Eur, parco delle cascate

Stamattina all’alba il quartiere romano dell’Eur era bellissimo. [Per i pignoli e gli amanti di Robert Musil, erano le 6:50 del 27 febbraio 2013.] Il cielo era sereno, azzurro intenso, striato di cirri delicatamente tinti di rosa dalle dita di Aurora. Ho iniziato la mia passeggiata mattutina infreddolito ma beato e pieno di ottimismo. Nel cratere lasciato dalla sciagurata distruzione del velodromo olimpico (ne abbiamo parlato qui e qui) ristagnava candida e batuffolosa la nebbia.

Poco più avanti, anche sul laghetto dell’Eur si muovevano pigramente alcuni fiocchi di nebbia. Ho cominciato a percorrere la Passeggiata del Giappone, che fa il periplo del lago e che prende il nome “[dal]l’impianto in massa di Prunus da fiore donati dalla città di Tokyo” [La Passeggiata del Giappone all’Eur]: donati, penso (ma non sono riuscito a trovarne attestazione), in occasione delle Olimpiadi romane del 1960, come ideale staffetta verso le Olimpiadi di Tokyo del 1964. Le bocchette dell’acqua che alimenta il lago fumavano nell’aria gelida, dando al paesaggio un vago sentore newyorchese.

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Manco del necessario lirismo per descrivere l’incanto della passeggiata e lo stato di grazia in cui mi trovavo stamattina. Per mia fortuna, parole sufficientemente alate non difettano a Francesco Tonini, il blogger che ho già citato poco fa:

Percorrere i vialetti di questa area è molto piacevole, un continuo avvicendarsi di quinte chiuse ed aperte si susseguono tra percorsi sinuosi contornati da specie vegetali sempre diverse, tra sali scendi che permettono di apprezzare visuali diverse dei grattacieli dell’eur, il tutto immersi in un clima rilassato ed isolato dal traffico cittadino.
Il successo della Passeggiata è evidente: centinaia di persone la percorrono ad ogni ora per passeggiare, fare jogging e sostare sulle panchine all’ombra degli alberi con serenità.[La Passeggiata del Giappone all’Eur]

Il percorso, oltrepassato il primo dei 2 ponti sotto via Cristoforo Colombo (se pensate che l’espressione “dormire sotto i ponti” sia una trita metafora, mettetevi nei panni di quel poveretto che, infagottato, ci dorme davvero), arriva alla sezione di passeggiata che si chiama Parco delle cascate.

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Ecco, la vedete al centro dell’immagine: quella è la passerella realizzata pochi anni fa per consentire il periplo completo del lago (al momento, per la verità, reso di nuovo impraticabile dai lavori per la costruzione del nuovo acquario Mare Nostrum, sulla sponda opposta). Ma lasciamo parlare ancora una volta Francesco Tonini:

Per permettere la connessione integrale del periplo del lago dell’Eur composto dalla Passeggiata del Giappone, tra 2006 e 2007 Eur SPA ha realizzato due progetti di Franco Zagari, quello della terrazza galleggiante Cythera e quello della passerella Hashi. Entrambe le opere sono contraddistinte da composizioni di materiali che ne tracciano la presenza nella contemporaneità, acciaio, vetro e legno.
La passerella è posizionata esattamente in corrispondenza dell’asse di caduta dell’acqua e promette uno spettacolo unico nei momenti di funzionamento della cascata. Per la descrizione dell’opera ci affidiamo nuovamente alle sognanti parole di Franco Zagari:
“HASHI” è una nuova passerella pedonale posta sulla cascata centrale del Lago dell’Eur. Il nome significa “ponte” in giapponese, nel suo doppio senso di passaggio e limite. La dedica è alla Passeggiata del Giappone, vi era infatti – dopo il passaggio a Ovest reso possibile da Cythera – ancora una discontinuità del percorso in corrispondenza della cascata centrale, aggirabile solo con un lungo sentiero che obbligava ad entrare in profondità nel giardino, in una zona per il momento non aperta al pubblico se non per avvenimenti eccezionali. Quattro nuovi cancelli colorati introducono al Giardino delle Cascate, in previsione della ricostituzione della recinzione originaria di rose rampicanti lungo i due rami del viale Cristoforo Colombo. La passerella connette direttamente le due rive della cascata centrale, scendendo e risalendo con pendenze progressive molto comode (dal centro verso le estremità dallo 0,0 al 4,0%), in modo di avere un impatto visivo contenuto. In questo modo si raggiunge la quota minima del calpestio al centro della passerella, appena fuori dal pelo dell’acqua. Per dare un riscontro armonico alla geometria voluta da De Vico, un elegante disegno a forma di diapason, si è adottato un profilo in curva anche in pianta, accorgimento che permette anche di rispettare meglio la visibilità del filo della cataratta. La doppia curvatura, in pianta e sezione longitudinale, conferisce alla passerella una particolare eleganza, con un continuo cambiamento di prospettiva nell’incedere di chi passa. La struttura portante, tutta in acciaio inox, ha un’anima centrale con mensole a sbalzo che sostengono il piano di calpestio. Il pavimento è in doghe di legno esotico pregiato, sui due lati, e in vetro serigrafato in corrispondenza del passaggio sull’acqua. Le balaustre sono in rete inox per la parte che corre sulla cataratta, garantendo il massimo della trasparenza (la stessa soluzione della terrazza galleggiante), mentre i raccordi in corrispondenza delle rive sono in lamiera traforata per adattarsi meglio alla conformazione del suolo e favorire attraverso i fori la crescita della vegetazione delle ripe. Hashi, pur essendo in fondo solo una breve passerella, ha una notevole qualità tecnologica, che ha permesso di ottenere una particolare leggerezza e trasparenza.
Ho trovato sufficientemente interessante percorrere la passerella, che sembra progettata per essere ben inserita nel contesto, anche se per il momento ci sono segni inequivocabili che indicano ancora un po’ di tempo per il completamento dei lavori. Sono sicuro che non appena l’opera sarà totalmente assorbita dalla vegetazione e dall’acqua della cascata, la Passeggiata del Giappone troverà in questo punto un luogo indimenticabile. [Hashi, la passerella di completamento della Passeggiata del Giappone]

paesaggiocritico.com / foto di Francesco Tonini

Malimor…, come si dice a Roma. Luogo indimenticabile di sicuro. E non certo per responsabilità di Francesco Tonini, il cui parere estetico condivido e che comunque sul posto, a giudicare dalla data dei suoi post, c’è andato alla fine di maggio di quasi 3 anni fa. Per responsabilità di quella mente eccelsa, di quel visionario professionista che tutto il mondo ci invidia, Franco Zagari.

Perché ce l’ho con lui? – mi precipito a dirlo prima che scatti la denuncia nei miei confronti. Ce l’ho con lui perché io oggi ci sono rovinosamente caduto, sulla sua passerella. E non soltanto per mia imperizia e imprudenza (una modica quantità gliela posso concedere, che non si nega a nessuno, come il concorso di colpa che appioppano al povero pedone travolto sulle strisce pedonali mentre attraversava con il semaforo verde), ma perché il suo progetto di passerella è demenziale. E per di più – come potete ben vedere qui sotto – ride, ride, come quell’infame di Franti.

ilsole24ore.com

Ci sono rovinosamente caduto perché oggi la passerella, nella sua parte vitrea, ancorché serigrafata, era una perfetta lastra di invisibile ghiaccio. E io ci sono scivolato, nonostante mi sia reso conto per un interminabile istante del guaio in cui mi stavo cacciando e abbia tentato in extremis di aggrapparmi alle inutili «balaustre in rete inox». Ora io posso capire che le giornate di gelo di Roma (25-30 all’anno secondo i dati climatologici) possano sembrare poche al professor Zagari; oppure il prof. Zagari si immagina che i giardinieri dell’Eur verifichino ogni mattina le condizioni della passerella e collochino, zelanti come addetti alle pulizie dei bagni dell’autogrill o dell’aeroporto, apposita segnaletica di pericolo, oppure chiudano per precauzione i «quattro nuovi cancelli colorati» che dànno accesso al Giardino delle cascate.

safeatwork.ch

Ma oltre ai giorni di gelo – grosso modo 30 su 365 – il prof. Zagari si è interrogato sulle altre circostanze in cui la passerella «in doghe di legno esotico pregiato […] e in vetro serigrafato» avrebbe potuto essere bagnata, e dunque scivolosa? Praticamente sempre, caro professore: anche senza esami di meteorologia o di fisica dei fluidi, ma con un modicum di capacità di ragionamento e di osservazione si sarebbe potuto (e dovuto) giungere alla conclusione che un ponticello vicino a un lago e in prossimità dei 10 getti d’acqua della monumentale fontana (guardate, vi prego, la 2ª foto di questo post) sarebbe stato perennemente bagnato, soprattutto se si è avuta la lungimiranza di far raggiungere «la quota minima del calpestio al centro della passerella, appena fuori dal pelo dell’acqua».

Ma non basta, la passerella è in pendenza [«scendendo e risalendo con pendenze progressive molto comode (dal centro verso le estremità dallo 0,0 al 4,0%)»] e se non bastasse è in curva [«si è adottato un profilo in curva anche in pianta, accorgimento che permette anche di rispettare meglio la visibilità del filo della cataratta»].

Dunque il prof. Zagari è un sadico? Il suo ghigno è davvero quello infame di Franti? Non lo penso davvero, e non è certo questo il mio punto. La mia convinzione, in questo caso e in molti altri, è che il progettista abbia privilegiato i valori formali ed estetici [«La doppia curvatura, in pianta e sezione longitudinale, conferisce alla passerella una particolare eleganza, con un continuo cambiamento di prospettiva nell’incedere di chi passa»], trascurando del tutto, e colpevolmente, quelli pratici e funzionali.

Avrei potuto farmi molto male (ho rischiato di battere anche la nuca, oltre alla regione sacro-coccigea), e invece sono qui a ragionarne e a riderne con voi. Proprio una gran botta di culo!

francozagari.it

Klein-Cathcart – Plato and a Platypus Walk into a Bar …: Understanding Philosophy Through Jokes

Klein, Daniel M. and Thomas Cathcart (2007). Plato and a Platypus Walk into a Bar …: Understanding Philosophy Through Jokes. London: Penguin Books. 2008. ISBN 9781436220217. Pagine 230. 6,49 €

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Non ricordavo con esattezza che cosa mi avesse spinto a compare questo e-book il 10 dicembre 2011. Probabilmente ne avevo letto una recensione, mi andavo dicendo, oppure mi era venuta voglia di affrontare qualche cosa di leggero nella vacanze invernali. Ma poi mi è venuto in mente che il libro è citato più volte nel bello studio di Hurley-Dennett-Adams, Inside Jokes: Using Humor to Reverse-Engineer the Mind, che stavo leggendo proprio in quel periodo e che ho recensito qui.

Purtroppo, il libro di Klein e Cathcart non è altrettanto ben riuscito. A tratti è divertente, alcune delle battute sono buone, ma per lo più lo champagne è un po’ sgasato e la sequenza diventa stucchevole. Un merito, però, agli autori va riconosciuto: provano effettivamente a spiegare la filosofia attraverso le barzellette. Non è, cioè, semplicemente una raccolta di barzellette a sfondo filosofico.

Se vi rimane un po’ di curiosità, ecco la storiella che dà il titolo al libro:

[…] the other day Plato and a platypus walked into a bar. The bartender gave the philosopher a quizzical look, and Plato said, “What can I say? She looked better in the cave.” [2390]

nationalgeographic.com

Camminando e cantando – Sergio Endrigo

Stamattina (24 febbraio 2013) dagli abissi di iMatch è emersa questa canzone, che ricordavo a stento e di cui non avevo forse mai ascoltato con attenzione le parole. Mi è sembrato un piccolo viatico per le giornate elettorali e, con il medesimo spirito, la ripropongo a voi.

Camminando e cantando la stessa canzone
Siamo tutti uguali chi è d’accordo e chi no
Nelle fabbriche, a scuola, nei campi, in città
Camminando e cantando la stessa canzone

Fa chi vuole fare e chi vuole andare va
Chi è stanco di aspettare una strada troverà
Fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa
Che la speranza è un fiore ma frutti non ne dà

Il soldato armato, amato o no
Con in mano il fucile non sa cosa fa
In caserma si insegna una antica lezione
Di morir per il re e non sapere perché

Fa chi vuole fare e chi vuole andare va
Chi è stanco di aspettare una strada troverà
Fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa
Che la speranza è un fiore ma frutti non ne dà

Nelle fabbriche, a scuola, nei campi, in città
Siamo tutti soldati armati o no
Camminando e cantando la stessa canzone
Siamo tutti uguali chi è d’accordo e chi no

Nella mente l’amore e negli occhi la gioia
La certezza nel cuore, nelle mani la storia
Camminando e cantando la stessa canzone
Imparando e insegnando una nuova lezione

Fa chi vuole fare e chi vuole andare va
Chi è stanco di aspettare una strada troverà
Fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa
Che la speranza è un fiore ma frutti non ne dà

Era il 1968 ed Endrigo (che sotto l’aria timida e mesta era un coraggioso) la presentò a Canzonissima, la trasmissione del sabato sera legata alla Lotteria di Capodanno. Ne aveva scritto lui il testo italiano, traducendo la canzone di Geraldo Vandrè, come lui stesso raccontò:

Geraldo Vandrè è un cantante brasiliano di cui avevo ascoltato in Brasile la canzone, Pra Nâo Dizer Nâo Falei Das Flôres, che mi era piaciuta molto. Ne tradussi il testo in italiano intitolandola Camminando e cantando. La presentai a Canzonissima ’68, dove ero sicuro di passare il primo e il secondo turno, ma sapevo benissimo che non sarei mai riuscito a passare anche il terzo, per cui a quel punto scelsi di cantare una cosa che piaceva a me. Non cercavo la canzone facile ed orecchiabile e preferii usare quella possibilità per dare spazio a canzoni un po’ più difficili. [Sergio Endrigo. La Voce Dell’Uomo. Edizioni Associate. 2002]

Caminhando e cantando e seguindo a canção
Somos todos iguais braços dados ou não
Nas escolas, nas ruas, campos, construções
Caminhando e cantando e seguindo a canção

Vem, vamos embora que esperar não é saber
Quem sabe faz a hora não espera acontecer
Vem, vamos embora que esperar não é saber
Quem sabe faz a hora não espera acontecer

Pelos campos a fome em grandes plantações
Pelas ruas marchando indecisos cordões
Ainda fazem da flor seu mais forte refrão
E acreditam nas flores vencendo o canhão

Há soldados armados, amados ou não
Quase todos perdidos de armas na mão
Nos quarteis lhes ensinam uma antiga lição
De morrer pela pátria e viver sem razão

Nas escolas, nas ruas, campos, construções
Somos todos soldados armados ou não
Caminhando e cantando e seguindo a canção
Somos todos iguais braços dados ou não

Os amores na mente, as flores no chão
A certeza na frente, a historia na mão
Caminhando e cantando e seguindo a canção
Aprendendo e ensinando uma nova lição

La biopalla, la politica e la cultura scientifica (non necessariamente in questo ordine)

Domani e dopodomani (24 e 25 febbraio 2013) si vota. Salvo clamorosi errori dei sondaggisti, una parte consistente dei votanti sceglierà il Movimento 5 stelle (di e con Beppe Grillo: non sono sicuro di saperlo molto bene, ma mi ha aiutato a capire qualche cosa il post di un blogger ben più popolare di me, Leonardo Tondelli: Grillo, il Movimento e i grillini). Le 5 stelle del movimento erano all’origine: Acqua, Ambiente, Trasporti, Connettività, Sviluppo (se uno googla «movimento 5 stelle», il primo risultato linka a www.beppegrillo.it/movimento/ e riporta il seguente breve testo: «Il MoVimento 5 Stelle è un movimento di liberi cittadini per un’Italia a 5 Stelle: Acqua, Ambiente, Trasporti, Connettività, Sviluppo.»). Però se uno va a leggere il programma elettorale (si può scaricare qui) trova un’articolazione i 7 punti («Stato e cittadini, Energia, Informazione, Economia, Trasporti, Salute, Istruzione») che si sovrappongono in minima parte alle 5 stelle, anche a voler fare qualche esercizio di fantasia. Il programma è una lista di circa 125 punti e il cambiamento che promette il Comunicato politico numero cinquantatre sarà (manco a dirlo) epocale: ma io qui non voglio persuadere nessuno. A me non convince, per eccesso di semplificazione. e per una certa tendenza a vedere dappertutto complotti (Nate Silver afferma nel suo The Signal and the Noise che «[a] conspiracy theory might be thought of as the laziest form of signal analysis» e cita il professore di Harvard H. L. “Skip” Gates, secondo cui «[c]onspiracy theories are an irresistible labor-saving device in the face of complexity.»). Questi, insieme al fatto che non mi piacciono le persone che urlano e sfuggono al confronto, sono i motivi per cui io non voterò Movimento 5 stelle. Ma ognuno faccia quello che crede e io cercherò di rispettare la sua opinione.

 

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Quello su cui voglio attirare oggi la vostra attenzione è la storia della biowashball. Non ne parlo per sputtanare Beppe Grillo: l’hanno già fatto in tanti, proprio su questo argomento. Per di più, Beppe Grillo è contrario alle vaccinazioni obbligatorie: un’opinione ben più irresponsabile e pericolosa, e questa è una cosa che meriterebbe una trattazione a sé (potete farvi un’idea delle sue implicazioni potete andare a leggere la voce di Wikipedia sull’argomento – ma naturalmente potete sempre farvi convincere da Grillo che è tutto un complotto). Il mio problema, come vedrete, sono quelli che prestano fede alle prediche di Grillo, tanto da decidere di votarlo, per portare i suoi candidati al parlamento e, se possibile, al governo.

Allora, Beppe Grillo ha presentato molte volte nei suoi spettacoli-comizio (da un po’ sostituiti dai comizi-spettacolo) questa mirabolante palla che permetterebbe di lavare gli indumenti senza detersivo:

Penso che il video parli da solo. Intanto la pallina, che si chiama biowashball, non ha assolutamente niente di biologico: ma tant’è, bio fa verde, fa naturale, e tanto basta. È anche verde di colore, ma è plastica verde (una poliolefina, variante del diffusissimo ed esecratissimo polipropilene, derivato per sintesi dagli idrocarburi detestati da Grillo e dai suoi). Al suo interno ci sono delle palline di ceramica (naturale, dice Grillo: certo, naturale come l’acciaio e il cemento, cioè ottenuta per trasformazione industriale di materie prime presenti su questo pianeta). Le sue mirabolanti proprietà (che irraggi infrarossi, che frazioni l’idrogeno o le molecole d’acqua – non ho capito bene –, che si ricarichi con l’energia solare, che abbia poteri antibatterici se conservata in frigo) non hanno fondamento scientifico alcuno, non più della credenza che la combustione sia indotta dal flogisto e la peste dai miasmi delle paludi. Lo spiegano bene in tanti, soprattutto Paolo Attivissimo, che vi invito a leggere qui.

Beppe Grillo non soltanto continua a credere che sia possibile che una palletta di volgarissima plastica ripiena di palline di volgarissima ceramica possa detergere alcunché (più dell’acqua, cioè, che come tutti sanno bagna e lava anche da sola), ma se la prende con la consueta virulenza con chi osa mettere in dubbio l’efficacia di biowashball. Naturalmente chi osa farlo non è un essere pensante o almeno dubitante, ma un corrotto a libro paga delle multinazionali del detersivo, o al meglio un utile idiota. E naturalmente è una cospirazione, minimo una congiura del silenzio.

Nella trasmissione Mi manda Rai3 dedicata alla Biowashball mancavano i due milioni di persone che l’hanno usata e apprezzata.
Hanno mobilitato la Rai, la rivista il Salvagente targata Coop (la Coop che ama i detersivi) e alcune persone perché iscritte al Meetup di Beppe Grillo contrarie al prodotto (indovinate perché sono state invitate proprio e solo loro).
Mancava in studio la casalinga di Voghera, quella che sa cos’è il bucato e può fornire un parere professionale sulla Biowashball perché l’ha usata.
Se un prodotto non fa quello che dice e si chiedono soldi in cambio si chiama truffa. La società che la distribuisce in tutto il mondo in milioni di esemplari non ha processi in corso e in nessuno Stato dove è venduta la Biowashball è stato chiesto il ritiro del prodotto. Ho detto più volte che prima di dare un giudizio bisogna informarsi e verificare. Non vi ho detto però che per farlo bisogna guardare la televisione o leggere i giornali finanziati dallo Stato.
Io l’ho provata. La mia famiglia usa Biowashball da due mesi e anche le famiglie di alcuni miei amici. Per noi funziona. Prima di dare un giudizio vi consiglio di usarla, magari in prestito da un conoscente. In Rete ci sono centinaia di testimonianze di utenti italiani soddisfatti.
Dopo questa reazione dei media credo che sia ora di iniziare una battaglia contro i detersivi, uno degli strumenti di distruzione del pianeta, usati spesso senza necessità e quasi sempre in eccesso. Una battaglia difficile perché hanno i media (finanziati dalla loro pubblicità) come alleati.
Loro non molleranno mai (ma gli conviene?), noi neppure.

A me il pezzo che piace di più è quando a sostegno della tesi della bontà del prodotto viene portata l’argomentazione che 2 milioni di persone «l’hanno usata e apprezzata.» Io la chiamo l’argomentazione della mosca: miliardi di mosche l’hanno usata e apprezzata, dunque la merda è buonissima.

Ora, io capisco perfettamente che la biopalla non è al centro del programma elettorale di Grillo. Però, se i sondaggi non sono grossolanamente sbagliati, domani e dopodomani circa un elettore su 5 voterà per Grillo (sì, per Grillo, più che per il Movimento 5 stelle, come ha ben spiegato Leonardo). Cioè, 10 milioni di italiani affideranno il destino di questo sciagurato Paese nelle mani di uno che crede che una specie di sorpresa dell’ovetto Kinder piena di gnocchetti di terracotta come quelli che si mettono nella tortiera per non far gonfiare la pasta-frolla abbia il potere di avere insieme l’ambiente e i corsi d’acqua incontaminati e i panni puliti (perché dobbiamo tenere a mente che in un’economia di mercato, se i detersivi si vendono, non dipende soltanto dal diabolico strapotere delle multinazionali produttrici, ma anche dalla preferenza dei consumatori per i panni puliti e profumati). 10 milioni di italiani presteranno fede alle ricette miracolistiche di uno che pensa e dice che si può avere tutto e il contrario di tutto senza costi. La favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione, domani e dopodomani illuderà 10 milioni di italiani. Che si sommeranno agli altri milioni che crederanno alla restituzione dell’IMU.

Temo di essere un irriducibile illuminista, ma temo che questo sia anche, anzi soprattutto, il frutto della pseudo-cultura oscurantista di questo povero Paese, dove è lecito vantarsi di non sapere nulla di matematica, di fisica, di chimica, di biologia. Dove credere ai miracoli, alle favole, alle teorie strampalate, all’ultima miracolistica dieta o pseudo-filosofia new age ti rende una persona bella e interessante.

10 milioni di credenti creduloni.

Intanto, il 20 e 21 febbraio, si svolgeva a Roma l’Undicesima conferenza nazionale di statistica, organizzata dal Sistema statistico nazionale e dall’Istat. Quasi 2.500 persone si sono confrontate per due giorni su come conoscere e misurare i fenomeni nuovi nell’economia, nella società e nella vita quotidiana; su come darsi degli obiettivi concreti e su come misurare i progressi verso il loro raggiungimento; su come i decisori politici possono fare le loro scelte sulla base di evidenze verificabili e come i cittadini possono valutarne quantitativamente l’operato; su come sottoporre a controllo preventivo e verifica successiva le diagnosi e le terapie proposte dalle parti politiche. 2.500 persone che, con una buona dose di ottimismo, possiamo ipotizzare convinte di questo programma: un programma di riforma, di riforma di metodo, prima che di merito.

2.500 persone contro 10 milioni. Consentitemi un po’ di pessimismo.

Francis Spufford – Red Plenty

Spufford, Francis (2010). Red Plenty. London: Faber and Faber. 2010. ISBN 9780571269471. Pagine 451. 7,02 €

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Un libro difficile da definire, ma certamente da raccomandare.

Verrebbe la tentazione di ricorrere alla parola portmanteau costruita con fact e fiction e definirlo faction. Peccato che in italiano fazione significhi una cosa diversa: per la verità anche l’inglese faction vuol dire la stessa cosa dell’italiano, almeno come primo significato («a small organized dissenting group within a larger one, especially in politics»), anche se il secondo, attestato a partire dagli anni Sessanta, rinvia effettivamente a «a literary and cinematic genre in which real events are used as a basis for a fictional narrative or dramatization». Wikipedia, dal canto suo, reindirizza da Faction (literature) a Non-fiction novel e ne fa risalire la nascita a A sangue freddo di Truman Capote (1965), distinguendolo (in modo non del tutto chiaro, almeno a me) da quello che siamo abituati a chiamare romanzo storico e che per noi si identifica con I promessi sposi di Alessandro Manzoni.

A complicare le cose, c’è da aggiungere che – anche dando per scontato che si tratti di un’opera letteraria – resta difficile dire se siamo di fronte a un romanzo o a una raccolta di racconti. Propenderei per la seconda ipotesi, con l’avvertenza che alcuni personaggi ritornano in più racconti, o compaiono fuggevolmente in racconti che hanno al centro altri personaggi. Parlo a cuor leggero di personaggi, perché forse una delle critiche più fondate all’opera di Spufford è che i suoi protagonisti non assumono mai una vita propria, non sono figure a tutto tondo, ma – salvo rari sprazzi – segnaposti per idee o ruoli storici. L’unità dell’opera, comunque, non è in dubbio neppure per un istante.

Il libro è un vasto affresco storico che copre essenzialmente l’era kruscioviana, la sua grande finalità strategica (battere gli Stati Uniti in termini di progresso economico e tecnologico e realizzare entro il 1980 l’ideale «società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico», come Marx aveva scritto ne L’ideologia tedesca) e il suo fallimento a opera di Brežnev e Kosygin. Ne costituisce la premessa l’intuizione di Leonid Vital’evič Kantorovič (nata nel 1938 su un affollato tram di Leningrado) che i problemi della pianificazione potevano essere risolti con tecniche di ottimizzazione, di programmazione lineare e di applicazione dei prezzi-ombra (Kantorovič ci vinse il Nobel per l’economia nel 1975, primo e unico sovietico ad averlo vinto).

Il libro è strutturato in 6 parti, ognuna delle quali è preceduta da una introduzione storico-analitica: sotto un certo profilo queste introduzioni, documentate, scritte in linguaggio piano e mai banali, sono la parte migliore del libro. Spufford tiene alta la tradizione britannica del public understanding of science. Ogni parte è poi articolata in racconti (in genere 3, ma in 2 casi sono 2 e 4), per un totale di 18. A parte le escursioni nel 1938 (l’illuminazione di Kantorovič), nel 1953 (la scoperta dell’arretratezza della campagna di un giovane cittadino, nell’estate dopo la morte di Stalin) e nel 1970 (la fine, quanto meno la fine politica, di Sergey Alexeyevich Lebedev, il pioniere della computer science sovietica, il Johnny von Neumann russo), Red Plenty si concentra sul decennio 1959-1968.

Non penso che Spufford sia stato toccato, nemmeno per un secondo, dal dubbio che le idee di Kantorovič, Lebedev e di Emil Arslanovich Shaidullin (segnaposto, nell’accezione di cui sopra, di Abel Gyozevich Aganbegyan) avessero alcuna possibilità di successo. Troppo grande la distanza, pare di capire, tra i bisogni delle persone e i meccanismi di una produzione centralizzata. Eppure… Eppure, affiora a tratti l’idea che sia una questione di progresso tecnico, di potenza di calcolo, e non di intrinseca superiorità del mercato, non di irriducibilità del singolo e atomistico desiderio umano a una sintesi meccanicistica… A me, uno spiraglio di dubbio, una fessura tecnocratica restano aperti…

Il libro (non lo dirò mai abbastanza) è da leggere. È indubbiamente una delle sorprese di quest’anno, per quello che mi riguarda (e grazie a Il barbarico re che me l’ha segnalato). Tutt’altro che perfetto, però: alcuni dei racconti sono, più che incomprensibili, inutili o irrilevanti: per esempio, Psychoprophylaxis 1966.

* * *

Se volete scoprire subito il passo più incandescente del libro (io ve lo sconsiglio, naturalmente; godetevelo con calma, piuttosto), è in questo dialogo (dal racconto Midsummer Night, 1962, il più bello senza dubbio alcuno, ambientato nel paradiso accademico di Akademgorodok).

‘Look, I’m not saying your plenty is impossible,’ jabbed the man on the floor. ‘Maybe it is, maybe it isn’t. How would I know. Pure maths, me, every time. None of your murky compromises. No, what I’m saying is that plenty is an intrinsically vulgar idea. It is, in itself, a stupid response to human needs. “Oh look, there’s someone unhappy. Let’s overwhelm him!” Real human needs are always specific. No one ever feels a generic hunger or a generic loneliness, and no one ever requires a generic solution to those things. Your plenty is like a bucket of plaster of Paris you want to pour over people’s heads. It’s a way of not paying human attention to them.’
‘Bullshit, Mo,’ said the man in the chair. ‘Bullshit, bullshit, bullshit. Plenty is the condition that will let us distinguish,for the first time, between avoidable and unavoidable suffering. We solve the avoidable stuff – which seems pretty bloody generic to me, given that a bowl of soup cures everybody’s hunger and a painkiller cures everybody’s headache – and then we know that what’s left is real tragedy, boo-hoo, write a play about it. Who the hell ever said that plenty was supposed to abolish unhappiness? But what it will do is free our hands to concentrate on unhappiness. If we’re so minded. If we’re as as pure as you. And I don’t see how that can be anything but a humane goal. A humanist goal, if you like. Plenty will let a truly human life begin.’ [2618-2624]

Questa la colonna sonora:

“Blue in Green”,’ he announced, ‘by Mr Miles Davis.’ He nodded to her. ‘This is what I like.’ [2746]

* * *

Se la batte fino all’ultimo in questa gara virtuale per il racconto più bello Ladies, Cover Your Ears!, 1965, in cui Emil Arslanovich Shaidullin scopre che il suo sogno, apparentemente a un passo dal successo, è destinato a fallire. Se aveva (forse) convinto Chruščëv, la sua accettazione da parte di Kosygin si sarebbe dimostrata molto limitata.

Lo ricordo perfettamente il giorno in cui deposero Chruščëv. Era ottobre, nel 1964, e avevo appena iniziato la seconda media. Il professore d’italiano, il professor B., entrò in classe e ci annunciò la novità, con la sua ironia un po’ sorniona. Inutile dire che non compresi l’enormità del cambiamento. Ero troppo piccolo per capirlo, e comunque il clima culturale della mia famiglia (cattolica orientata al centro-sinistra di quegli anni) non aiutava. Un impatto ben più forte lo avevano avuto la morte di Kennedy e Giovanni XXIII l’anno prima. Ma senza che avessi poi capito molto di più. Quando, alcuni anni dopo, scoprii il marxismo, per quelli della mia generazione l’Unione sovietica non era più un faro.

Stalin had been a gangster who really believed he was a social scientist. Khrushchev was a gangster who hoped he was a social scientist. But the moment was drawing irresistibly closer when the idealism would rot away by one more degree, and the Soviet Union would be governed by gangsters who were only pretending to be social scientists. [4006. ]

‘My experience of human needs is that they grow at the exact speed of the resources available to feed them […]’ [4354]

‘Granted. But it’s up to you to prove that you’ve got a solution which wouldn’t be worse than the problem. Bad prices have consequences we know how to deal with. We can intervene; we can ease things a bit; we can react when problems arise. We know the machine. We know how the parts connect – and they do all connect, you know, they are all of a piece, the prices and the supply system and the plan targets. They interlock. And we know that the thing that stops the machine from seizing up is our ability to be pragmatic; our discretion. What do you want to do? You want to take our discretion away. [4369]

* * *

Tra i racconti (secondo me) meno riusciti c’è The Unified System, 1970, dedicato all’inutile attesa di Lebedev nell’anticamera di Kosygin e, al tempo stesso, all’insorgere di un carcinoma polmonare. Il racconto non è bello, pur essendo abbastanza angosciante, ma si colloca in quella tradizione di straniamento cui appartengono il celebre incipit de L’Uomo senza qualità, e l’altrettanto celebre incipit del capitolo de I Buddenbrook in cui al piccolo Johann viene il tifo.

Un pretesto, quindi, per riportarli entrambi. Cominciamo da Musil, nella bella traduzione einaudiana di Anita Rho:

Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913. [Musil, Robert. L’uomo senza qualità, 1. Torino: Einaudi. 1972. p. 5]

Adesso Mann:

Con il tifo accade questo.
L’individuo sente nascere in sé un malessere psichico che si aggrava rapidamente e si trasforma in una estenuata disperazione. Nel frattempo si impadronisce di lui una spossatezza fisica che si propaga non soltanto ai muscoli e ai tendini, ma anche alle funzioni degli organi interni, non ultime quelle dello stomaco che rifiuta il cibo con disgusto. È presente un forte bisogno di dormire, ma nonostante l’estrema stanchezza il sonno è inquieto, superficiale, angoscioso e poco ristoratore. Il cervello duole; è torpido, confuso, come avvolto dalla nebbia e soggetto a vertigini. Un dolore indefinito affligge le membra. Di tanto in tanto dal naso esce sangue senza un particolare motivo. – È il preludio.
Poi un violento attacco di brividi che scuote il corpo e fa battere i denti segnala l’arrivo della febbre che raggiunge subito le massime temperature. Ora sulla pelle del petto e del ventre compaiono isolate macchie rosse, grandi come lenticchie, che si possono eliminare con la pressione di un dito, ma ricompaiono subito dopo. Il polso è celere; ha fino a cento pulsazioni al minuto. Così, conquaranta gradi di temperatura corporea, passa la prima settimana.
Nella seconda settimana l’individuo è libero dai dolori alla testa e alle membra; in compenso le vertigini aumentano significativamente e il fischio e il ronzio alle orecchie sono così forti da essere quasi assordanti. L’espressione del viso si fa ottusa. La bocca comincia a rimanere aperta, gli occhi sono velati e apatici. La coscienza è annebbiata; il malato cade in uno stato letargico e spesso sprofonda, senza dormire davvero, in un plumbeo stordimento. Intanto le sue farneticazioni, i suoi vaneggiamenti a voce alta e agitati riempiono la stanza. La sua esausta impotenza si è accentuata fino a degenerare in repellente sporcizia. Inoltre le gengive, i denti e la lingua si coprono di una patina nerastra che appesta il fiato. Giace immobile sulla schiena con il ventre gonfio. È sprofondato nel letto con le ginocchia divaricate. Ogni funzione è affrettata, concitata e superficiale, il respiro e così pure il polso che batte convulsamente a circa centoventi rapide e fuggevoli pulsazioni al minuto. Le palpebre sono socchiuse e le guance non ardono più arrossate dalla febbre come all’inizio, ma hanno assunto una colorazione bluastra. Le macchie rosse, grandi come lenticchie, sul petto e sul ventre sono aumentate. La temperatura del corpo raggiunge i quarantuno gradi…
La terza settimana la debolezza è al culmine. I deliri a voce alta sono cessati e nessuno può dire se lo spirito dell’infermo sia sprofondato nella notte vuota o se invece, indifferente ed estraneo alle condizioni del corpo, non indugi in sogni lontani, profondi, silenziosi che nessun suono né segno rivela. Il corpo giace in una insensibilità sconfinata. – È il momento decisivo…
In alcuni individui la diagnosi è resa più difficile da circostanze particolari. Ammesso ad esempio che i sintomi iniziali della malattia: irritazione, stanchezza, inappetenza, disturbi del sonno, dolori di testa, fossero già presenti quando ancora il paziente, speranza dei suoi cari, era in piena salute, e che non siano stati considerati un evento straordinario, sia pure in presenza di una loro manifestazione tutt’a un tratto più violenta… un bravo medico con la solida preparazione del dottor Langhals, tanto per fare un nome, il bel dottor Langhals dalle piccole mani coperte di peli neri sarà subito in grado di chiamare la cosa col suo nome, e la comparsa delle fatali macchie rosse sul petto e sul ventre gliene darà l’assoluta certezza. Non avrà dubbi sulle misure da prendere, sulle medicine da usare. Provvederà a una stanza il più grande possibile che andrà spesso arieggiata, la cui temperatura non dovrà superare i diciassette gradi. Esigerà la massima pulizia e cercherà di proteggere il corpo, finché è possibile – in certi casi non lo è per molto – dalle “piaghe da decubito”, facendo rifare spesso il letto. Ordinerà una costante pulizia del cavo orale con pezzuole bagnate, ricorrerà, per quanto riguarda le medicine, a una miscela di iodio e ioduro di potassio, prescriverà chinino e antipiretici e soprattutto, poiché sono pesantemente coinvolti lo stomaco e l’intestino, darà disposizioni per una dieta molto leggera e molto corroborante. Combatterà la febbre divorante con i bagni, bagni completi ai quali il malato verrà sottoposto spesso, ogni tre ore, senza sosta, giorno e notte, e che verranno raffreddati lentamente, a partire dai piedi. E dopo ogni bagno gli verrà somministrato qualcosa di forte e stimolante, cognac, o anche champagne…
Ma tutti questi rimedi li impiegherà assolutamente alla cieca, soltanto nell’eventualità, per così dire, che possano avere un qualche effetto, senza sapere se il loro utilizzo non sia del tutto privo di ogni efficacia, senso e scopo. Una cosa infatti non sa, su una questione brancola nel buio, su una alternativa è incerto fino alla terza settimana, irresoluto sul da farsi fino alla crisi e alla conclusione. Non sa se la malattia che chiama “tifo” sia in questo caso un incidente in fondo marginale, la sgradevole conseguenza di un’infezione che si sarebbe forse potuta evitare e che si può contrastare con gli strumenti della scienza – o se sia semplicemente una forma di risoluzione, la maschera stessa della morte, che potrebbe comparire altrettanto bene sotto altre spoglie e contro la quale non c’è rimedio.
Con il tifo accade questo.
Nei sogni remoti della febbre, nell’ardente sperdimento del malato, la vita chiamerà con voce inconfondibile, incoraggiante. Forte e vigorosa, questa voce raggiungerà lo spirito sulla strada ignota e torrida che sta percorrendo e che porta all’oscurità, al freddo, alla pace. L’individuo tenderà l’orecchio per sentire l’esortazione limpida, incoraggiante e un po’ beffarda a voltarsi e tornare indietro che arriva fino a lui dalla regione ormai così remota e già dimenticata. Allora, se avvertirà in sé la tumultuosa sensazione di aver vilmente trascurato il proprio dovere, un sentimento di vergogna, di rinnovata energia, di coraggio e di gioia, di amore e appartenenza alla frenesia beffarda, vivace e brutale che si è lasciato alle spalle, per quanto lontano possa essersi spinto su quella strada ignota, torrida, si volterà e vivrà. Ma se trasalirà di paura e disgusto alla voce della vita, se quel ricordo, quel suono allegro e provocante farà sì che egli scuota la testa e tenda la mano dietro di sé in segno di rifiuto e cerchi scampo sulla strada che gli si è aperta per fuggire… allora no, è chiaro, allora morirà… [Mann, Thomas. I Buddenbrook. Milano: Mondadori. 1949. 11093-1133]

Inutile dire che quando, liceale, ho letto queste pagine mi sono morto di paura.

Vediamo adesso come se la cava Spufford:

A cell. A lung cell. Tobacco smoke swirls by in the spired and foliated channel the cell faces. Its job is to take in oxygen from breath and keep out everything else, and on the whole it does well filtering the usual impurities in air: but this is not a designed mechanism, put together for a function by conscious plan, it is a dumb iteration of all the features which have proved by trial and error to serve lung cells well in the past. The past did not include deliberately-breathed smoke. We could count an amazing number of different chemicals in the blue-grey vapour snaking through the tissue, altogether too many of which the cell does not know how to exclude. Formaldehyde, acetaldehyde, catechol, isoprene, ethylene oxide, nitric oxide, nitrosamine, the aromatic amines – not to mention the quinones, the semiquinones, the hydroquinones, a whole family of polycyclic aromatic hydrocarbons. We are watching for one of these last. Here it comes now, a drifting, tumbling molecule of benzopyrene. It sails into the cell’s bulging curtain wall of fats and sticks there, like an insect caught in glue; then, worse, is dragged through, because the fat curtain is spiked here and there by receptors, and one of these has the benzopyrene in its grip. The receptor winches the benzopyrene through the curtain, hand over hand, atom over atom, wrapping it as it comes in a fold of the curtain, and then closing the fold behind it, so that when it reaches the inside, a little fatty envelope buds off from the inner wall of the cell with the benzopyrene sealed inside it. And floats free, into the warm liquid workspace where the body builds its proteins.
But it’s all right. The cell has no specific defence against benzopyrene, but it is not defenceless. It has the powerful standard equipment all mammalian cells deploy when foreign bodies turn up where they’re not supposed to. The package of fat is a flag, a label, an alert. Detecting it, up comes an enzyme to metabolise the contents. The enzyme munchs the benzopyrene into pieces of epoxide which other bits of the cellular machinery can flush safely away.
This has happened over and over again, every time Sergei Alexeyevich Lebedev lights a cigarette. There are billions of cells in the lungs. Lebedev has smoked sixty unfiltered Kazbek a day for fifty years. So this has happened thousands of billions of times.
[…]
Another lung cell. The machines that Lebedev has made all build up their complicated behaviours from absolutely predictable little events, from valves and then transistors turning on and off. Definitely on; definitely off. Without any shading of degree. Without any ambiguity. The machine that makes Lebedev is different. The base layer of its behaviour, from which all the rest emerges, is various and multiple and uncertain. There is no binary simplicity. There is the slow bubble of many chemical reactions all happening at once, each continuing until a task is mostly done, probably done, done enough to satisfy a programme which was itself only whittled out of randomness just well enough to get by. The enzyme’s destruction of benzopyrene, for example, only flushes most of it away. A fraction of the epoxides react again with the enzyme and become diol epoxides. That’s what’s happened here; instead of nice, inert, detoxified molecules, we have a version of the same thing which is lacking one electron on one of its atoms, and which consequently yearns to stick to any other molecule which will share an electron with it. The diol epoxides are aggressive gloop. Aggressive? One electron’s worth of electric charge doesn’t tow a molecule very fast through the soupy interior of a cell: it doesn’t send the diol epoxides streaming along at the speed of light like the electrons in a vacuum tube. But it does exert a tiny, persistent pull on them. It draws them along towards molecules they might stick to. It draws them everywhere in the cell, and so it draws some of them towards the cell nucleus, which has another wall of fats around it, but unfortunately is designed to let molecules rather like the diol epoxides in and out on the cell’s ordinary business. The hungry, electron-seeking blob of gloop slips through, and there in front of it are floating twenty-three pairs of tempting targets: the huge, fat, friendly, electron-rich chromosomes of human DNA.
No one in the world in 1970 understands in any detail how they work, and the ignorance is particularly bad in the Soviet Union, thanks to Lysenko. But the chromosomes work whether they are understood or not. The gloop drifts in; and at any and every point along the endless coiled helix where it happens to make contact, the gloop locks on. Where it jostles forward with its missing electron to embrace one of the DNA’s electrons, there’s a little chemical reaction, and the electron in question bonds to both the DNA and the gloop. The gloop is now an ‘adduct’, glued to the helix. But the helix is changed too, by having the blob of tobacco residue stuck to it. At the position where the adduct sits, the information in the DNA has been corrupted. Instead of the G, T, C or A that should be there, in the four-letter alphabet of the genome, it reads as one of the other letters instead. The adduct has written an error into the code.
But it’s all right. In the vast majority of positions along the genome where goo might attach itself at random, altering one letter won’t produce any significant mutation, even if the alteration lasts. The genome is Lebedev’s software, but unlike software written by humans, it is not a set of procedures packed end-to-end, all of which at least purport to do something. It is a jumble of legacy code spread out in fragments through a whole voluminous library of nonsense. Almost always, a random change of letter will either hit some existing nonsense, or turn some sense into new nonsense. And because the chromosomes come in pairs, with a version of every chromosome contributed by Lebedev’s mother floating there opposite a version from his father, if some sense on the version on one side turns to nonsense, the equivalent piece on the other version will go on making sense just fine. Dangerous mutations usually only happen in the rare cases where sense is accidentally turned into different sense. Which is not what has happened here. Here, the arriving molecule has glued itself where it makes no difference at all.
This has happened billions of times.
[…]
Another lung cell. The soft rainfall of gloop onto Lebedev’s DNA continues. By chance, this particular sticky drop in the statistical rain is one of the small minority that is going to land somewhere that matters. By chance, it is falling onto a stretch of code on Chromosome number 11 which scientists will know later as the gene ras, or hRas. The electrophile noses in; it suckers on; the guanine (G) it has suckered onto on the helix now reads, for all intents and purposes, as cytosine (C). And this time, it happens that changing G to C creates sense, not nonsense, in the code. Ras with a C in it at this specific position is a viable and functional piece of software. But much more of a change is in prospect than there would be if someone substituted a new programme for the one that was supposed to be running in a computer. Human-made software is only an informational ghost, temporarily given possession of the machine and allowed to change 0s to 1s and vice versa. The software of humans, on the other hand, actually builds the hardware it runs on. It creates the machine. So a mutation in the code means a mutation in the body too, if the error endures.
Ras is one of the genes that control cell growth and cell division. In adults, it switches on and off periodically to govern the normal cycle of the cell’s existence. You wouldn’t want it switched on all the time. Foetuses in the womb run ras continually to generate all the new tissue that the Build-A-Human programme demands when a human is being first assembled. Otherwise, cell multiplication must happen when, and only when, the body part the cell is in needs a new cell. But it’s the switch that has been altered by having C where G used to be in this mutant version of ras. C instead of G at this one particular point jams the ras gene at ‘on’ – throws the lever for unstoppable growth, and then breaks the lever.
But it’s all right. This copy of ras may be corrupted, but the cell has a failsafe mechanism built into the shape of the DNA molecules. The helix is a double helix. On the other side of the double corkscrew there runs another strand of Gs, Ts, Cs and As which carries all the information of the genome, only in reverse, like the negative of a photograph or the mould a jelly was turned out of; and the cell, which is used to operating in an environment of small chemical accidents, operates a handy editorial enzyme that moves up and down the chromosomes checking that the two strands remain perfect opposites. The editorial enzyme doesn’t find absolutely all of the changes the adducts gummed to Lebedev’s DNA have made, but it finds most of them, the harmless and the harmful alike, methodically correcting each little mutation. It finds this one. The new C in the mutant version of RAS on one side clashes with the existing C on the reverse side. C against C isn’t a legitimate opposite. A quick editorial snip, and there’s the original G again. Lebedev’s factory settings have been restored.
This has happened millions of times.
[…]
Another lung cell. There is a way for a blob of goo to cause a ras mutation that persists. The gummy electron-seeking missile has to arrive, and glue G into C in the exact right place, at the exact right moment in the life of the cell when for once the enzyme cannot compare ras to its negative. That is, when the lung cell is already busy dividing into two lung cells. The goo floats in, and finds inside the nucleus a double helix which has been unzipped into two separate strands, each of which is going to grow back into a complete copy of the genome. Of all the random blobs of goo in the random rainstorm, here comes the blob that suckers onto Chromosome 11 in the position to create the always-on version of ras, just as the unzipped halves of Chromosome 11 are waving loose. It’s too late for the editorial enzyme: there’s nothing to correct the mutant C against. Along the strand instead travels a polymerase, a construction enzyme, steadily building out the other half of a new double helix. And when it reaches the C, it obligingly supplies a new counterpart for the other side which is a match, which is a perfect opposite. The corrupted code has reproduced itself. After a while, there are two sets of completed chromosome pairs in the nucleus. They pull away from each other. The nucleus stretches, puckers out like dumb-bells, splits into two as well. Last the outside wall of the cell repeats the split, stretching and pulling and puckering back into a pair of separate fatty spheres. One contains ras in its original uncorrupted form, but beside it Lebedev now has a new lung cell with ras switched on in it forever. And immediately ras takes charge of the cellular machinery and starts the build-up to superfast cell multiplication. A cell running ras full-time won’t co-operate with nearby cells in any other task. It isn’t interested, for example, in being part of a lung. Binary at last, it only wants to become two cells, four cells, eight sixteen thirty-two –
But it’s all right. The body is used to occasional runaway accidents with ras. It has one last defence mechanism. As ras goes crazy, another gene, away over on Chromosome 17, detects the molecular signature of the build-up and neatly, swiftly, initiates cell suicide. The cell dies. With it goes the mutant ras.
This has happened thousands of times.
[…]
Another lung cell. Chance upon chance upon chance upon chance. Of all the billions of cells in Lebedev’s lungs, there will be some millions where the diol epoxide gum from his cigarettes stuck itself, not to ras, but to the gene on Chromosome 17 that initiates emergency cell suicide; and of those millions there will be some thousands where the crucial blob blew in just in time to land on a strand of DNA in the midst of cell division, and got itself copied. So, scattered here and there through the billions of cells whose little bulging windows of fat face the channels of the lung, there are some thousands, randomly distributed, where the suicide gene on Chromosome 17, later to be called P53, isn’t working. Here’s one of them. And into it, after fifty years of delicious Kazbek smoke, there flies one more random molecule of goo, and it travels straight to ras to scramble the vital G into C, and it arrives just in time, too, to evade the editorial enzyme and get copied into a new cell.
And it’s not all right. The new cell with mutant ras in charge of it is a tumour unbound, freed from the body’s safety systems to multiply and multiply, unstoppably, selfishly, altogether indifferent to its effect on Lebedev’s lung, and on Lebedev.
This only has to happen once. [4789-4949]

Per me, che ho fumato per molti anni, è moderatamente agghiacciante. Bravo Spufford.

The effects of carcinoma in a major airway include shortness of breath, weight loss, bone pain, chest and abdominal pain, hoarseness, difficulty swallowing and chronic coughing. Metastasis to spine, liver and brain is common: further symptoms may then include muscle weakness, impotence, slurred speech, difficulty walking, loss of fine motor co-ordination, dementia and seizures. Radiotherapy is of limited effectiveness. Fluid build-up behind the lung obstruction eventually leads to pneumonia and death.
This, unfortunately, is certain. [4963]

* * *

Per finire, come di consueto, un po’ di citazioni (riferimento alle posizioni sul Kindle).

Some comrades seemed to think that fine words and fine ideas were all the world would ever require, that pure enthusiasm would carry humanity forward to happiness: well excuse me, comrades, but aren’t we supposed to be materialists? Aren’t we supposed to be the ones who get along without fairytales? If communism couldn’t give people a better life than capitalism, he personally couldn’t see the point. A better life, in a straightforward, practical way: better food, better clothes, better houses, better cars, better planes (like this one), better football games to watch and cards to play and beaches to sit on, in the summertime, with the children splashing about in the surf and a nice bottle of something cold to sip. [384]

America was a torrent of clever anticipations. Soviet industries would have to learn to anticipate as cleverly, more cleverly, if they were to overtake America in satisfying wants as well as needs. They too would have to become experts in everyday desire. [538]

‘But there is no doubt that electronic computers will immeasurably strengthen our ability to handle large and complex problems. And they have, moreover, the great virtue of requiring clarity from us. I’m afraid that the computer cannot digest some of our economists’ scholarly products. Long talks and articles which people think they understand prove impossible to put into logical, into algorithmic, form. It turns out that, once you remove everything that’s said “in general”, once you pour away all the water, there’s nothing left. Well, either nothing … or one big question mark …’ [1544]

‘[…] Look, the thing about Leonid Vitalevich is that he argues like that because he believes, he genuinely believes, that it’s argument that settles the issue. He is not scoring political points, or pleasing his friends, or giving shrewd knocks to his enemies. He expects to persuade people. He thinks that scientists are rational beings who respond to logic if you show it to them. Of course, he judges everybody by himself. He makes his mind up according to induction and deduction. Therefore, everyone does.’
‘An innocent, then?’ […]
‘A passionate innocent. Who knows, maybe even a holy innocent. It makes him … a little literal in his dealings with the world. He tends to think that the rules on display truly are the rules of the game. [1563-1569. A parte il richiamo ineluttabile all’Innocente della tradizione russa – penso al Boris Godunov di Musorgskij/Puškin – quella dell’innocente è una figura in cui mi riconoisco; giusto oggi ne ho recitato la parte in un colloquio di lavoro importante, senza realmente sapere chi prendesse in giro chi]

‘All the economists who know the value of everything, and the price of nothing.’ [1629]

He remembered a joke. What is a question mark? An exclamation mark in middle age. Maybe that was all this was, just his arrival at a time of life when the muscles of certainty begin to go slack, and doubt naturally replaces vigour. Just the first delivery of the universal scepticism of old men. But then why did he find himself so much angrier than before? [2017]

‘[…] It turns out that the mathematics is indifferent to whether the optimal level of production is organised hierarchically or happens in many distributed, autonomous units. So long as the prices generated by the algorithms are correct, all of the decisions can be made locally. There’s no loss of efficiency.’
‘And this is good because …?’
‘Because it means you can have a society dedicated to maximising the total social benefits of production, without everyone having to obey orders all the time.’
‘Do you like obeying orders?’ said Kostya.
‘No.’
‘Well then.’ [¤2473-2477]

tekhpromfinplan [3094]

Trees into sweaters! Brute matter uplifted to serve human purposes! What could be more dialectical? [3225]

And the activity of industry, all that human time and machine time it used up, added less and less value to the raw materials it sucked in. Maybe no value. Maybe less than none. One economist has argued that, by the end, it was actively destroying value; it had become a system for spoiling perfectly good materials by turning them into objects no one wanted. [4741][…] Brezhnev-era Soviet joke-telling, which was sometimes difficult to tell apart from a reality that constantly verged on satire. [4752-4753]The work was pointless but not hard. [4772][Brežnev] a tyrant without a cause […] [4782]

Before, whenever he doubted, he had worked. Whenever he had been troubled by a memory, he had worked, telling himself that the best answer to any defect in the past must be a remedy in the future. The future had been his private solution as well as a public promise. Working for the future made the past tolerable, and therefore the present. [5253]

So much blood, and only one justification for it. Only one reason it could have been all right to have done such things, and aided their doing: if it had been all prologue, all only the last spasms in the death of the old, cruel world, and the birth of the kind new one. [5281]

Perché non ci sono molti economisti al governo? Perché tutti li odiano!

Il quotidiano online Salon si chiede, in un articolo pubblicato il 18 febbraio 2013 a firma di Alex Pareene (Why don’t people want to elect economists to run stuff? Because everyone hates them), perché non siano molti gli economisti che guidano o fanno parte di un esecutivo, soprattutto in tempi di crisi, e si dà la risposta che leggete nel titolo. E poi articola la sua analisi.

Because honestly? This job is kind of a pain.
Italian Prime Minister (and economist) Mario Monti.
AP / washingtonpost.com

L’analisi di Pareene prende le mosse da uno studio di Mark Hallerberg e Joachim Wehner, che hanno pubblicato i loro risultati su Vox il 14 febbraio 2013 (The technical competence of economic policymakers). Anche se a prima vista appare ragionevole incaricare del governo dell’economia, soprattutto in tempi di crisi, un economista di vaglia (come Monti in Italia e Papademos in Grecia), questa soluzione è tutt’altro che frequente, non solo con riferimento ai Capi di governo, ma anche ai ministri dell’economia e delle finanze e ai governatori delle banche centrali. Ecco l’abstract dell’articolo su Vox di Hallerberg e Wehner, se non vi va di leggerlo integralmente al link che ho riportato sopra:

The appointments of Papademos in Greece and Monti in Italy in 2011 are examples of leadership changes meant to bring more competent people into government. This column aims at understanding why governments sometimes appoint economic policymakers with economics training but often do not. It suggests that levels of economics education among finance ministers are substantially higher in new democracies than in old ones and that the appointment of an economics PhD as a central bank president is 22% more likely during a banking crisis.

L’articolo completo, pubblicato da SSRN, si può scaricare in .pdf a partire da qui: The Technical Competence of Economic Policy-Makers in Developed Democracies.

Comparison of the economic training of economic policymakers / voxeu.org

Sempre il 18 febbraio 2013, sull’argomento interviene anche Brad Plumer, reporter del Washington Post, su un blog del suo quotidiano (Wonkblog) per chiedersi:

«Why aren’t more countries run by economists?»
«Why governments sometimes appoint economic policymakers with economics training but often do not?»

Plumer non ha una risposta definitiva, ma sottolinea alcune conclusioni del paper di Hallerberg e Wehner:

  1. Sono le giovani democrazie dell’Europa dell’Est, più del club dei padri fondatori dell’Unione europea, ad avere una più elevata propensione a collocare degli economisti a capo dei governi, dei ministeri economici e delle banche centrali
  2. Gli Stati membri dell’Eurozona, al contrario, sono particolarmente restii a fare questa scelta («We had presumed that membership in an economic union, in particular the Eurozone, would increase the demand for more competent economic policymakers», scrivono i due).
  3. La probabilità di vedere un economista di professione alle leve del comando aumenta sensibilmente in tempi di crisi, e questo era abbastanza prevedibile.
  4. Ma anche quando hanno la maggioranza partiti o coalizioni di sinistra (per tranquillizzare i mercati, ipotizza Brad Plumer).

Sì, ma poi – ci chiediamo tutti, immagino – avere un economista al timone conduce a risultati migliori di quelli che si ottengono quando al timone c’è uno Schettino qualunque?

Hallerberg e Wehner rispondono in modo paludato e sibillino, come si confà a degli economisti accademici: «The truth of such assertions is – at least on average – an empirical question. After all, it is not a priori clear that technical competence in itself is a desirable trait.»

Brad Plumer è un po’ più coraggioso ed esplicito (ma la sua è una spiegazione che, sia pure in modo più cauto, avanzano anche Hallerberg e Wehner): i ranghi della tecno struttura dei ministeri economici e delle banche centrali sono già affollati di tecnici competenti. Potrebbe essere molto più importante per un leader essere un manager competente e dotato di saggezza politica che avere enormi capacità tecniche («It might be far more important for a leader to be a competent manager with political savvy than to have a lot of technical expertise»).  Le democrazie mature questo lo sanno, e preferiscono quelle vecchie volpi dei politici di professione…

Alex Pareene è più coraggioso e pensa di avere la risposta alla domanda: «Why aren’t more countries run by economists?«

Here’s why: Because everyone hates economists. Economists are the worst. They’re usually very convinced of their own genius, though. And they act like because they use math, their “science” is more sciencey than sociology or whatever, but it is still mostly just a bunch of made-up stuff. If a bunch of economists had been running the world prior to the 2008 financial crisis the 2008 financial crisis would not have been averted because almost no one predicted it.
But the most important reason there aren’t a ton of economist prime ministers is that economists disdain politics. Economists tend to get a great deal of pleasure out of loudly attacking very popular policies (higher minimum wage! tax code giveaways to the upper-middle-class!) and they generally talk about normal people as little mindless “economic units” or something awful and dehumanizing like that. Economists don’t want to “campaign” and convince people to vote for them, they just want to be appointed to positions of power by people who actually did shake a bunch of hands and tell people what they wanted to hear. An economist doesn’t want to be an elected official who answers to voters, because that sucks.
Conveniently, the researchers did not bother to answer the question of whether countries that put economists in charge of stuff actually have better economic outcomes. But the economist in charge of Europe’s central bank is currently purposefully imposing disastrous austerity on a bunch of countries that did not elect him, so really if you want to know why we don’t let economists run stuff look at Spain’s youth unemployment rate.

Eh sì, ce l’ha proprio con il nostro Mario Draghi…

salon.com

Enrico Deaglio – Il vile agguato

Deaglio, Enrico (2012). Il vile agguato. Milano: Feltrinelli. 2012. ISBN 9788807172373. Pagine 141. 8,99 €

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Devo confessare che faccio fatica a ricordare quale impulso mi abbia spinto, oltre 6 mesi fa (era il 9 agosto 2012, mi informa sollecito amazon.it), a comprare questo libro. Certo, conosco Enrico Deaglio da anni, l’ho seguito dai tempi di Lotta continua e del suo quotidiano, e poi di quel bel settimanale che è stato Diario. Forse volevo sapere qualche cosa di più di questa storiaccia della trattativa, forse speravo che Deaglio – profondo conoscitore della Sicilia e dei suoi misteri – mi aiutasse a capire qualche cosa. Anche perché devo confessare che le letture sui quotidiani mi avevano disorientato (e continuano a farlo).

Se era questo il motivo, però, avrei dovuto leggerlo subito: dopo 6 mesi la situazione è ancora più intricata, se possibile.

Deaglio scrive molto bene, e lo leggo con vero piacere. Le sue digressioni, anche letterarie, sono sempre stimolanti (adesso mi ha fatto venire voglia di leggere Amabili resti di Alice Sebold, per esempio). Ma non ho trovato nel libro quello che cercavo: un po’ di chiarezza. Sono più perplesso di prima. Certo, questa storia della trattativa è sconvolgente, soprattutto se letta in contrappunto con tante dichiarazioni ufficiali, e tenendo conto del fatto che alcune persone, alcuni servitori dello Stato (e lo dico senza retorica e senza ironia) ci hanno creduto davvero alla lotta senza quartiere contro Cosa nostra e la malavita organizzata. E ci hanno lasciato la pelle. Ma su questo argomento aveva già detto molto (almeno per me) Giancarlo De Cataldo con il suo Nelle mani giuste. Non era l’orrore che cercavo, era la chiarezza. E non l’ho trovata. Forse pretendevo troppo, ma sono rimasto deluso.

Mi resta soltanto l’amara sensazione, che provo troppo spesso in questi giorni, che la situazione italiana non abbia vie d’uscita. Non vie d’uscita che mi piacciano, almeno.

Gerald Durrell – La mia famiglia e altri animali

Durrell, Gerald (1956). La mia famiglia e altri animali (trad. A. Motti). Milano: Adelphi. 2012. ISBN 9788845907333. Pagine 352. 10,00 €

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Tra le mie abitudini più inveterate c’è quella (decadente, sibaritica, huysmaniano-dannunziana) di passare una parte consistente della mattina della domenica immerso in una vasca da bagno colma d’acqua calda. Ammetto anche che, da parecchi anni ormai, stiamo parlando di una jacuzzi (non hollywoodiana, ma parva sed apta mihi). Non faccio il bagno per lavarmi, per quello è molto più efficiente (e igienica) la doccia. Lo faccio per rammollirmi: in senso letterale, le unghie dei piedi; in senso figurato, i pensieri (come se ne avessi bisogno).

I pensieri, già, che ogni volta mi corrono irresistibilmente alla versioncina milanese della celebre Magic Moments portata al successo da Perry Como (ne ho già parlato qui; adesso una versione su YouTube c’è, ma non vale nulla e quindi non la riporto qui sotto: se la volete sentire la trovate qui).

In questi ozi non mi accompagnano né tartarughe vive (la scelta, immagino, di Huysmans) né paperelle di plastica gialla, ma le letture. Letture rigorosamente cartacee, perché non mi sembra prudente portarsi il Kindle o l’iPad nella vasca da bagno.

Per alcuni mesi, un capitolo per volta, mi ha accompagnato nelle mie abluzioni festive questo libro, il regalo di una giovane amica e collega , che lasciando il lavoro e la città per seguire la sua vocazione scientifica e accademica a scapito di qualche immediato vantaggio monetario, me l’ha dato aggiungendo, lusingandomi, che trovava il mio senso dell’umorismo vicino a quello di Gerald Durrell.

È un libro giustamente famosissimo e di lungo e duraturo successo: pubblicato originariamente nel 1956, la traduzione italiana di Adelphi è del 1975. La versione nella collana economica Gli Adelphi, del 1990, è giunta alla 24ª edizione.

La fama del libro non è certo usurpata: è una lettura divertente e piacevole, anche se di un umorismo a volte un po’ démodé. Ci sono anche momenti di sincera commozione (anche se Durrell non è uno da far trasparire troppo facilmente i suoi sentimenti), come in questo celebre passo sulla mamma di Kralefsky, che richiama irresistibilmente la Miss Havisham di Great Expectations.

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* * *

Già da qualche settimana studiavo con Kralefsky quando scoprii che non viveva solo. Di tanto in tanto, nel corso della mattinata, lui s’interrompeva tutt’a un tratto nel bel mezzo di una somma o di una filastrocca di capoluoghi di contea e piegava la testa da un lato come se tendesse l’orecchio.
«Scusami un momento» diceva. «Devo andare a vedere mia madre».
A tutta prima questo mi lasciò un po’ perplesso, perché ero convinto che Kralefsky fosse troppo vecchio per avere una madre ancora vivente. Dopo averci almanaccato sopra, arrivai alla conclusione che quello fosse soltanto un modo garbato di dire che desiderava andare al gabinetto, perché mi rendevo conto che non tutti avevano la disinvoltura della mia famiglia quando si toccava quel tasto. Non pensai affatto che, se la mia conclusione era giusta, Kralefsky si appartava molto più spesso di qualunque altra persona di mia conoscenza. Una mattina, a colazione, avevo mangiato nespole a tutto spiano, e cominciai a sentirne gli spiacevoli effetti mentre eravamo nel mezzo d’una lezione di storia. Visto che Kralefsky era tanto schizzinoso sull’argomento dei gabinetti, decisi che dovevo esprimere la mia richiesta in modo educato, e la soluzione migliore mi parve quella di adottare lo strano termine che usava lui. Lo guardai fermamente negli occhi e gli dissi che avrei desiderato fare una visita a sua madre.
«A mia madre?» ripeté lui stupefatto. «Una visita a mia madre? Adesso?».
Non riuscii a capire che cosa ci fosse di tanto strano, sicché mi limitai ad annuire.
«Be’,» disse in tono dubbioso «sono certo che mamma sarà felice di vederti, naturalmente, però sarà meglio che vada a vedere se non le è di disturbo».
Uscì dalla stanza, con un’aria ancora un po’ perplessa, e tornò dopo qualche minuto.
«Mamma sarà felice di vederti,» annunciò «ma dice che devi scusarla se è un po’ in disordine».
Pensai che parlare del gabinetto come se fosse un essere umano significava spingere la buona creanza un po’ troppo in là, ma visto che Kralefsky su quell’argomento era palesemente un tantino eccentrico, sentii che era meglio assecondarlo. Gli dissi che non me ne importava neanche un po’ se sua madre era in disordine, perché anche la nostra lo era molto spesso.
«Ah… ehm… sì, sì, lo immagino» mormorò lui dandomi un’occhiata un po’ allarmata. Mi accompagnò lungo un corridoio, aprì una porta e, con mia enorme sorpresa, mi fece entrare in una vasta camera da letto in penombra. La stanza era una foresta di fiori; vasi, conche e recipienti di coccio erano posati un po’ dappertutto, e da ognuno traboccava una massa di splendide corolle che scintillavano nell’oscurità, come pareti di gioielli in una grotta ombreggiata di verde. A un capo della stanza c’era un letto enorme, e nel letto, appoggiata a un mucchio di cuscini, giaceva una minuscola figura non più grande di un bambino. Quando mi avvicinai capii che doveva essere vecchissima, perché i suoi tratti fini e delicati erano coperti da un intrico di rughe che solcavano una pelle morbida e vellutata come quella di un fungo neonato. Ma in lei la cosa stupefacente erano i capelli. Le ricadevano sulle spalle come una gonfia cascata e poi si spargevano per un tratto giù dal letto. Erano d’un intenso e bellissimo color rame, luminosi e scintillanti come se fossero in fiamme, e mi fecero pensare alle foglie d’autunno e al vivido pelo invernale delle volpi.
«Mamma cara,» disse dolcemente Kralefsky, attraversando la stanza e sedendosi su una sedia accanto al letto «mamma cara, Gerry è venuto a trovarti».
La minuscola figura sul letto sollevò le palpebre trasparenti e pallide e mi guardò con grandi occhi bruni, vispi e intelligenti come quelli di un uccello. Trasse dal folto della sua ramata capigliatura una mano sottile e bellissima, appesantita di anelli, e me la porse, sorridendo maliziosamente.
«Sono così lusingata che tu abbia chiesto di vedermi» disse con una voce sommessa e velata. «Al giorno d’oggi, tanta gente considera una persona della mia età una vera seccatura».
Imbarazzato, mormorai qualcosa, e gli occhi brillanti mi guardarono ammiccando, e lei diede in una garrula risatina da merlo e batté la mano sul letto. «Siediti qua,» mi invitò «siediti e chiacchieriamo un momentino».
Con grande cautela raccolsi la massa di capelli ramati e la spostai da una parte per potermi sedere sul letto. I capelli erano morbidi, serici e pesanti, come un’onda color fiamma che mi scorresse tra le dita. La signora Kralefsky mi sorrise e ne prese una ciocca, facendosela rigirare tra le dita perché scintillasse.
«L’unica vanità che mi sia rimasta,» disse «tutto quel che resta della mia bellezza».
Contemplò quell’ondata di capelli come se fosse un cucciolo, o qualche altra bestiolina che non avesse nulla a che fare con lei, e se li accarezzò affettuosamente.
«È strano,» disse «molto strano. Io ho una teoria, sai? Che alcune cose belle s’innamorano di se stesse, come Narciso. E quando questo succede, non hanno nessun bisogno di aiuto per vivere; diventano così prese dalla propria bellezza che vivono soltanto per quella, nutrendosi di se stesse, per così dire. In questo modo, più si fanno belle e più forti diventano; vivono in un circolo. I miei capelli hanno fatto proprio questo. Sono autosufficienti, crescono soltanto per se stessi, e il fatto che il mio corpo sia andato in rovina non li turba minimamente. Quando morirò, se ne potrà colmare tutta la mia bara, e probabilmente loro continueranno a crescere anche quando il mio corpo sarà ridotto in polvere». [pp. 260-263]

La lugubre gondola

Ormai dovrebbero saperlo anche i sassi: nel 2013 si celebra il duecentesimo anniversario della nascita di Giuseppe Verdi (nato il 10 ottobre 1813) e dui Richard Wagner (22 maggio). Wagner è stato onorato (tra l’altro) con l’inaugurazione della stagione scaligera 2012-2013, aperta da un Lohengrin con qualche polemica (più sulla regia che sul vulnus all’italianità). Verdi addirittura con l’apertura del Festival di Sanremo sulle note di Va, pensiero, sull’ali dorate: ecco, si temeva un festival dell’Unità e invece abbiamo subito avuto un’atmosfera da salsicciata celtica sul pratone di Pontida.

Ma non è di questo che volevo parlare. Verdi, certamente, ha battuto Wagner in longevità, arrivando ai rispettabili traguardi del nuovo secolo e della veneranda età di 87 anni compiuti (è morto il 27 gennaio 1901: non che sia una data che so a memoria, l’ho letta su Wikipedia). Wagner invece non ha nemmeno raggiunto i 70 anni, ed è morto a Venezia il 13 febbraio 1883. Eh, già: quindi ricorre oggi il centotrentesimo anniversario della sua morte.

Wagner in famiglia, 2 anni prima della morte / wikimedia.org/wikipedia/commons

Abbiamo già ricordato 5 anni fa, in questo post, che l’amico Franz Liszt aveva scritto alcuni brani (La lugubre gondola I e II, R.W. – Venezia), lamentando che su YouTube non ci fossero le interpretazioni di Maurizio Pollini, che le esegue di frequente. Fortunatamente, nel frattempo uno del pubblico è riuscito a catturare l’audio dell’interpretazione polliniana del 6 marzo 2012 al Southbank Centre di Londra:

Maurizio Pollini, piano
Fryderyk Chopin:
Fantasia in F minor, Op.49
Fryderyk Chopin: 2 Nocturnes, Op.62
Fryderyk Chopin: Polonaise-Fantaisie in A flat, Op.61
Fryderyk Chopin: Scherzo No.1 in B minor, Op.20
Interval
Franz Liszt: Nuages gris, S.199
Franz Liszt: Unstern! sinistre, disastro, S.208
Franz Liszt: La lugubre gondola for piano, S.200 (vers.1)
Franz Liszt: R.W. – Venezia, S.201
Franz Liszt: Sonata in B minor

As the great Italian pianist celebrates his 70th birthday in 2012 his unique artistic stature seems more widely acknowledged than ever. Pollini returns to Royal Festival Hall in a concert that follows last season’s celebrated series of five recitals.
In this classic programme Pollini takes on one of the iconic works of the Romantic repertoire – Liszt’s B minor sonata, alongside some other Liszt favourites. The Liszt throws new light on the music of his contemporary Chopin in the first half. In a recent interview Maestro Pollini said ‘Chopin is obviously a very strong lyrical composer; there is absolutely no doubt about it. But the dramatic element in his music is also very powerful and there are elements where you might look a little more deeply within his work.’
‘Pollini has few pianistic peers in the world today.’ (The Guardian)

Qui ascoltiamo i primi 4 brani della 2ª parte del recital:

Gabriele D’Annunzio, wagneriano convinto, racconta dei funerali nella scena finale de Il fuoco, in cui il suo alter ego Stelio Èffrena è uno dei 6 portatori del feretro:

Parve a Stelio di riconoscere presso la porta della sua casa, su la Fondamenta Sanudo, la figura di Daniele Glàuro.
— Ah, Stelio, t’aspettavo! — gli gridò nel turbine dei suoni la voce affannosa. — Riccardo Wagner è morto! [pos. Kindle 5574]

Il mondo pareva diminuito di valore.
Stelio Èffrena domandò alla vedova di Riccardo Wagner che ai due giovani Italiani i quali avevano trasportato una sera di novembre dal battello alla riva l’eroe svenuto, e a quattro loro compagni, fosse concesso l’onore di trasportare il feretro dalla stanza mortuaria alla barca e dalla barca al carro. Tanto fu concesso.
Era il 16 febbraio: era un’ora dopo il mezzogiorno. Stelio Èffrena, Daniele Glàuro, Francesco de Lizo, Baldassare Stampa, Fabio Molza e Antimo della Bella attendevano nell’atrio del palazzo. L’ultimo era giunto da Roma avendo ottenuto di condurre seco due artieri, addetti all’opera del Teatro d’Apollo, perché portassero al funerale i fasci dei lauri còlti sul Gianicolo.
Attendevano senza parlare e senza guardarsi, ciascuno essendo vinto dal palpito del suo proprio cuore. Non s’udiva se non uno sciacquio fievole su i gradini di quella grande porta che nelle candelabre degli stipiti recava scolpite le due parole: DOMVS PACIS.
L’uomo del remo, che era stato caro all’eroe, discese a chiamarli. Egli aveva gli occhi bruciati dalle lacrime sul viso maschio e fedele.
Stelio Èffrena andò innanzi; i compagni lo seguirono. Salita la scala, entrarono in una stanza bassa e poco illuminata ov’era un odore triste di balsami e di fiori. Attesero alcuni istanti. L’altra porta s’aprì. Entrarono a uno a uno nella stanza attigua. Tutti divennero pallidi, a uno a uno.
Il cadavere era là, chiuso nella cassa di cristallo; e accanto, in piedi, era la donna dal viso di neve. La seconda cassa, di metallo forbito, brillava sul pavimento aperta.
I sei portatori si disposero innanzi alla salma, aspettando un cenno. Altissimo era il silenzio, ed essi non battevano palpebra; ma un dolore impetuoso investiva le loro anime come una raffica e le squassava fin nelle radici profonde.
Tutti erano fissi all’eletto della Vita e della Morte. Un infinito sorriso illuminava la faccia dell’eroe prosteso: infinito e distante come l’iride dei ghiacciai, come il bagliore dei mari, come l’alone degli astri. Gli occhi non potevano sostenerlo; ma i cuori, con una meraviglia e con uno spavento che li faceva religiosi, credettero di ricevere la rivelazione di un segreto divino.
La donna dal viso di neve tentò un lieve gesto, rimanendo rigida nella sua attitudine come un simulacro.
Allora i sei compagni si mossero verso la salma; tesero le braccia, raccolsero il vigore. Stelio Èffrena ebbe il suo posto a capo e Daniele Glàuro l’ebbe a piede, come quel giorno. Sollevarono il peso concordi, a una voce sommessa del conduttore. Tutti ebbero negli occhi un barbaglio, come se a un tratto una zona di sole traversasse il cristallo. Baldassare Stampa ruppe in singhiozzi. Uno stesso nodo serrò tutte le gole. La cassa ondeggiò; poi calò; entrò nell’involucro di metallo come in un’armatura.
I sei compagni rimasero prostrati intorno. Esitarono, prima d’abbassare il coperchio, affascinati dall’infinito sorriso. Udendo un fruscio leggero, Stelio Èffrena alzò gli occhi: vide la faccia di neve inclinata sul cadavere, apparizione sovrumana dell’amore e del dolore. L’attimo fu eguale all’eternità. La donna scomparve.
Abbassato il coperchio, essi risollevarono il peso cresciuto. Lo trasportarono fuori della stanza, poi giù per la scala, con lentezza. Rapiti da un’angoscia sublime, nel metallo del feretro vedevano riflettersi i loro volti fraterni.
La barca funebre attendeva dinanzi alla porta. Su la cassa fu distesa la coltre. I sei compagni attesero a capo scoperto che la famiglia discendesse. Discese, insieme stretta. La vedova passò velata; ma lo splendore della sua sembianza era nella memoria dei testimoni per sempre.
Il corteo fu breve. La barca mortuaria andava innanzi; seguiva la vedova con i cari; poi seguiva il drappello giovenile. Il cielo era ingombro su la grande via d’acqua e di pietra. L’alto silenzio era degno di Colui che aveva trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le forze dell’Universo.
Una torma di colombe, partendosi dai marmi degli Scalzi con un fremito balenante, volò sopra la bara a traverso il canale e inghirlandò la cupola verde di San Simeone.
All’approdo uno stuolo taciturno di devoti attendeva. Le larghe corone odoravano nell’aria cineree. S’udiva l’acqua sbattere sotto le prue ricurve.
I sei compagni tolsero il feretro dalla barca e lo portarono a spalla nel carro che era pronto su la via ferrata. I devoti appressandosi deposero le loro corone su la coltre. Nessuno parlava.
Allora s’avanzarono i due artieri con i loro fasci di lauri còlti sul Gianicolo.
Membruti e possenti, eletti tra i più forti e tra i più belli, parevano foggiati nell’antica impronta della stirpe romana. Erano gravi e tranquilli, con la libertà selvaggia dell’Agro nei loro occhi venati di sangue. I loro lineamenti risentiti, la fronte bassa, la chioma corta e crespa, le mascelle salde, il collo taurino, ricordavano i profili consolari. La loro attitudine scevra d’ogni ossequio servile li faceva degni del carico.
I sei compagni a gara, divenuti eguali nel fervore, prendendo i rami dai fasci li sparsero sul feretro dell’eroe.
Nobilissimi erano quei lauri latini, recisi nella selva del colle dove in tempi remoti scendevano le aquile a portare i presagi, dove in tempi recenti e pur favolosi tanto fiume di sangue versarono per la bellezza d’Italia i legionarii del Liberatore. Avevano i rami diritti robusti bruni, le foglie dure, fortemente innervate, con i margini aspri, verdi come il bronzo delle fontane, ricche d’un aroma trionfale.
E viaggiarono verso la collina bavara ancóra sopita nel gelo; mentre i tronchi insigni mettevano già i nuovi germogli nella luce di Roma, al romorio delle sorgenti nascoste. [5638-5664]

*Settignano di Desiderio:
li XIII di febbraio MDCCCC. [5683]

Mamma mia, che pesantezza. Liberiamoci delle greve atmosfera dannunziana con una lepidezza. Dissipiamo le nubi come nel temporale alla fine del Rheingold.

Wagner morì, pare, per attacco cardiaco. Ma in un universo parallelo, frutto probabilmente di un esperimento schrödingeriano ante litteram, Wagner morì forse di colera, come il Gustav von Aschenbach di Thomas Mann e Luchino Visconti. In quel mondo, il brano che Franz Liszt scrisse per commemorare il tragico evento si chiamava La lugubre vongola.

Le elezioni italiane comportano il rischio che i fascisti rialzino la testa?

Lo teme globalpost, un quotidiano online di Boston, che l’11 febbraio 2013 ha pubblicato un articolo di Paul Ames intitolato Fascism mounts a comeback in Italy, che afferma – tra l’altro – che un esito incerto delle elezioni e l’aggravarsi della situazione economica potrebbero spingere i gruppetti di estrema destra a compattarsi.

Berlusconi’s praise for Mussolini was widely seen as an attempt to draw votes from a plethora of small parties on the more radical right.

Other election contenders have reached out to the neo-Fascists. Anti-establishment comedian Beppe Grillo, who is running for prime minister and scores about 15 percent in polls, recently told members of the Fascist-inspired CasaPound organization that some of their ideas could be shared and that they’d be welcome to join his movement.

Named after the American poet Erza Pound, who spent much of World War II making anti-semitic and anti-allied propaganda broadcasts for Mussolini’s Radio Rome, CasaPound is one of several radical right-wing groups seeking to gain from the widespread dissatisfaction with established politics.

Divisions among the various far-right groups has weakened their influence. But some still see cause for concern, particularly if the economic situation deteriorates — a prospect many fear if the election results spook markets.

Fascisti fanno il saluto romano nella manifestazione del 28 ottobre 2012 in occasione dei 90 anni della marcia su Roma. (Tiziana Fabi/AFP/Getty Images)

L’articolo è stato ripreso anche dal popolarissimo Salon.