Jared Diamond e James A. Robinson ho scritto una recensione su questo blog qualche mese fa.

Tornando a The World until Yesterday – fatta la doverosa premessa che il libro è sempre ben argomentato e interessante e che la voce di Jared Diamond è inconfondibile e convincente – ho due problemi: il primo è che non tutti i temi affrontati sono, almeno per me, dello stesso interesse; il secondo è che, nel tentativo di rispondere alla domanda Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, Diamond a volte dà risposte che nemmeno il compianto Massimo Catalano. Ad esempio: dobbiamo seguire l’esempio delle società tradizionali che rispettano gli anziani (anche perché sono merce rara, mentre da noi sono inflazionati), ma non quello delle società tradizionali in cui si usa abbandonare i vecchi a morire d’inedia o strangolarli direttamente prima di lasciare il campo: «!Jul’joh/ansi, controlla di aver spento il nonno e il fuoco». Ancora: dobbiamo seguire l’esempio delle società tradizionali in cui il bambino non perde mai il contatto con la mamma per i primi 4 anni di vita  (per fortuna i miei ormai sono grandi, se no sai che palle), ma non quello delle società tradizionali in cui si pratica l’infanticidio dell’eventuale gemello o del fratellino nato troppo a ridosso del precedente (eppure io, che sono il primogenito e ho una sorella nata 14 mesi dopo di me, quelle pratiche tradizionali le comprendo, anche se non le approvo). Il problema – lo avevamo visto anche nei libri precedenti – è che Diamond è scrupoloso e rigoroso al limite della pedanteria (per quello mi piace!), e ritiene suo preciso dovere fare un sunto degli argomenti e delle argomentazioni alla fine di ogni capitolo, senza lasciare alcun filo pendente …

Tornando al primo dei problemi che ho individuato, penso sia utile elencare i diversi argomenti trattati nei diversi capitoli:

  1. Amici, nemici, stranieri e persone con cui si commercia
  2. Guerra e pace
  3. Cura della prole
  4. Trattamento degli anziani
  5. Risposta ai pericoli
  6. Religione
  7. Lingue
  8. Salute e abitudini di vita

Personalmente, ho trovato di particolare interesse i primi 2 argomenti, il quinto e il sesto e, in parte il settimo.

Sopra tutto, ho apprezzato in modo particolare i racconti autobiografici tratti dalle sue esperienze dirette (Jared Diamond ha fatto una vita veramente interessante e avventurosa la sua parte, anche se non so fino a che punto invidiarlo), mentre sono rimasto freddo ai consigli utili, soprattutto quando si confondono con un salutismo e una political correctness un po’ New Age (guarda un po’: ero convinto che Diamond vivesse nella hippieggiante California, non nell’austero New England).

Ma la cosa veramente importante da portare a casa di questo libro è il concetto (e il principio) della constructive paranoia, di cui si parla spesso, ma segnatamente nel capitolo dedicato alla risposta ai pericoli.

* * *

Le solite citazioni (riferimento alle posizioni Kindle). Potete saltarle, se credete, ma se volete leggerle, armatevi di pazienza, perché sono parecchie.

[…] “constructive paranoia.” […] [665: la prima volta che ne parla è qui]

Traditional societies represent thousands of millennia-long natural experiments in organizing human lives. We can’t repeat those experiments by redesigning thousands of societies today in order to wait decades and observe the outcomes; we have to learn from the societies that already ran the experiments. [703]

Evidently, traditional trade has social and political as well as economic functions: not merely to obtain items for their own sake, but also to “create” trade for advancing social and political goals. [1368]

Citizens are dissuaded in two ways from resorting to private violence: by fear of the state’s superior power; and by becoming convinced that private violence is unnecessary, because the state has established a system of justice perceived to be impartial (at least in theory), guaranteeing to citizens the safety of their person and their property, and labeling as wrong-doers and punishing those who damage the safety of others. If the state does those things effectively, then injured citizens may feel less or no need to resort to do-it-yourself justice, New Guinea–style and Nuer-style. (But in weaker states whose citizens lack confidence that the state will respond effectively, such as Papua New Guinea today, citizens are likely to continue traditional tribal practices of private violence.) [1720]

One example is the so-called Soccer War of June–July 1969 between El Salvador and Honduras. At a time when tensions between the two countries were already high over economic disparities and immigrant squatters, their soccer teams met for three games in a qualifying round for the 1970 World Cup. Rival fans began fighting at the first game on June 8 in the Honduran capital (won 1–0 by Honduras), and the fans became even more violent at the second game on June 15 in the El Salvador capital (won 3–0 by El Salvador). When El Salvador won the decisive third game 3–2 in overtime on June 26 in Mexico City, the two countries broke diplomatic relations, and on July 14 the El Salvador army and air force began bombing and invading Honduras. [2433]

I sympathize with scholars outraged by the mistreatment of indigenous peoples. But denying the reality of traditional warfare because of political misuse of its reality is a bad strategy, for the same reason that denying any other reality for any other laudable political goal is a bad strategy. The reason not to mistreat indigenous people is not that they are falsely accused of being warlike, but that it’s unjust to mistreat them. The facts about traditional warfare, just like the facts about any other controversial phenomenon that can be observed and studied, are likely eventually to come out. When they do come out, if scholars have been denying traditional warfare’s reality for laudable political reasons, the discovery of the facts will undermine the laudable political goals. The rights of indigenous people should be asserted on moral grounds, not by making untrue claims susceptible to refutation. [2694]

Richard Wrangham argues that two features distinguish those social species that do practise war from those that don’t: intense resource competition, and occurrence in groups of variable size such that large groups sometimes encounter small groups or individual animals which they can safely attack and overwhelm by numbers with little risk to the aggressors. [2716]

Surveys by Louis Harris and Associates showed that American people believe that the elderly are bored, closed-minded, dependent, isolated, lonely, narrow-minded, neglected, old-fashioned, passive, poor, sedentary, sexually inactive, sick, unalert, unproductive, morbidly afraid of death, in constant fear of crime, living the worst years of life—and spending a good deal of their time sleeping, sitting and doing nothing, or nostalgically dwelling upon their past. [3905]

[…] Iban of Borneo […] [3927: una popolazione particolarmente interessante, come i Pin di Celebes e gli Userid di Komodo]

One obvious negative consequence of those demographic facts is that society’s burden of supporting the elderly is heavier, because more older people require to be supported by fewer productive workers. That cruel reality lies at the root of the much-discussed looming crisis of funding the American Social Security system (and its European and Japanese counterparts) that provides pensions for retired workers. If we older people keep working, we prevent our children’s and our grandchildren’s generation from getting jobs, as is happening right now. If, instead, we older people retire and expect the earnings of the shrinking younger cohort to continue to fund the Social Security system and pay for our leisure, then the financial burden of the younger cohort is far greater than ever before. And if we expect to move in with them and let them privately support and care for us in their homes, they have other ideas. One wonders whether we are returning to a world where we shall be reconsidering choices about end of life made by traditional societies—such as assisted suicide, encouraged suicide, and euthanasia. In writing these words, I am certainly not recommending these choices; I am instead observing the increasing frequency with which these measures are being discussed, carried out, and debated by legislators and courts. [3997: certo che questo getta una luce diversa sul dibattito attualmente in corso in Italia]

All of us kept shouting “Tolong!” (Indonesian for “help”), but we were far out of hearing range of the sailing canoes in the distance. [4364: quindi il “Tolong, tolong, tolong, tolong” della leggendaria Mucca Carolina era un disperato grido d’aiuto?]

[…] traditional people have none of the means of passive entertainment to which we devote inordinate time, such as television, radio, movies, books, video games, and the Internet. Instead, talking is the main form of entertainment in New Guinea. [4685]

But there are two other big differences between environmental hazards in modern societies and in traditional societies besides the particular hazards involved. One difference is that the cumulative risk of accidental death is probably lower for modern societies, because we exert far more control over our environment even though it does contain new hazards of our own manufacture such as cars. The other difference is that, thanks to modern medicine, the damage caused by our accidents is much more often repaired before it kills us or inflicts life-long incapacity.
[…]
Those two differences are part of the reason why traditional people so willingly abandon their jungle lifestyle, admired in the abstract by Westerners, who don’t have to live that lifestyle themselves.
[…]
“Rice to eat, and no more mosquitoes!” was their short explanation. [4769-4774-4779]

The adoption of agriculture enabled formerly nomadic hunter-gatherers to settle down in crowded and unsanitary permanent villages, connected by trade with other villages, and providing ideal conditions for the rapid transmission of microbes. Recent studies by molecular biologists have demonstrated that the microbes responsible for many and probably most of the crowd diseases now confined to humans arose from crowd diseases of our domestic animals such as pigs and cattle, with which we came into regular close contact ideal for animal-to-human microbe transfer only upon the beginnings of animal domestication around 11,000 years ago.
[…]
They do have infectious diseases, but their diseases are different from the crowd diseases in four respects. First, the microbes causing their diseases are not confined to the human species but are shared with animals (such as the agent of yellow fever, shared with monkeys) or else capable of surviving in soil (such as the agents causing botulism and tetanus). Second, many of the diseases are not acute but chronic, such as leprosy and yaws. Third, some of the diseases are transmitted inefficiently between people, leprosy and yaws again being examples. Finally, most of the diseases do not confer permanent immunity: a person who has recovered from one bout of a disease can contract the same disease again. These four facts mean that these diseases can maintain themselves in small human populations, infecting and re-infecting victims from animal and soil reservoirs and from chronically sick people. [5043-5048]

[…] kwashiorkor […] [5114: una malattia dovuta alla deficienza di proteine]

The significance of sex and food is reversed between the Siriono and us Westerners: the Sirionos’ strongest anxieties are about food, they have sex virtually whenever they want, and sex compensates for food hunger, while our strongest anxieties are about sex, we have food virtually whenever we want, and eating compensates for sexual frustration. [5123]

A similar modern case of field scattering by Andean peasant farmers near Lake Titicaca, studied by Carol Goland, provoked development experts to write in exasperation, “The peasants’ cumulative agricultural efficiency is so appalling…that our amazement is how these people even survive at all…. Because inheritance and marriage traditions continually fragment and scatter a peasant’s fields over numerous villages, the average peasant spends three-quarters of his day walking between fields that sometimes measure less than a few square feet.” The experts proposed land-swapping among farmers in order to consolidate their holdings.
But Goland’s quantitative study in the Peruvian Andes showed that there really is method to such apparent madness. In the Cuyo Cuyo district, the peasant farmers whom Goland studied grow potatoes and other crops in scattered fields: on the average 17 fields, up to a maximum of 26 fields, per farmer, each field with an average size of only 50 by 50 feet. Because the farmers occasionally rent or buy fields, it would be perfectly possible for them in that way to consolidate their holdings, but they don’t. Why not?
A clue noticed by Goland was the variation in crop yield from field to field, and from year to year. Only a small part of that variation is predictable from the environmental factors of field elevation, slope, and exposure, and from work-related factors under the peasants’ control (such as their effort in fertilizing and weeding the field, seed density, and planting date). Most of that variation is instead unpredictable, uncontrollable, and somehow related to the local amount and timing of rain for that year, frosts, crop diseases, pests, and theft by people. In any given year there are big differences between yields of different fields, but a peasant can’t predict which particular field is going to produce well in any particular year.
What a Cuyo Cuyo peasant family has to do at all costs is to avoid ending up at the end of any year with a low harvest that would leave the family starving. In the Cuyo Cuyo area, farmers can’t produce enough storable food surpluses in a good year to carry them through a subsequent bad year. Hence it is not the peasant’s goal to produce the highest possible time-averaged crop yield, averaged over many years. If your time-averaged yield is marvelously high as a result of the combination of nine great years and one year of crop failure, you will still starve to death in that year of crop failure before you can look back to congratulate yourself on your great time-averaged yield. Instead, the peasant’s aim is to make sure to produce a yield above the starvation level in every single year, even though the time-averaged yield may not be highest. That’s why field scattering may make sense. If you have just one big field, no matter how good it is on the average, you will starve when the inevitable occasional year arrives in which your one field has a low yield. But if you have many different fields, varying independently of each other, then in any given year some of your fields will produce well even when your other fields are producing poorly.
To test this hypothesis, Goland measured the yields of all the fields of 20 families—488 individual fields in all—in each of two successive years. She then calculated what each family’s total crop yield, pooled over all their fields, would have been if, while still cultivating the same total field area, they had concentrated all their fields at one of their actual locations, or if instead they had scattered their fields at 2, 3, 4, etc. up to 14 different ones of the actual locations. It turned out that, the more numerous were the scattered locations, the lower was the calculated time-averaged yield, but also the lower was the risk of ever dropping below the starvation yield level. For instance, a family that Goland labeled family Q, which consisted of a middle-aged husband and wife and a 15-year-old daughter, was estimated to need 1.35 tons of potatoes per acre of land per year in order to avoid starvation. For that family, planting at just a single location would have meant a high risk (37%!) of starving in any given year. It would have been no consolation to family Q, as they sat starving to death in a bad year such as arrives about once in every three years, to reflect that that choice of a single location gave them the highest time-averaged yield of 3.4 tons per acre, more than double the starvation level. Combinations of up to six locations also exposed them to the risk of occasional starvation. Only if they planted seven or more locations did their risk of starvation drop to zero. Granted, their average yield for seven or more locations had dropped to 1.9 tons per acre, but it never dropped below 1.5 tons per acre, so they never starved.
On the average, Goland’s 20 families actually planted two or three more fields than the number of fields that she calculated that they had to plant in order to avoid starvation. Of course, that field scattering did force them to burn more calories while walking and transporting things between their scattered fields. However, Goland calculated that the extra calories thereby burned up were only 7% of their crop calorie yields, an acceptable price to pay for avoiding starvation. [5193-5226]

Far too many American investors forget the difference, recognized by peasant farmers around the world, between maximizing time-averaged yields and making sure that yields never drop below some critical level. If you are investing money that you are sure you won’t need soon, just to spend in the distant future or for luxuries, it’s appropriate to aim to maximize your time-averaged yield, regardless of whether yields become zero or negative in occasional bad years. But if you depend on your investment earnings to pay current expenses, your strategy should be that of the peasants: make sure that your annual earnings always remain above the level necessary for your maintenance, even if that means having to settle for a lower time-averaged yield. [5239]

My childhood was repeatedly punctuated by explosions of the antiquated pressure cooker in which my mother boiled produce before jarring it, spraying vegetable mush over our kitchen ceiling. [5349: a me è successo una volta sola, ma non mi sono mai ripreso]

Finally, one can achieve the purpose of storing surplus food by converting it into some non-food item that is convertible back into food during a subsequent hungry season. [5356]

To borrow a phrase from economists, religion thus incurs “opportunity costs”: those investments of time and resources in religion that could have been devoted instead to obviously profitable activities, such as planting more crops, building dams, and feeding larger armies of conquest. If religion didn’t bring some big real benefits to offset those opportunity costs, any atheistic society that by chance arose would be likely to outcompete religious societies and take over the world. [5513]

“Religion is a set of traits distinguishing a human social group sharing those traits from other groups not sharing those traits in identical form. Included among those shared traits is always one or more, often all three, out of three traits: supernatural explanation, defusing anxiety about uncontrollable dangers through ritual, and offering comfort for life’s pains and the prospect of death. Religions other than early ones became co-opted to promote standardized organization, political obedience, tolerance of strangers belonging to one’s own religion, and justification of wars against groups holding other religions. [6271]

“A language is a dialect backed up by its own army and navy.” [6359]

[…] “coca-colonization.” […] [7568]

A possible victim of this cryptic epidemic of diabetes that I postulate in Europe was the composer Johann Sebastian Bach (born in 1685, died in 1750). While Bach’s medical history is too poorly documented to permit certainty as to the cause of his death, the corpulence of his face and hands in the sole authenticated portrait of him (Plate 28), the accounts of deteriorating vision in his later years, and the obvious deterioration of his handwriting possibly secondary to his failing vision and/or nerve damage are consistent with a diagnosis of diabetes. The disease certainly occurred in Germany during Bach’s lifetime, being known there as honigsüsse Harnruhr (“honey-sweet urine disease”). [7684]

We’ve seen that NCDs are overwhelmingly the leading causes of death in Westernized societies, to which most readers of this book belong. Nor is it the case that you’ll have a wonderful carefree healthy life until you suddenly drop dead of an NCD at age 78 to 81 (the average lifespan in long-lived Western societies): NCDs are also major causes of declining health and decreased quality of life for years or decades before they eventually kill you. [7696]

Another simple change is to eat more slowly. Paradoxically, the faster you wolf down your food, the more you end up eating and hence gaining weight, because eating rapidly doesn’t allow enough time for release of hormones that inhibit appetite. [7717]

[…] you can enjoy some of the world’ greatest cooking and live peacefully and avoid those diseases, by incorporating three enjoyable habits into your life: exercising; eating slowly and talking with friends while you eat, instead of gulping down your food by yourself; and selecting healthy foods like fresh fruits, vegetables, low-fat meat, fish, nuts, and cereals, while avoiding foods whose labels show that they’re high in salt, trans fats, and simple sugars. [7908]

W. B. Yeats – The Lake Isle of Innisfree

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I will arise and go now, and go to Innisfree,
And a small cabin build there, of clay and wattles made:
Nine bean-rows will I have there, a hive for the honey-bee;
And live alone in the bee-loud glade.

And I shall have some peace there, for peace comes dropping slow,
Dropping from the veils of the morning to where the cricket sings;
There midnight’s all a glimmer, and noon a purple glow,
And evening full of the linnet’s wings.

I will arise and go now, for always night and day
I hear lake water lapping with low sounds by the shore;
While I stand on the roadway, or on the pavements grey,
I hear it in the deep heart’s core.