The Strategy of Conflict – Fuck Your Buddy

Schelling, Thomas C. (1980). The Strategy of Conflict. Cambridge, MA: Harvard University. 2006.

Abbiamo già parlato di Schelling, della sua importanza e delle polemiche che scatenò l’attribuzione del Premio Nobel per l’economia del 2005.

Questo è il libro incriminato, e penso di essere in grado di darvi un’opinione di prima mano.

È un libro molto importante e innovativo, ridefinisce e amplia i termini della teoria dei giochi, introduce il concetto e gli elementi essenziali di una teoria della strategia. Come è sempre il caso di Schelling, è l’argomentazione a fare premio sulla formalizzazione matematica: senza essere un divulgatore, schelling è molto abile a passare dagli esempi semplici, che gli servono a presentare le situazioni stilizzate da cui partire, all’introduzione di casi via via più complessi e più vicini alla realtà. Alcuni esempi sono affascinanti in sé, come la riflessione su come sia possibile per due coniugi incontrarsi se si perdono in un grande magazzino, o dei paracadutisti lanciati su un isola di cui hanno soltanto una mappa.

Anche alcuni risultati teorici sono affascinati e applicabili a contesti quotidiani. Ad esempio, quello che vincolarsi a un esito non è una debolezza, ma un punto di forza in un negoziato:

The essence of these tactics is some voluntary but irreversible sacrifice of freedom of choice. They rest on the paradox that the power to constrain an adversary may depend on the power of binding oneself; that, in bargaining, weakness is often strength, freedom may be freedom to capitulate, and to burn bridges behind one may suffice to undo an opponent (p. 22).

O ancora, quando analizza i rischi inerenti nell’assunzione di decisioni in situazioni di emergenza:

The thought that generaI war might be initiated inadvertently – through some kind of accident, false alarm, or mechanical failure; through somebody’s panic, madness, or mischief; through a misapprehension of enemy intentions or a correct apprehension of the enemy’s misapprehension of ours – is not an attractive one. As a generaI rule one wants to keep such a likelihood to a minimum; and on the particular occasions when tension rises and strategie forces are put on extraordinary alert, when the incentive to react quickly is enhanced by the thought that the other side may strike first, it seems particularly important to safeguard against impetuous decision, errors of judgment, and suspicious or ambiguous modes of behavior. It seems likely that, for both human and mechanieal reasons, the probability of inadvertent war rises with a crisis.

But is not this mechanism itself a kind of deterrent threat? Suppose the Russians observe that whenever they undertake aggressive action tension rises and this country gets into a sensitive condition of readiness for quiek action. Suppose they believe what they have so frequently claimed – that an enhanced status for our retaliatory forces and for theirs may increase tbe danger of an accident or a false alarm, theirs or ours, or of some triggering in­cident, resulting in war. May they not perceive that the risk of all-out war, then, depends on their own behavior, rising when they aggress and intimidate, falling when they relax their pressure against other countries?

Notice that what rises – as far as this particular mechanism is concerned – is not the risk that the United States will decide on all-out war, but the risk that war will occur whether intended or not. Even if the Russians did not expect deliberate retaliation for the particular misbehavior they had in mind, they could still be uneasy about the possibility that their action might precipitate general war or initiate some dynamic process that could end only in massive war or massive Soviet withdrawaI. They might not be confident that we and they could altogether foretell the consequences of our actions in an emergency, and keep the situa­tion altogether under controI.

Here is a threat – if a mechanism like this exists – that we may act massively, not that we certainly will. It could be most credible. Its credibility stems from the fact that the possibility of precipitating major war in response to Soviet aggression is not limited to the possibility of our coolly deciding to attack; it there­fore extends beyond the areas and the events for which a more deliberate threat is in force. It does not depend on our preferring to launch alI-out war, or on our being committed to, in the event the Russians confront us with the fait accompli of a moderately aggressive move. The final decision is left to “chance.” It is up to the Russians to estimate how successfulIy they and we can avoid precipitating war under the circumstances (pp. 188-189).

Ecco, nella lunga citazione che precede – oltre alla briciola di saggezza troppo spesso dimenticata che l’emergenza è una cattiva consigliera (e invece quanto spesso, nelle situazioni di lavoro, l’emergenza viene creata artificialmente a fini motivazionali, dimenticando che però in quelle situazioni si prendono più spesso decisioni sbagliate) – c’è l’essenza del procedimento di Schelling e, immagino, quello che ha più irritato certi pacifisti. Schelling non ha paura di guardare nell’abisso. Lo affronta razionalmente, senza tabù e senza infingimenti. E se le conclusioni sono “scomode” da un punto di vista ideologico o preconcetto, Schelling è disposto a scartare il punto di vista piuttosto che il risultato dell’analisi razionale.

Una perdita d’innocenza? Così sembra sostenere questo bel documentario della BBC. Forse. Ma questo è il mondo in cui viviamo. Ed è meglio sapere quali rischi corriamo.

Armatevi di pazienza e guardatelo: vale la pena.

30 giugno 1908 – Tunguska!

Cito (sostanzialmente) da Wikipedia:

Tunguska (in russo Тунгуска) è una località della Siberia nota per essere stata il luogo dell’impatto di un meteorite avvenuto nel 1908. Prende il nome dal fiume Podkamennaja Tunguska (Tunguska Pietrosa), che scorre nel distretto di Evenkia nella grande regione di Krasnojarsk della Siberia centrale.

Alle ore 7:14 locali del 30 giugno 1908 un evento catastrofico ebbe luogo nelle vicinanze del fiume Podkamennaja Tunguska, abbattendo 60 milioni di alberi su 2150 chilometri quadrati.

Il rumore dell’esplosione fu udito a 1000 chilometri di distanza. A 500 chilometri alcuni testimoni affermarono di avere udito un sordo scoppio e avere visto sollevarsi una nube di fumo all’orizzonte. L’onda d’urto fece quasi deragliare alcuni convogli della Ferrovia Transiberiana a 600 km dal punto di impatto. Si ritiene in base ai dati raccolti che la potenza dell’esplosione sia stata compresa tra 10 e 15 megatoni (40-60 petajoule).

L’ipotesi più accreditata come causa del fenomeno è l’esplosione di un asteroide sassoso di circa 30 metri di diametro che si muoveva a una velocità di almeno 15 chilometri al secondo. La deflagrazione del corpo celeste sarebbe avvenuta a una altezza di 8 chilometri. La resistenza offerta dall’atmosfera può aver frantumato l’asteroide la cui energia cinetica è stata convertita in energia termica. La conseguente vaporizzazione dell’oggetto roccioso ha causato un’immane onda d’urto che ha colpito il suolo.

La casa dei nostri sogni

La casa dei nostri sogni (Mr. Blandings Builds His Dream House), 1948, di H. C. Potter, con Cary Grant e Myrna Loy.

Probabilmente Cary Grant riuscirebbe a dare vita anche all’elenco telefonico, come si suol dire. Ma certo questa è una commediola esile esile, che mostra tutti i suoi anni e anche la sua distanza dalle nostre ossessioni italiane in tema di casa. Sospetto che un Vanzina o un Neri Parenti ci avrebbero strappato qualche risata in più.

Comunque il cast è d’eccezione, perché oltre a Cary Grant (sempre vestito impeccabilmente, anche in vestaglia o quando sfinito si mette la cravatta a mo’ di maschera) ci sono Myrna Loy (perfetta nel ruolo della mogliettina snob, un po’ gattina, opportunisticamente insincera e forse fedifraga) e un bravissimo Melvyn Douglas. Grandi tutti i caratteristi.

Qui la lunga scena dell’ingresso nella casa nuova, che mi sembra rappresentativa di quanto ho scritto sui 3 attori principali e sui caratteristi. All’inizio la celebre sequenza della scelta dei colori.

La ragazza di Vajont

Avoledo, Tullio (2008). La ragazza di Vajont. Torino: Einaudi. 2008.

Di Avoledo abbiamo già scritto (parlando di Breve storia di lunghi tradimenti e di Tre sono le cose misteriose) che ha un’enorme capacità di catturarti fin dalle prime righe e una scrittura scorrevole e piacevolissima. Ma abbiamo anche scritto che tende a scrivere sempre la stessa storia (un complotto ai limiti della fantascienza o della fantastoria, di cui il protagonista è largamente ignaro; la confusione mentale del protagonista, che percorre un suo personale viaggio agli inferi, spesso condito di alcool; i bambini e il loro sguardo infantile ed esatto; un rapporto difficile con la compagna e una storia d’amore che ti fa deragliare dai binari del quotidiano) e che spesso alla fine ti delude un po’. Hai divorato il libro, senza riuscire ad abbandonarlo, e alla fine ti chiedi: e allora?

Tre sono le cose misteriose era in parte un’eccezione, per il tema e per il tono della scrittura.

Con La ragazza di Vajont, a mio giudizio, Avoledo ha trovato una sintesi felice e scritto un capolavoro. La scrittura è quella dell’Avoledo migliore. Il protagonista è confuso, come sempre, ma stavolta ne ha ben donde, tra infarti lavaggi del cervello e un passato difficile tanto da dimenticare quanto da ricordare. Il tema – che gioca sulle corde dell’ucronia (con ben altro afflato di Brizzi!) e dell’ergodicità – è di un’attualità spaventosa: fascismo e nazismo sono già qui, tra noi, con il consenso (pare) della maggioranza degli elettori di questo sfigato paese e nessuno si sveglia (anzi, abbiamo trovato un clima nuovo di dialogo, wow).

Non mi soffermo, per ora, sul tema politico ed etico del romanzo. Vi suggerisco soltanto di leggerlo, e in fretta.

Aggiungo che è molto bella, e triste, e matura, la lancinante storia d’amore tra il protagonista e la ragazza del titolo, di cui ignoriamo il nome: del primo, ci si suggerisce tra le righe che sia Giulio, l’alter ego dell’autore, o l’autore stesso; della seconda, l’io narrante ci dice che ha un nome per lui, ma non deve averlo per noi…

A me (ma Avoledo non sarà d’accordo, le sue colonne sonore sono in parte diverse dalle mie) la lettura del romanzo ha fatto tornare alla mente una canzone di Sting, If You Love Somebody Set Them Free (questa è una versione dal vivo, direi al concertone di Wembley per Nelson Mandela l’11 giugno 1988).

Free free set them free (8x)

If you need somebody, call my name
If you want someone, you can do the same
If you want to keep something precious
You got to lock it up and throw away the key
If you want to hold onto your possession
Don’t even think about me

If you love somebody If you love someone
If you love somebody If you love someone
Someone – set them free
Free free set them free, set them free (4x)

If it’s a mirror you want, just look into my eyes
Or a whipping boy, someone to despise
Or a prisoner in the dark
Tied up in chains you just can’t see
Or a beast in a gilded cage
That’s all some people ever want to be

If you love somebody If you love someone
If you love somebody If you love someone
Someone – set them free
Free free set them free, set them free (4x)

You can’t control an independent heart
You can’t tear the one you love apart
Forever conditioned to believe that we can’t live
We can’t live here and be happy with less
So many riches, so many souls
Everything we see that we want to possess

If you need somebody, call my name
If you want someone, you can do
You can do the same
If you want to keep something precious
You got to lock it up and throw away the key
If you want to hold onto your possession
Don’t even think about me

If you love somebody If you love someone
If you love somebody If you love someone
Someone – set them free
Free free set them free, set them free (4x)

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Mna Na H’Eireann (Women Of Ireland)

Nel 1975, quando uscì Barry Lyndon di Stanley Kubrick, il biglietto del cinema dava diritto all’accesso alla sala, non alla visione di uno spettacolo. Succedeva quindi, per diversi motivi (non tutti legati alla bellezza del film) che si restasse in sala per due spettacoli, rivedendo il film. Barry Lyndon ci piacque talmente, a me e a T. B. con cui ero andato a vederlo, che lo riguardammo integralmente. Niente di strano, se non fosse che Barry Lyndon dura 184 minuti e dunque restammo al cinema per più di 6 ore.

Tra le cose bellissime del film c’è, come spesso accade con Kubrick, una splendida colonna sonora. Tra i brani che ne fanno parte c’è questa struggente canzone irlandese, suonata dai Chieftains. La musica è di Seán Ó Riada, una leggenda della musica irlandese (nato nel 1931 e scomparso quarantenne nel 1971) e le parole sono riferite alla rivoluzione irlandese del Novecento.

La canzone, che come avete sentito è bellissima, ha avuto una grande fortuna. Oltre alle varie traduzioni pop (con titolo e parole cambiate), ne hanno suonato versioni Alan Stivell (non ho trovato la clip, sorry), Mike Oldfield (un po’ hawaiana…)

Sinead O’ Connor

Kate Bush

Carlos Nuñez

Per chi sa bene il gaelico, eccovi le parole:

Ta bean in Éireann a phronnfadh sead damh is mo shaith le n-ol
Is ta bean in Éireann is ba bhinne leithe mo rafla ceoil
No seinm thead; ata bean in Eirinn is niorbh fhearr lei beo
Mise ag leimnigh no leagtha i gcre is mo tharr faoi fhod

Ta bean in Éireann a g ead liom mur bhfaighfinn ach pog
O bhean ar aonach, nach ait an sceala, is mo dhaimh fein leo;
Ta bean ab fhearr liom no cath is cead dhiobh nach bhfagham go deo
Is ta cailin speiriuil ag fear gan Bhearla, dubhghranna croin.

Ta bean a dearfadh da siulann leithe go bhfaighinn an t-or,
Is ta bean ‘na leine is is fearr a mein no na tainte bo
Le bean a bhuairfeadh Baile an Mhaoir is clar Thir Eoghain,
Is ni fhaicim leigheas ar mo ghalar fein ach scaird a dh’ol.

P. B. Shelley – Stanzas Written in Dejection near Naples

Questa poesia mi accompagna e mi tocca da 40 anni, quasi. Un’altro occhio emerso nel brodo primordiale di Dublino (me la fece scoprire un professore là, che mi consigliò anche di acquistare The Penguin Book of English Romantic Verse – un tesoro).

STANZAS WRITTEN IN DEJECTION, NEAR NAPLES.

The sun is warm, the sky is clear,
The waves are dancing fast and bright,
Blue isles and snowy mountains wear
The purple noon’s transparent might,
The breath of the moist earth is light,
Around its unexpanded buds;
Like many a voice of one delight,
The winds, the birds, the ocean floods,
The City’s voice itself, is soft like Solitude’s.

I see the Deep’s untrampled floor
With green and purple seaweeds strown;
I see the waves upon the shore,
Like light dissolved in star-showers, thrown:
I sit upon the sands alone, –
The lightning of the noontide ocean
Is flashing round me, and a tone
Arises from its measured motion,
How sweet! did any heart now share in my emotion.

Alas! I have nor hope nor health,
Nor peace within nor calm around,
Nor that content surpassing wealth
The sage in meditation found,
And walked with inward glory crowned –
Nor fame, nor power, nor love, nor leisure.
Others I see whom these surround –
Smiling they live, and call life pleasure; –
To me that cup has been dealt in another measure.

Yet now despair itself is mild,
Even as the winds and waters are;
I could lie down like a tired child,
And weep away the life of care
Which I have borne and yet must bear,
Till death like sleep might steal on me,
And I might feel in the warm air
My cheek grow cold, and hear the sea
Breathe o’er my dying brain its last monotony.

Some might lament that I were cold,
As I, when this sweet day is gone,
Which my lost heart, too soon grown old,
Insults with this untimely moan;
They might lament – for I am one
Whom men love not, – and yet regret,
Unlike this day, which, when the sun
Shall on its stainless glory set,
Will linger, though enjoyed, like joy in memory yet.

… ma anche …

FRAGMENT: “AMOR AETERNUS”.

Wealth and dominion fade into the mass
Of the great sea of human right and wrong,
When once from our possession they must pass;
But love, though misdirected, is among
The things which are immortal, and surpass
All that frail stuff which will be – or which was.

Jack Lemmon – 27 giugno 2001

Sono passati 7 anni dalla scomparsa di Jack Lemmon.

Lo ricordiamo in due modi, con A qualcuno piace caldo, la più bella commedia di tutti i tempi …

… e con una lunga intervista, che trovate qui.

26 giugno – Codice a barre

26 giugno 1974, Troy, Ohio, ore 8:01. Clyde Dawson mette nel carrello del supermercato Marsh una confezione da 10 di gomme Wrigley’s alla frutta (50 lastrine). La cassiera Sharon Buchanan legge il codicen a barre. 67 ¢. Inizia una nuova era.

Com’era il mondo prima? Noi in Italia lo ricordiamo meglio. Ogni confezione di ogni prodotto aveva un adesivo con il prezzo. Il cassiere (più spesso la cassiera) lo trascriveva. Il conto (ma ci voleva più tempo) era fatto, ma non era possibile utilizzare l’informazione per gestire il magazzino o per valutare le abitudini di consumo del cliente (a che cosa pensate che servano le tessere fedeltà?).

La storia del codice a barre è lunga. Cominciarono a lavorarci nel 1948 due laureati della Drexel University, Bernard Silver and Norman Joseph Woodland. All’inizio pensarono a un inchiostro sensibile alla luce ultravioletta. Troppo costoso. Poi Woodland tornò a casa, in Florida. Gli venne l’idea di usare l’alfabeto Morse, ma se il lettore non era perfettamente allineato la lettura falliva. Pensò anche a bolle di differente grandezza: un altro fallimento.

Un giorno, sulla spiaggia – racconta la leggenda – mentre giocava con l’alfabeto Morse prolungò distrattamente le linee e i punti. Era nato il codice a barre.

Come leggerlo fu suggerito a Woodland e Silver dal modo in cui il proiettore legge la colonna sonora dei film (il laser non esisteva ancora).

Adesso era solo un problema di sfruttamento commerciale. Non facile. Il sistema di lettura sviluppava troppo calore. I computer erano aggeggi enormi e costosissimi. Brevettarono l’idea e cercarono di venderla a IBM. Niente. Lo comprò la Philco (sì, quella dei frigoriferi di Papalla), che poi la rivendette all’RCA.

IBM tornò in testa quando sviluppò il primo lettore laser. Si alleò con la NCR, che produceva registratori di cassa, e aveva sede a Dayton, Ohio (per questo fu scelto un supermercato di Troy).

La cassa automatica costava 44.000 dollari di oggi, lo scanner 4.000.

Per saperne di più:

www.wired.com

Barcodes Sweep the World

Angela di Jose Feliciano (Canzone per un’amica)

La scrisse nel 1975 per la colonna sonora di un film (Aaron loves Angela) e, in questa versione lunga, è abbastanza rara. La canzone in sé è un po’ mielosa, ma la lunga coda a me piace moltissimo (grosso modo dopo 3 minuti e mezzo nel video).

Angela, do you really love me
Or is this a game you play
Can I believe the tender words you say
Or, is this my final day with you, Angela

Do you remember that night you told me that you loved me so
You held me tight as if you’d never let me go.
What do I know of you, Angela.

Angela, the world was made for you and me.
A love like ours was meant to be.
We’re strong together can’t you see.
So, if you love me
I promise I will never, never let you go.
I’ll think about that night

You said you loved me so.
Or was it a show, Angela.

(Tell me Mama)
Angela, the world was made for you and me.
A love like ours was meant to be.
We’re strong together can’t you see.
So, if you love me
I promise I will never let you go.
I’ll think about that night
You said you loved me so.
Or was it a show, Angela.

Angela, Angela, Angela, Angela,
Angela, Angela, Angela, Angela,
Angela, Angela, Angela, Angela,
Angela, Angela, Angela, Angela.

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The Road

McCarthy, Cormac (2006). The Road. London: Picador. 2007.

Scritto stupendamente. Mc Carthy è un maestro della lingua e del ritmo. Senza dubbio.

Ma tutti gli altri dubbi che avevo avuto leggendo No Country for Old Men trovano per me conferma. McCarthy racconta un’America post-apocalittica (l’inverno nucleare? la morte termodinamica dopo il riscaldamento globale?). Non cerca la verosimiglianza (e che diamine, mica scriviamo romanzi di fantascienza noi!), cerca l’assoluto del rapporto padre/figlio, l’assoluto del bene contro il male, anche (metafora insistita fino a essere banalizzata) la luce contro le tenebre. Un libro che sa di Bibbia (di Apocalisse in senso stretto) e di fondamentalismo, come già l’altro che ho letto.

Non può che venire alla mente Il vecchio e il bambino, che pure è in assoluto il brano di Radici (il capolavoro di Guccini) che mi piace meno.

Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano
e il sole brillava di luce non vera…

L’ immensa pianura sembrava arrivare
fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare
e tutto d’ intorno non c’era nessuno:
solo il tetro contorno di torri di fumo…

I due camminavano, il giorno cadeva,
il vecchio parlava e piano piangeva:
con l’ anima assente, con gli occhi bagnati,
seguiva il ricordo di miti passati…

I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
non sanno distinguere il vero dai sogni,
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero…

E il vecchio diceva, guardando lontano:
“Immagina questo coperto di grano,
immagina i frutti e immagina i fiori
e pensa alle voci e pensa ai colori

e in questa pianura, fin dove si perde,
crescevano gli alberi e tutto era verde,
cadeva la pioggia, segnavano i soli
il ritmo dell’ uomo e delle stagioni…”

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”