Il previo che viene dopo

Grandissima. Un raggio di luce in una settimana scura. Grazie, Luisa

Sviatoslav Richter – 16 settembre 1992

Qualche giorno fa ero a Firenze per un seminario. No, non la kermesse organizzata da la Repubblica, ma una cosa più paludata e accademica. Nell’intervallo c’era un light lunch, che è poi come un extended coffee break: finger food da mangiare in piedi, accumulando la stessa quantità di calorie di un piatto di rigatoni con la pajata ma sporcandosi anche l’abito o almeno la cravatta.

Io sono ormai perennemente a dieta e mi sono quindi astenuto dal pranzo, preferendo fare una passeggiata in un sole più che primaverile (ma non vi preoccupate, più tardi il temporale d’ordinanza è arrivato puntuale a spegnere gli entusiasmi e a fare alla mia giacca quello che non avevo lasciato fare al light lunch). Sono andato verso piazza del Duomo, passando davanti a Palazzo Medici-Riccardi e a San Lorenzo e mi sono subito trovato, inavvertitamente, a ripercorrere à rebours il cammino di Robert Langdon nella prima parte di Inferno di Dan Brown.

Apro una parentesi. È con viva e vibrante soddisfazione che vi segnalo che nella recensione comparsa sul prestigioso New Yorker (Joan Acocella, What the Hell?, 27 maggio 2013) si dicono cose non troppo dissimili da quelle che ho scritto io. Leggete tutto l’articolo, che ne vale la pena. Qui solo qualche assaggino:

As we saw in “The Da Vinci Code,” there is no thriller-plot convention, however well worn, that Brown doesn’t like. The hero has amnesia. He is up against a mad scientist with Nietzschean goals. He’s also up against a deadline: in less than twenty-four hours, he has been told, the madman’s black arts will be forcibly practiced upon the world.
[…]
[…] we have Brown’s beloved “symbologist,” Robert Langdon, a professor at Harvard, a drinker of Martinis, a wearer of Harris tweeds, running around Europe with a good-looking woman—this one is Sienna Brooks, a physician with an I.Q. of 208—while people shoot at them. All this transpires in exotic climes—Florence, Venice, and Istanbul—upon which, even as the two are fleeing a mob of storm troopers, Brown bestows travel-brochure prose: “The Boboli Gardens had enjoyed the exceptional design talents of Niccolò Tribolo, Giorgio Vasari, and Bernardo Buontalenti.” Or: “No trip to the piazza was complete without sipping an espresso at Caffè Rivoire.”
[…]
Finally, the conviction that everything refers to something else generates codes and symbols, which is what generates Robert Langdon. As a symbologist, he can read these runes. Often, the clue they give him does not point him to what he’s looking for but rather to something that will offer a further clue, which will get him a little closer to what he’s looking for, and so on, as in a treasure hunt.
[…]
The book has almost no psychology, because one of Brown’s favorite plot devices is to reveal, mid-novel, that a character presented all along as a friend is in fact an enemy […], or vice versa. To do that—and it’s always pretty exciting—Brown can’t give his characters much texture; if he did, they would be too hard to flip. Of course, without texture they don’t have anything interesting to say, except maybe “Stop the plane there.” The dialogue is dead. As for the rest of the writing, it is not dead or alive. It has no distinction whatsoever.

Ma questa era soltanto una digressione per spiegare perché mi trovassi in Via Por Santa Maria. Quasi arrivato a Ponte Vecchio si è aperto un passaggio tra due case e io ho avuto una vertigine proustiana che mi ha portato indietro di più di vent’anni.

Santo StefanoSanto Stefano a Ponte Vecchio

È l’ingresso della chiesa di Santo Stefano a Ponte Vecchio, che affaccia sulla sua raccolta piazzetta, defilata rispetto all’andirivieni di turisti della direttrice Ponte Vecchio-Piazza della Signoria. Lì, il 16 settembre 1992, venuti da Roma con un treno al pomeriggio e partiti prestissimo la mattina dopo aver dormito nella casa di Bagno a Ripoli, Morgaine e io abbiamo sentito un concerto di Sviatoslav Richter. Non il primo e non l’ultimo, ma comunque ogni concerto di Richter – mi creda chi non l’ha mai sentito – era un’occasione speciale.

L’acustica della chiesa è molto secca, o fredda: scegliete voi la vostra sinestesia. Forse sono tutti quei marmi, forse la totale assenza di superfici curve, che è una caratteristica della sua architettura. Non so se gli interventi successivi, che hanno accentuato le sue caratteristiche di auditorium (nel 1992 era ancora indubitabilmente una chiesa, ancorché sottratta al culto) abbiano ammorbidito la resa acustica. Nonostante la fama di Richter, la chiesetta non era stracolma. Era una giornata calda e serena (si erano toccati i 31 °C) e il concerto era nel tardo pomeriggio, alle 18 o alle 19. Nonostante le mie ricerche (disperate e frenetiche, ma non accurate) non ho trovato il programma, che però sono certo di avere conservato.

Nemmeno sull’enciclopedico sito dedicato alla memoria di Richter (In memoriam Sviatoslav Teofilovich Richter 1915-1997) è riportato il programma del concerto. Sono però abbastanza certo, basandomi – oltre che sulla mia fallibile memoria – anche sugli indizi offerti dalla cronologia di trovar.com, che il programma integralmente beethoveniano fosse lo stesso del concerto di pochi giorni dopo (20 settembre) a Briosco, a Villa Medici-Giulini e ancora, il mese successivo, in Olanda, a Eindhoven (22 ottobre) e Amsterdam (25 ottobre). Sempre lo stesso programma fu eseguito (e trasmesso dalla televisione tedesca) a Mosca il 2 dicembre e a fine mese, il 22, al Teatro Accademia di Conegliano di Asolo.

wikimedia.org/wikipedia/commons

Il programma, dunque. Tutto Beethoven, sonate per pianoforte. In particolare:

  • Sonata n. 18 in mi bemolle maggiore, op. 31/3 “La caccia”
  • Sonata n. 19 in sol minore, op. 49/1
  • Sonata n. 20 in sol maggiore, op. 49/2
  • Sonata n. 22 in fa maggiore, op. 54
  • Sonata n. 23 in fa maggiore, op. 57 “Appassionata”.

Si tratta di sonate celeberrime (la prima e l’ultima) e di sonate relativamente meno eseguite (le due sonate op. 49 e l’op. 54 hanno la peculiarità di essere in soli 2 tempi e molto brevi). Richter partì un po’ nervoso e impacciato (come gli succedeva abbastanza spesso) ma poi giganteggiò.

Di questo programma abbiamo la testimonianza di un disco Philips (438486) registrato ad Amsterdam, durante il concerto del 25 ottobre (suppongo), privo però della prima sonata.

Della trasmissione effettuata dalla televisione tedesca NDR (e da quella russa TV Ostankino) del concerto del 2 dicembre 1992 sono riuscito a trovare il riferimento sulla videografia richteriana curata da Alex Malow, ma non la registrazione (47 minuti di delizia, suppongo). Accontentatevi della Sonata op. 49/1 (con una presa del suono molto approssimativa).

Qualche mese dopo, tra il 26 e il 27 maggio 1993, la chiesa di Santo Stefano al Ponte Vecchio fu gravemente danneggiata dall’attentato mafioso di via dei Georgofili (5 morti e 48 feriti).