Il silenzio dell’onda

Carofiglio, Gianrico (2011). Il silenzio dell’onda. Milano: Rizzoli. 2011.

Il silenzio dell'onda

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Lascia sempre un po’ d’amaro in bocca scoprire che un autore che hai amato (perché i libri si amano, e inevitabilmente si amano i loro autori, e si corre a comprare e a leggere in loro nuovi libri carichi di aspettative) non ti entusiasma più come prima. Mi ero chiesto, recensendo Le perfezioni provvisorie, se i segnali di stanchezza fossero miei o dell’autore e mi rispondevo, nella sostanza, che la stanchezza era di Carofiglio e dipendeva dai vincoli imposti dal romanzo di genere, il poliziesco.

Il problema è che questo non è un romanzo di genere (non penso di essere malizioso, ma solo attento, se dico che Carofiglio pubblica da Sellerio i suoi polizieschi dell’avvocato Guerrieri e da Rizzoli gli altri romanzi, come Il passato è una terra straniera).

Il protagonista di questo libro è un personaggio interessante: l’essere stato per anni un carabiniere infiltrato sotto copertura gli ha fatto perdere ogni certezza di sé, fino a spingerlo sull’orlo del suicidio e in cura da uno psichiatra. Ma lo svolgimento è deprimente e stereotipato (l’incontro casuale con una bella signora è terapeutico e gli ridà speranza nel futuro: ma che idea originale!), e il versante thriller (se così si può dire) è una scontatissima storia di criminalità giovanile a sfondo sessuale. I sogni del giovane Giacomo (che intervallano i capitoli con la vicenda di Roberto) sono imbarazzanti nella loro banalità. Persino l’immagine di copertina è brutta (mentre quella di Le perfezioni provvisorie era raffinatamente bellissima).

Due cose soltanto meritano di essere segnalate: una parte della vicenda si svolge al Rione Monti, tra via Panisperna e via del Boschetto, dove ho abitato per una decina d’anni; ed è stato il primo e-book che ho letto sull’iPad (non sul Kindle) comprandolo da la Feltrinelli. Lo so che è poco.

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La guerra dei mondi

73 anni fa, il 30 ottobre 1938, andò in onda una delle più famose trasmissioni radiofoniche di tutti i tempi, The War of the Worlds di Orson Welles, trasmessa dalla CBS.

Orson Welles nel 1937

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Benché la trasmissione si apra con una citazione del romanzo di H. G. Wells da cui era tratta – il romanzo, ambientato a Londra, era stato pubblicato nel 1898; l’autore era ancora vivente – e sia ambientata nel 1939, cioè nel futuro, era costruita come un notiziario dal vivo e fece cadere in errore molti (ingenui?) ascoltatori.

Un numero musicale viene interrotto dalla notizia di strane esplosioni su Marte. L’emittente intervista un luminare (presentato come professore di astronomia a Princeton, interpretato dallo stesso Orson Welles) che nega ci possa essere vita su Marte. Uno strano cilindro atterra nel New Jersey. La CBS manda un inviato, che viene arrostito insieme alla folla dei curiosi, mentre è collegato con la radio: la sua voce si interrompe a metà frase. Torna il professore e questa volta specula sulla tecnologia marziana. Il Pentagono rassicura che nessuna armata può resistere all’esercito americano, che viene invece sbaragliato da tre tripodi marziani. Interviene un (falso) sottosegretario del Ministero degli interni (Welles chiese all’attore di imitare la voce del presidente F. D. Roosevelt). Si finge un collegamento con una batteria d’artiglieria. I marziani spargono un gas nero velenoso e gli artiglieri muoiono soffocati da accessi di tosse. Ormai cadono decine di cilindri sul territorio americano. Un reporter si collega dal tetto della sede della CBS a Manhattan e descrive i tripodi che guadano l’Hudson spargendo il tossico fumo nero. Descrive i newyorkesi che muoiono come mosche o si gettano nell’East River in cerca di un’impossibile salvezza. Lui stesso muore. Resta soltanto la voce disperata di un radioamatore: “”2X2L calling CQ. Non c’è nessuno in onda? Non c’è nessuno in onda? Non c’è … nessuno?”.

Soltanto a questo punto – ma sono passati circa 40 minuti – si ricorda che la trasmissione è una fiction.

La trasmissione generò un diluvio di polemiche. Molti non avevano seguito la trasmissione dall’inizio. Il panico dilagò. Ci fu chi chiamò la polizia o la CBS testimoniando di aver visti i cilindri atterrare, visto e sentito i bagliori delle esplosioni, respirato l’acre gas velenoso. I giornali (che non volevano perdere l’occasione di denigrare un concorrente pericoloso come la radio) attaccarono Welles e la CBS: gli articoli pubblicati furono più di 12.500. Lo stesso Hitler commentò l’episodio come “una prova della decadenza e della condizione corrotta della democrazia.” Secondo alcuni, il precedente fece accogliere con scetticismo l’annuncio dell’attacco giapponese a Pearl Harbor 3 anni più tardi.

La prima pagina del NYT, 31.10.1938

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Permettetemi un po’ di scetticismo e un po’ d’ironia. La trasmissione (The Mercury Theatre on the Air) andava in onda tutte le settimane dall’11 luglio di quell’anno e proponeva ogni volta un adattamento (un radiodramma) da un famoso testo letterario. Quella del 30 ottobre era la 14ma puntata. Ben più importante: era la puntata di Halloween.

Non era nemmeno la prima volta che si usava il “trucco” del finto notiziario: nel 1874 il New York Herald aveva pubblicato la falsa notizia di una fuga di animali feroci dallo zoo del Central Park (con effetti analoghi sulla credulità popolare). Nel 1926, la BBC aveva trasmesso un finto reportage dal vivo di Roland Knox su disordini di piazza a Londra. Anche il commediografo Archibald MacLeish aveva messo in scena due lavori (The Fall of the City e Air Raid) basati sullo stesso “trucco”. Nel primo lo stesso Orson Welles aveva interpretato il ruolo di un reporter radiofonico.

Sia come sia, la trasmissione consacrò la fama del 23enne Orson Welles.

Ho parlato abbastanza. Mi sembra arrivato il momento di ascoltare la trasmissione originale:

The War of the Worlds

Satrapo

Secondo il Vocabolario Treccani:

  1. a. Governatore di una provincia dell’antico impero persiano, con ampî poteri politici, amministrativi e militari.
    b. Per estensione, monarca di un paese orientale: Anzi nuocer parea molto più forte A re, a signori, a principi, a satràpi (Ariosto); Mariterò le mie dolci sorelle Ai sàtrapi dell’Asia spaziosa (D’Annunzio).
  2. (figurato) Persona, investita di un certo potere, che ostenta e fa pesare la sua autorità, che esercita il suo ufficio con grande sussiego, dandosi un’importanza sproporzionata alla carica: certi sàtrapi dell’istruzione pubblica (Carducci); anche, persona che vive tra gli agi e le ricchezze: fare il satrapo; condurre una vita da satrapo. ◆ Il femminile satrapéssa indica, più che la moglie di un satrapo, una donna troppo autoritaria.

Alessandro Magno contro i persiani

Parola con una storia lunghissima. All’italiano arriva dal latino satrăpes (o satrăpa o satraps) –ăpis, che a sua volta viene dal greco σατράπης, che a sua volta viene dall’antico persiano xšaθrapāvā o *khshathra-pa-.

All’estendersi dell’impero persiano, l’amministrazione di aree vaste e popolose divenne un problema e, allo scopo di suddividere amministrativamente i territori conquistati, Ciro il Grande (558-529 BCE) pensò bene di istituire questa magistratura, preponendovi membri della famiglia reale o nobili di rango elevato. I poteri e il grado di autonomia dei satrapi erano molto vasti, spaziando dall’amministrazione della giustizia, alla riscossione dei tributi, al reclutamento per l’esercito del “Gran Re”. Il loro operato era controllato annualmente da funzionari reali itineranti, chiamati “gli occhi” e “le orecchie” del Gran Re. Forniti di estesi poteri amministrativi, militari e giudiziari all’interno della propria provincia, di fatto i satrapi erano principi vassalli. Nelle regioni periferiche, praticavano una forte autonomia dal potere centrale, giungendo anche alla rivolta (come quella che intorno al 360 BCE dilagò dall’Asia Minore all’Egitto). Con Alessandro Magno i satrapi conservarono i poteri civili, ma persero quelli militari (adattato da Wikipedia).

La parola persiana, xšaθrapāvā, è una parola composta da *khshathra- (regno: dalla stessa radice deriva il moderno šāh, quello dello Scià di Persia che fu destituito dalla rivoluzione di Khomeini) e un derivato di *pāti (che vale “colui che protegge”): dunque il satrapo è il protettore del regno. In sanscrito kṣatra significa “tetto, ombrello, dominio, potenza, governo” (dalla radice kṣī “governare”). Gli Kshatriya o Kashtriya (“guerrieri”) sono uno dei 4 ordini (varna), quello dell’élite militare, del sistema sociale vedico-indù. Le altre classi sono quelle dei brahmana (sacerdoti e uomini di legge), dei vaishya (mercanti e imprenditori) e dei sudra (contadini e operai). Sulla comune tripartizione funzionale di società, ideologia e religione degli antichi popoli indoeuropei – funzione sacrale e giuridica, funzione guerriera e funzione produttiva – Georges Dumézil ha scritto opere celebri (e discusse, ma comunque a mio parere assolutamente memorabili).

Dollaro

Che cosa hanno in comune la moneta statunitense (e non solo), il più famoso formaggio svizzero e il nostro sfortunato vicino del paleolitico?

Hanno in comune la parola tedesca Tal, “valle”, che a sua volta deriva dalla radice proto-indoeuropea *dhel-, “avvallamento, depressione” (hanno la stessa origine e lo stesso significato l’inglese dale e il russo dol).

Emmentaler

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Il formaggio Emmental (più propriamente Emmentaler) si chiama così perché originario (la sua è una DOP, cioè una denominazione d’origine protetta) della Emmental, cioè della valle del fiume Emme, nel cantone di Berna.

Cranio di Homo Neanderthalensis

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L’uomo di Neandertal (o Neanderthal, Homo Neanderthalensis, ma è una piccola inesattezza fossilizzatasi nella terminologia scientifica) , invece, deve il suo nome alla circostanza che i primi resti fossili furono scoperti da Johann Fuhlrott nell’agosto 1856 in una grotta di Feldhofer nella valle di Neander in Germania. Questa, a sua volta, prende il nome dalla traduzione in greco antico del cognome dell’organista e pastore Joachim Neumann (Neu Mann = Uomo Nuovo), cui i suoi concittadini di Düsseldorf avevano intitolato la piccola valle.

Dollaro

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E il dollaro? Tutto comincia abbastanza prevedibilmente dalla deformazione del tedesco thaler, parola forse portata negli Stati Uniti dall’immigrazione dalla Germania e dall’Europa del nord. In particolare, si chiamava tallero, in epoca relativamente moderna (1857-1873), una moneta d’argento da 3 marchi. In precedenza, era la denominazione del Guldengroschen, moneta in argento con valore pari al fiorino d’oro, coniata, a partire dal 1518, con l’argento proveniente da una ricca miniera della Valle di San Gioacchino nel nord-ovest della Boemia. Joachimstaler significa dunque soltanto “la cosa della valle di S. Gioacchino”, come il formaggio significa “la cosa della valle dell’Emme.” Prosaico, come si conviene al danaro.

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Chi resterà sepolto da questa risata?

Un articolo di Carlo Clericetti pubblicato da Eguaglianza e libertà. Quasi del tutto condivisibile, se non fosse che la risata sta seppellendo anche noi.

La ristata che ci seppellirà

eguaglianzaeliberta.it

Una risata lo seppellirà

In una conferenza stampa ufficiale una giornalista chiede se Berlusconi è stato convincente, Merkel e Sarkozy si scambiano uno sguardo che scatena l’ilarità generale. La mancanza di fiducia del mondo verso l’attuale premier è tale che nessuna manovra potrà metterci al riparo dalla crisi
Carlo ClericettiIl video della conferenza stampa Markel-Sarkozy (vedi qui) spiega quale sia la considerazione dei leader internazionali per Silvio Berlusconi nel modo più radicale e dirompente: con una risata generale. “Una risata vi seppellirà” era uno degli slogan del ’68: molti lo ricorderanno scritto a lettere cubitali sulla facciata di una facoltà della Sapienza. E davvero bisognerebbe che si avverasse qui ed oggi, togliendo dalle spalle degli italiani un piccolo uomo che pesa però enormemente sulle nostre possibilità di combattere la crisi devastante che stiamo attraversando.

 “Il premier italiano vi ha rassicurato sui provvedimenti che prenderà il suo governo?”, chiede una giornalista. E lo sguardo che si scambiano Sarkozy e Merkel provoca l’esplosione dell’ilarità generale.

 Spinti dagli altri leader europei, dalla Bce, dal Fondo monetario e alla fine forse anche dal Vaticano e da San Marino potremo anche prendere provvedimenti durissimi, da migliaia di miliardi, che faranno peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei cittadini e forse comprometteranno il futuro del paese. Ma non servirà a nulla, perché per i mercati la caratteristica più importante è la fiducia, e la qualità della fiducia in Berlusconi è stata definitivamente espressa dalla diarchia che governa l’Europa: con una risata. E se due politici del massimo livello, in una occasione ufficiale e in una situazione da essi stessi definita di elevata rischiosità, non sono riusciti a trattenersi dal mostrare quello che le più elementari consuetudini della diplomazia tra Stati impongono che venga dissimulato, vuol dire che non siamo più neanche alla frutta: siamo oltre l’impensabile. In altri termini: è considerata tanto evidente a tutto il mondo la drammatica inadeguatezza di Berlusconi che ormai non serve più neanche lo sforzo di fingere.

 Questa è la situazione. Le conclusioni ognuno le può trarre da solo.

(23/10/2011)
articolo riproducibile citando la fonte

China Miéville – Perdido Street Station

Miéville, China (2000). Perdido Street Station. New York: Del Rey. 2003.

Perdido Street Station

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Devo ringraziare pubblicamente Il barbarico re, assiduo frequentatore di queste pagine, per avermi fatto conoscere questo autore (ho letto anche, e recensirò tra poco, Embassytown, l’ultimo suo romanzo, un capolavoro).

China Miéville è inglese, è nato nel 1972 e – per quanto incredibile – il suo non è un nom de plume. Il che la dice lunga sui suoi genitori. Laureato a Cambridge (BA in antropologia sociale) e addottorato alla London School of Economics (MA e PhD in relazioni internazionali), Miéville è impegnato in politica con la formazione marxista del Socialist Workers Party (si è anche candidato alle elezioni nel 2001, senza molto successo: 459 voti, l’1,2% degli elettori del suo collegio londinese).

Questi sarebbero soltanto pettegolezzi se non aiutassero a capire meglio i romanzi di Miéville: China è un creatore di mondi e in questo il materialismo storico è molto utile, perché orienta a dare uno spessore, una profondità alle relazioni sociali che fanno da contrappeso importante allo sviluppo della vicenda (che pure, in un romanzo “di genere”, è essenziale).

In questo monumentale romanzo siamo in una megalopoli (New Crobuzon) sul pianeta Bas-Lag. In questo “altrove” la tecnologia è vagamente post-vittoriana (e qui l’essere marxisti aiuta molto) e ricorda vagamente il filone steampunk cui appartengono The Difference Engine di William Gibson e Bruce Sterling e The Diamond Age di Neal Stephenson. Soltanto che questo mondo è popolato, oltre che da umani, da una serie di altre specie aliene interessanti e di esseri pluridimensionali (tra i quali un memorabile ragnaccio). Ma non vi voglio confondere le idee, né rovinarvi la lettura.

Il ‘protagonista del romanzo è uno scienziato reietto e questo consente a Miéville alcune considerazioni interessanti sull’accademia e sulla natura della ricerca (il riferimento è alle posizioni sul Kindle):

[…] how much “analysis” was just description—often bad description—hiding behind obfuscatory rubbish. [488]

“See, if you think that matter and therefore the unified force under investigation are essentially static, then falling, flying, rolling, changing your mind, casting a spell, growing older, moving, are basically deviations from an essential state. Otherwise, you think that motion is part of the fabric of ontology, and the question’s how best to theorize that. You can tell where my sympathies lie. Staticists would say I’m misrepresenting them, but fuck it. [2884]

The process of explaining his theoretical approach was consolidating his ideas, making him formulate his approach with a tentative rigour. [2900]

After only two weeks of research, something extraordinary happened in Isaac’s mind. The reconceptualization came to him so simply that he did not at first realize the scale of his insight. It seemed a thoughtful moment like many others, in the course of a whole internal scientific dialogue. A sense of genius did not descend on Isaac Dan der Grimnebulin in a cold shock of brilliant light. Instead, as he gnawed the top of a pencil one day, there was a moment of vaguely verbalized thought along the lines of or wait a minute maybe you could do it like this … [3669]

La complessità della società di New Crobuzon resta sullo sfondo di una vicenda appassionante e con forti tinte horror, ma non per questo è uno degli aspetti meno rilevanti del libro. La fantascienza, al suo meglio, ci ha sempre aiutato a pensare alla contingenza del reale e alla pluralità del possibile, e questo è vero anche per Miéville. Come è anche vero (la lezione dello straniamento brechtiano) che vedere vicende umane/troppo umane incarnate in protagonisti e società aliene ci aiuta a coglierne l’assurdità e l’intollerabile ingiustizia.

Non posso dire molto di più senza rovinarvi il piacere della scoperta. Fatevi coraggio davanti alle sue molte pagine, e leggetelo.

* * *

Oltre a quelle che ho già introdotto nel corpo della recensione, ho qualche altra piccola perla da proporvi (faccio sempre riferimento alla posizione sul Kindle):

Vermishank was not fat, but he was coated from his jowls down in a slight excess layer, a swaddling of dead flesh like a corpse’s. [3272]

“Davinia?” he answered. His voice was a masterpiece of insinuation. In one word he told his secretary that he was surprised to have her interrupt him against his instructions, but that his trust in her was great, and he was quite sure she had an excellent reason for disobeying, which she had better tell him immediately. [4555]

But for the most part, as long as payments were made and violence did not spill out of the rooms in which it had been paid for, the militia kept out. [5681]

[…] as their skin became parchment and their blood ink. [6615]

It is a work of such beauty that my soul wept. [6763]

My sustenance is information. My interventions are hidden. I increase as I learn. I compute, so I am. [7748]

[…] there was no moral accounting that lessened the horror of what she was doing. [9884]

” […] Whichever, the Council don’t care about killing off humans or any others, if it’s . . . useful. It’s got no empathy, no morals,” Isaac continued, pushing hard at a resistant piece of metal. “It’s just a . . . a calculating intelligence. Cost and benefit. It’s trying to . . . maximize itself. It’ll do whatever it has to—it’ll lie to us, it’ll kill—to increase its own power.” [10474]

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The Ghost (L’uomo nell’ombra)

L’uomo nell’ombra (The Ghost Writer), 2010, di Roman Polanski, con Ewan McGregor, Pierce Brosnan e Olivia Williams.

The Ghost Writer

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Un bel film tratto da un bel libro: e forse potrebbe bastare.

Soltanto che ho recensito il romanzo su questo blog (qui), e sono troppo vanitoso per non scriverlo (se uno non fosse un po’ esibizionista non scriverebbe un blog). Dello stesso autore, Robert Harris, ho anche recensito pochi giorni fa il romanzo più recente (The Fear Index).

Del film – molto fedele al romanzo, come è abbastanza prevedibile considerato che l’autore ha collaborato attivamente con Polanski alla sceneggiatura – mi hanno colpito soprattutto 3 cose: la circostanza che si tratta forse del più hitchcockiano dei film di Polanski; il setting sull’invernale isola semideserta (Martha’s Vineyard nel libro); il finale, originale rispetto a quello del romanzo, che era letteralmente impossibile da rendere cinematograficamente.

Sulla prima cosa non c’è niente da aggiungere: è probabilmente un’impressione assolutamente soggettiva e comunque non può essere comunicata se non guardando insieme il film. Forse l’unica cosa che posso trasmettere è un po’ di umor nero [dimenticavo: The Ghost non ha mai un nome. Anche questo è un piccolo colpo di genio]:

Amelia Bly: Are you ill?
The Ghost: No, I’m aging. This place is Shangri-La in reverse.

The Ghost: Did you ever want to be a proper politician in your own right?
Ruth Lang: Of course, didn’t you want to be a proper writer?

Ruth Lang: I feel like the wife of Napoleon on St. Helena.

Paul Emmett: [reacting to an old picture of Lang, taken in his college days with a marijuana joint] Let’s hope he didn’t inhale.

Island Ferry Attendant: Single or return?
The Ghost: Return. I hope.

Adam Lang: Who are you?
The Ghost: I’m your ghost.
Adam Lang: Right…
Ruth Lang: Don’t worry, he isn’t as it were, such a jerk.

The Ghost: I’d never guess you smoked.
Amelia Bly: I only allow myself one. In times of great stress or contentment.
The Ghost: Which is this?
Amelia Bly: Very funny.

The Ghost: Forty thousand years of human language, and there’s no word to describe our relationship. It was doomed.

The Ghost: It’s my first time in a private jet.
Amelia Bly: Let’s hope it’s not your last.

Paul Emmett: The gate will open automatically. Be sure to make a right at the bottom of the drive. If you turn left, the road will take you deeper into the woods and you’ll never be seen again.

The Ghost: I really don’t think this is a good idea.
Richard Rycart: You have no choice.
The Ghost: Emmett must have told Lang I’ve been to see him.
Richard Rycart: So what’s he going to do about it? Dump you in the ocean?
The Ghost: Well it happened before.
Richard Rycart: Which means it can’t happen again. He can’t drown two ghost writers, for God’s sake. You’re not kittens.

Adam Lang: Spare me the bleeding-heart bullshit! Do you know what I’d do if I was in power again? I’d have two queues at airports: one for flights where we’d done no background checks, infringed on no one’s civil bloody liberties, used no intelligence gained by torture. And on the other flight we’d do everything we possibly could to make it perfectly safe. And then we’d see which plane the Rycarts of this world would put their bloody kids on! And you can put that in the book!

Sulla seconda c’è da dire di più: Polanski non poteva girare in New England, perché se mettesse piede sul suolo statunitense verrebbe arrestato per la condanna ricevuta per lo stupro di una minorenne (se non conoscete la storia e vi interessa, la trovate su Wikipedia), e quindi il film è girato in esterni prevalentemente in Danimarca per quanto riguarda le scene dove compare la spiaggia (a Rømø) e nella Germania del nord (l’isola di Sylt e Peenemünde). [Per la verità, alcune scene sono girate in Massachusetts, a Bourne,  Wellfleet e Provincetown, suppongo da una troupe senza la presenza del regista]. La cosa interessante è che la casa modernissima sulle dune battute dal vento e dalla pioggia è stata costruita in studio, e quello che si vede dalle finestre è il frutto di effetti speciali: tanto di cappello, anche da questo si vede la classe di un regista. Polanski ne spiega le motivazioni (strettamente artistiche) nel video qui sotto, che vi invito a vedere perché c’è più di una lezione di cinema.

Il finale riesce a trasmettere visivamente la medesima conclusione del libro in un modo molto diverso ma altrettanto, anzi direi più efficace. Anche qui il video spiega, ma – vi avverto – vi rovinerà la visione del film  (è un thriller!)

Arlecchino

Arlecchino compare nella Commedia dell’arte già nella seconda metà del XVI secolo e assume le caratteristiche attuali (il servo ignorante e astuto, sempre affamato, con il caratteristico costume a losanghe colorate) nel XVIII.

Arlecchino

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Per noi è ormai una maschera carnevalesca buffa e rassicurante, ma Arlecchino nasconde un’origine diabolica come testimonia – oltre al nome – il ghigno nero.

Il nome, dicevamo: Arlecchino (Arlequin in francese e Harlequin in inglese) è la deformazione del tedesco Hölle König (“re dell’inferno”), poi Helleking, poi Harlequin. Nelle credenze pagane dell’antica Europa (poi assimilate alla stregoneria dall’egemonia cristiana: leggetevi la bella Storia notturna di Carlo Ginzburg), nel periodo invernale, quando predominavano le tenebre, le divinità infernali guidavano un corteo di morti, la Caccia selvaggia o Armata furiosa. Secondo Orderico Vitale, che ne parla nella sua Historia Ecclesiastica, questo corteo era noto anche come familia Herlechini, guidato da un demone gigante (Arlecchino, appunto).

Anche Dante nell’Inferno (XXI, 118-123) annovera Arlecchino tra i diavoli:

Tra’ ti avante, Alichino, e Calcabrina,

cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;

e Barbariccia guidi la decina

Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,

Cirïatto sannuto e Graffiacane

e Farfarello e Rubicante pazzo.

In tedesco il re dell’inferno (Hölle König) si trasforma in re degli elfi (Erlkönig) e, come tale, ci regala questo bellissimo (e agghiacciante)Lied di Schubert (su testo di Goethe).

Ve lo propongo in 3 versioni, ma prima il testo, che vi farà capire meglio la bellezza dell’invenzione di Schubert.

Wer reitet so spät durch Nacht und Wind?

Es ist der Vater mit seinem Kind;

Er hat den Knaben wohl in dem Arm,

Er faßt ihn sicher, er hält ihn warm.

Mein Sohn, was birgst du so bang dein Gesicht? –

Siehst Vater, du den Erlkönig nicht?

Den Erlenkönig mit Kron und Schweif? –

Mein Sohn, es ist ein Nebelstreif. –

»Du liebes Kind, komm, geh mit mir!

Gar schöne Spiele spiel ich mit dir;

Manch bunte Blumen sind an dem Strand,

Meine Mutter hat manch gülden Gewand.«

Mein Vater, mein Vater, und hörest du nicht,

Was Erlenkönig mir leise verspricht? –

Sei ruhig, bleibe ruhig, mein Kind;

In dürren Blättern säuselt der Wind. –

»Willst, feiner Knabe, du mit mir gehn?

Meine Töchter sollen dich warten schön;

Meine Töchter führen den nächtlichen Reihn

Und wiegen und tanzen und singen dich ein.«

Mein Vater, mein Vater, und siehst du nicht dort

Erlkönigs Töchter am düstern Ort? –

Mein Sohn, mein Sohn, ich seh es genau:

Es scheinen die alten Weiden so grau. –

»Ich liebe dich, mich reizt deine schöne Gestalt;

Und bist du nicht willig, so brauch ich Gewalt.«

Mein Vater, mein Vater, jetzt faßt er mich an!

Erlkönig hat mir ein Leids getan! –

Dem Vater grauset’s, er reitet geschwind,

Er hält in den Armen das ächzende Kind,

Erreicht den Hof mit Mühe und Not;

In seinen Armen das Kind war tot.

Traduzione

Chi cavalca così tardi per la notte e il vento?

È il padre con il suo figlioletto;

se l’è stretto forte in braccio,

lo regge sicuro, lo tiene al caldo.

“Figlio, perché hai paura e il volto ti celi?”

“Non vedi, padre, il re degli Elfi?

Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?”

“Figlio, è una lingua di nebbia, nient’altro.”

“Caro bambino, su, vieni con me!

Vedrai i bei giochi che farò con te;

tanti fiori ha la riva, di vari colori,

mia madre ha tante vesti d’oro”.

“Padre mio, padre mio, la promessa non senti,

che mi sussurra il re degli Elfi?”

“Stai buono, stai buono, è il vento, bambino mio,

tra le foglie secche, con il suo fruscio.”

“Bel fanciullo, vuoi venire con me?

Le mie figlie avranno cura di te.

Le mie figlie di notte guidano la danza

ti cullano, ballano, ti cantano la ninna-nanna”.

“Padre mio, padre mio, in quel luogo tetro non vedi

laggiù le figlie del re degli Elfi?”

“Figlio mio, figlio mio, ogni cosa distinguo;

i vecchi salci hanno un chiarore grigio.”

“Ti amo, mi attrae la tua bella persona,

e se tu non vuoi, ricorro alla forza”.

“Padre mio, padre mio, mi afferra in questo istante!

Il re degli Elfi mi ha fatto del male!”

Preso da orrore il padre veloce cavalca,

il bimbo che geme, stringe fra le sue braccia,

raggiunge il palazzo con stento e con sforzo,

nelle sue braccia il bambino era morto.

Dietrich Fischer-Dieskau, l’interpretazione di riferimento (con Gerald Moore al pianoforte):

Una versione orchestrata (da Hector Berlioz) con Anne Sofie von Otter (brava e bella) e Claudio Abbado che dirige la Chamber Orchestra of Europe:

Una spettacolare interpretazione della trascrizione di Liszt per pianoforte solo (vi assicuro che è anche tremendamente difficile) eseguita dal vivo da Sviatoslav Richter l’8 dicembre 1949 a Mosca:

Roberto Bolaño – 2666

Bolaño, Roberto (2004). 2666. Milano: Adelphi. 2009.

Sono piuttosto restio a leggere i “casi letterari”: un po’ per snobismo (lo ammetto), un po’ per la considerazione (che suppongo razionale) che sulle opere recenti non hanno ancora avuto modo di operare quei processi di selezione naturale che producono i “classici”. La vita è breve, il tempo per leggere poco, non ho certo letto tutti i libri (anche se la carne è triste almeno come quella di Mallarmé): meglio evitare di buttare il proprio tempo. Ma anche allo snobismo è opportuno mettere un limite, e allora mi sono dato una regola empirica: resisto a una o due sollecitazioni fatte da amici e conoscenti, ma se più di una persona che stimo mi consiglia una lettura mi lascio convincere.

Così è stato per 2666 di Roberto Bolaño: più d’un amico mi ha detto che era un capolavoro. Lo è?

Non lo so.  Sinceramente, penso di no. Però è un libro interessante, anche se discontinuo, che contiene alcune pagine memorabili. Soprattutto, un libro inconcepibile se non nella sua sterminata durata, come La Grande di Schubert: ogni volta che sembra avviarsi alla conclusione, si apre a una nuova modulazione. Secondo alcuni (e lo stesso editore italiano nelle note di copertina), Bolaño avrebbe desiderato che i 5 romanzi di cui 2666 si compone fossero pubblicati separatamente e potessero dunque essere letti in qualunque ordine. Un gioco diverso, ma in un certo senso simile e complementare a quello proposto da Cortázar nel suo Il gioco del mondo. Come se ci fosse una via latino-americana al romanzo sperimentale. Ma penso, dopo aver letto 2666 , che l’ordine “canonico” delle 5 parti (La parte dei critici, La parte di Amalfitano, La parte di Fate, La parte dei delitti e La parte di Arcimboldi) sia quello strutturalmente giusto, pensato fin dall’inizio dall’autore, e che la spiegazione più prosaica sia anche quella giusta: Bolaño aveva pensato a una pubblicazione in 5 volumi, sentendosi avvicinare la fine, come un modo di meglio tutelare i suoi figli.

Il romanzo parla del male. Della serialità del male, della sua ripetitività. Una ripetitività che non si fa mai storia, o meglio Storia. In qualche modo (se posso usare anch’io questa frase ormai abusata), anche della sua ineluttabilità, nell’essere il male un corollario inevitabile. Di cosa? dell’incompletezza umana? del Novecento? dello sviluppo economico? della globalizzazione? Ancora una volta: non lo so. Non sono convinto del pessimismo cosmico di Bolaño, scrittore apocalittico se mai ve ne furono. Ma trovo invece convincente il percorso che Bolaño ci propone nella sequenza delle 5 parti di cui il romanzo si compone. Il movimento (anche se è un movimento lentissimo, non è certo un “falso movimento“) parte dalla ricerca di un misterioso romanziere (Benno von Arcimboldi) da parte di un gruppo di accademici intenti soprattutto a trescare tra loro, ma nel tempo libero apparentemente convinti che Benno sia una personificazione del male assoluto. Soltanto nel romanzo finale si scopre invece che Benno è il testimone “innocente” dell’intero Novecento: innocente, cioè, nel senso del Borís Godunóv di Puškin-Musorgskij, che al calare del sipario sulla tragedia intona: “Sgorgate, sgorgate, lacrime amare […] Presto arriverà il nemico e scenderà l’oscurità, tenebre profonde e impenetrabili.” E infatti Hans Reiter, dopo avere attraversato tutta la notte hitleriana e le macerie post-belliche, è costretto a cambiare nome per potersene distanziare abbastanza da raccontarle. Al tempo stesso, il romanzo finale è una specie di contraltare diacronico (ma non storico, perché mi sembra di capire che per Bolaño la storia non ha un senso, e forse nemmeno uno svolgimento) della tremenda sincronicità del quarto, scandito dalla ripetitiva elencazione delle donne ammazzate e violentate di Santa Teresa.

Il disegno di Bolaño non appare immediatamente chiaro. Un problema non soltanto mio, se lo stesso autore ha definito 2666 “un groviglio delirante che sicuramente non verrà capito da nessuno”.

Mi ha molto aiutato la lettura della recensione di Marcela Valdes (qui l’originale in inglese, e qui la traduzione di Manuela Vittorelli). Più che aiutato, è stata una lettura illuminante che ha dato ordine a queste mie riflessioni soltanto dopo che avevo finito 2666. Perché forse la sua bellezza – e in questo 2666 si avvicina a essere un capolavoro – è la capacità di continuare a lavorarti dentro come l’assestamento delle macerie dopo la fine della guerra (come accade ad Hans-Benno nella quinta parte del romanzo), e la grandezza di Bolaño sta nel non concedersi nella pagina, facendoti star male a pagina chiusa. Per questo mi sembra necessario proporvi il mio stesso cammino di comprensione, con un mash-up delle pagine di Marcela Valdes.

Bolaño una volta disse che nelle Americhe tutta la narrativa moderna deriva da due fonti: Le avventure di Huckleberry Finn e Moby Dick. […] 2666 dà la caccia alla balena bianca. Per Bolaño, il romanzo di Melville è capace di addentrarsi nel “territorio del male”; e al pari della saga di Melville 2666 può essere straordinario o soporifero, a seconda del gusto del lettore per i libri a lenta combustione.

2666, come tutta l’opera di Bolaño, è un cimitero. […] I suoi romanzi precedenti commemoravano i morti degli anni Sessanta e Settanta. Le sue ambizioni per 2666 erano più grandi: scrivere un referto d’autopsia per i morti del passato, del presente e del futuro.

[2666 si ispira] a un fatto di cronaca agghiacciante: l’uccisione, a partire dal 1993, di più di 430 donne e ragazze nello Stato messicano di Chihuahua, precisamente a Ciudad Juárez. Spesso le vittime scompaiono mentre vanno a scuola o tornano a casa dal lavoro o quando escono per andare a ballare con le amiche. Giorni o mesi dopo rispuntano i loro corpi – gettati in una fossa, nel deserto o in una discarica cittadina. La maggioranza delle vittime è morta per strangolamento; alcune sono state accoltellate o carbonizzate o uccise con armi da fuoco. Un terzo mostra segni di stupro. Alcune recano segni di tortura. Le più anziane sono trentenni; le più giovani sono bambine delle elementari. […] Secondo Amnesty International, più della metà dei cosiddetti “femminicidi” non ha portato a una condanna.

Ambientando il suo romanzo a Santa Teresa, una città immaginaria nel Sonora, invece che nella vera Ciudad Juárez, Bolaño poté sfumare la linea di confine tra ciò che sapeva e ciò che inventava.

Già abbeveratoio degli americani durante il Proibizionismo, Juárez prosperò rapidamente negli anni Novanta, dopo l’entrata in vigore del NAFTA. Spuntarono centinaia di impianti di assemblaggio, che attirarono centinaia di migliaia di poveri provenienti da tutto il Messico e disposti ad accettare lavori pagati talvolta solo 50 centesimi l’ora. Le stesse caratteristiche che avevano reso Juárez appetibile agli occhi degli industriali del NAFTA – buone vie di comunicazione, vicinanza di un esteso mercato dei beni, abbondanza di manodopera non organizzata – la resero un crocevia ideale del narcotraffico. Nel 1996 per la città passavano 42 milioni di persone e 17 milioni di veicoli all’anno, rendendola uno dei più trafficati punti di transito della frontiera tra Stati Uniti e Messico e luogo ideale per gli sconfinamenti illegali. La città si trasformò in un crocevia di commerci lucrosi e illeciti; in quel momento cominciarono a spuntare i cadaveri di ragazze appartenenti a famiglie povere e operaie.

L’atteggiamento di Bolaño nei confronti degli omicidi nelle prime due parti di 2666 – “La parte dei critici” e “La parte di Amalfitano” – è schivo, ellittico. La violenza fulminea di Patricia Cornwell o di Stephen King non fa per lui. La prima fugace allusione ai delitti appare solo dopo quarantatré pagine, e solo due dei tre professori che si recano a Santa Teresa sentono parlare dei crimini. “La parte di Amalfitano” […] si avvicina di più alla popolazione locale, anche se continua a tenere a distanza gli omicidi. Se la prima parte è un ingegnoso romanzo sentimentale, la seconda è un dramma esistenziale. Un professore di filosofia cileno che ha lasciato l’Europa per l’Università di Santa Teresa sprofonda in una quieta disperazione. Teme di precipitare nella pazzia: la notte sente una voce che gli parla. Ha paura che la violenza della città possa raggiungere e ghermire sua figlia – proprio davanti alla loro casa continua ad apparire un’auto nera.

In queste due sezioni i lettori più attenti coglieranno gli indizi di quello che accadrà, come altrettante impronte digitali insanguinate, ma è solo nella terza parte, “La parte di Fate”, che la violenza di Santa Teresa balza in primo piano. In un bar, un ignaro cronista americano vede un uomo schiaffeggiare una donna in un angolo della sala: “Il primo schiaffo le fece girare violentemente la testa e il secondo schiaffo la buttò a terra”. Il reporter si trova in Messico per assistere a un altro genere di incontro – quello tra un pugile americano e il suo avversario messicano –, ma capisce presto che le vere botte a Santa Teresa arrivano fuori del ring. Alcuni dei più squallidi elementi della città lo prendono sotto la loro ala e gli mostrano quello che sembra essere il video di uno stupro su una donna. Incontra il principale sospettato dei delitti commessi in città e finisce per fuggire intimorito dalla polizia.

Questa fuga noir fa da preludio a un canto funebre. “La parte dei delitti” si apre nel gennaio 1993 con la descrizione del cadavere di una tredicenne e si chiude 108 corpi dopo durante il Natale del 1997. Ciascuno di questi ritrovamenti è descritto nei dettagli – con le sue 284 pagine questa sezione è la più lunga del libro – e macabra cronaca che ne consegue si intreccia con le storie di quattro detective, un giornalista, il principale sospettato e vari personaggi accessori. Nelle mani di Bolaño questo collage produce una fuga di sequenze straordinarie e di ripetizioni schiaccianti (“Il caso fu presto chiuso” diventa un tormentone ossessivo). Bolaño illumina queste lugubri storie con lampi di umorismo patibolare e occasionalmente con una sottotrama sentimentale. Complessivamente, tuttavia, a leggere “La parte dei delitti” si ha l’impressione di fissare l’abisso. Strangolamenti, colpi d’arma da fuoco, percosse, mutilazioni, pugnalate, stupri, ricatti e tradimenti sono descritti nei dettagli con una prosa impassibile.

Nella sezione finale di 2666, “La parte di Arcimboldi”, Bolaño offre una visione più sinistra del male. La sezione si apre alla fine della Prima guerra mondiale, con il ritorno a casa di un prussiano ferito. Sta cambiando tutto, gli dice uno sconosciuto: “La guerra era alla fine e sarebbe iniziata una nuova epoca. [Il prussiano] rispose, mentre mangiava, che non sarebbe mai cambiato nulla”. E in effetti tutta l’ultima sezione di 2666, che va dalla Prima guerra mondiale alla fine degli anni Novanta, sembra pensata per dimostrare la convinzione di Arcimboldi che la storia è solo una proliferazione di istanti, di attimi fugaci “che competono fra loro in mostruosità”. Quando Arcimboldi combatte per il Terzo Reich sul fronte orientale e intraprende la sua carriera di romanziere sulle rovine di Berlino, Bolaño ci intrattiene con una serie incessante di stupri e omicidi. Nella campagna tedesca un uomo uccide la moglie e la polizia fa finta di non vedere. Durante la guerra i cittadini in fuga verso la campagna vengono regolarmente derubati, stuprati e uccisi. La terra che circonda un castello romeno è piena di ossa umane sepolte. Le allusioni all’Olocausto abbondano.

In questo panorama di brutalità e impunità Santa Teresa sembra meno aberrante. Sembra solo uno dei tanti luoghi in cui un male pervasivo e sotterraneo è salito in superficie. Com’è ora a Santa Teresa, sembra dire il romanzo, com’è sempre stato, come sarà nei cimiteri del 2666. Il male è immenso ed eterno come il mare.

* * *

Dopo la recensione, alcune citazioni.

Piedi caldi e pieno il ventre, me ne infischio della gente [p. 196. È una citazione di Gongora: Luis de Góngora, Le solitudini e altre poesie, Milano: Rizzoli, 1996]

[…] una preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore a scapito dell’opera maggiore. Sceglieva La metamorfosi invece del Processo. Sceglieva Bartleby invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o del Circolo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire le vie dell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore. [p. 252]

Perché la mia casa le piaceva più della sua? Perché la mia aveva classe mentre la sua aveva solo stile, capisce la differenza? La casa di Kelly era bella, molto più comoda della mia, con più comfort, voglio dire, una casa luminosa, con un salone grande e piacevole, l’ideale per ricevere visite o dare feste, con un giardino moderno, con l’erba e il tagliaerba, una casa razionale, come si diceva in quegli anni. La mia, come può vedere, perché è questa, anche se naturalmente molto più trascurata di come è adesso, un palazzone che puzzava di mummie e di candele, più che una casa una gigantesca cappella, ma in cui erano presenti gli attributi della ricchezza e della continuità del Messico, ma di classe. E sa cosa vuol dire avere classe? Vuol dire essere, in ultima istanza, sovrano. Non dovere nulla a nessuno. Non dover dare spiegazioni di nulla a nessuno. [p. 643 – ne abbiamo già parlato qui]

Mi sembra che lei si sopravvaluti, disse Loya. Cazzo, certo che mi sopravvaluto, se non lo facessi non sarei dove sono, dissi. [p. 677]

Canetti e anche Borges, credo, due uomini così diversi, hanno detto che come il mare era simbolo e specchio degli inglesi, il bosco era la metafora in cui vivevano i tedeschi. Hans Reiter fece eccezione a questa regola fin dal momento della sua nascita. Non gli piaceva la terra né tanto meno il bosco. Non gli piaceva nemmeno il mare o quello che la maggior parte dei mortali chiama mare e che in realtà è solo la superficie del mare, le onde mosse dal vento che a poco a poco sono diventate la metafora della sconfitta e della follia. Quello che gli piaceva era il fondo del mare, quell’altra terra, piena di pianure che non erano pianure e di valli che non erano valli e di precipizi che non erano precipizi. [p. 691]

“Peccato che io sia troppo vecchia e abbia visto troppo cose per crederci”.
“Non si tratta di credere,” disse Ansky “si tratta di capire e poi di cambiare.” [p. 775]

Quelli che hanno fatto la rivoluzione, quelli che sarebbero caduti divorati dalla stessa rivoluzione, che non era la stessa ma un’altra, non il sogno ma l’incubo che si nasconde dietro le palpebre del sogno. [p. 788]

La lettura è piacere e gioia di essere vivo o tristezza di essere vivo e soprattutto è conoscenza e domande. La scrittura, invece, di solito è vuoto. [p. 849]

[…] una cifra, pensò quando rimase di nuovo solo, è sempre approssimativa, non esiste la cifra giusta, solo i nazisti credevano alle cifre giuste e i maestri di matematica, solo i settari, i pazzi delle piramidi, gli esattori delle imposte (che Dio li stermini), i numerologi che leggevano il destino per quattro soldi credevano alla cifra giusta. Gli scienziati, al contrario, sapevano che ogni cifra è sempre approssimativa. I grandi fisici, i grandi matematici, i grandi chimici e gli editori sapevano che uno vaga sempre nel buio. [p. 890]

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L’upupa di Montale

Eugenio Montale, coetaneo di mio nonno, avrebbe compiuto 115 anni ieri, 12 ottobre.

Con un giorno di ritardo lo celebro con una sua poesia.

Upupa, ilare uccello calunniato
dai poeti, che roti la tua cresta
sopra l’aereo stollo del pollaio
e come un finto gallo giri al vento;
nunzio primaverile, upupa, come
per te il tempo s’arresta,
non muore più il Febbraio,
come tutto di fuori si protende
al muover del tuo capo,
aligero folletto, e tu lo ignori

Upupa

wikipedia.org

L’ùpupa è calunniata dai poeti perché Ugo Foscolo, ne I sepolcri, ne fa erroneamente un lugubre uccello notturno:

e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l’úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l’immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture.

Un altro poeta calunnaitore è Ovidio che, nelle Metamorfosi (VI, 420-675), associa l’ùpupa a uno dei miti più sanguinosi, che riporto qui sotto nel riassunto che ne fa Wikipedia:

Atene, assediata da non meglio specificati barbari, è stata liberata con l’aiuto di Tereo; in segno di riconoscenza, Pandione gli concede in sposa Procne, in un matrimonio in cui però a officiare non sono Giunone o Imeneo, ma le Eumenidi. Tereo e la moglie tornano dunque in Tracia, dove nasce il loro figlio Iti.

Il matrimonio di Tereo celebrato dalle Eumenidi

wikipedia.org

Passano cinque anni felici, finché Procne prega Tereo di andare a Atene, a chiedere al vecchio Pandione di lasciare venire in Tracia Filomela, sua sorella, di cui sente grande mancanza. Tereo fa come chiede la moglie, ma appena vede Filomela ad Atene viene preso da una sconfinata passione per lei. Pandione non si accorge di nulla e permette a Filomela di lasciare Atene, sotto la promessa di un rapido ritorno, sebbene abbia dei presagi.
I presagi sono ben motivati: appena sbarcati, Tereo porta in una stalla Filomela e la violenta.

Tereo violenta Filomela

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In preda alla disperazione, Filomela lamenta la sua condizione di anima ferita e colpevole contro la propria volontà, assicurando che rivelerà quanto è avvenuto agli uomini, ai monti, agli dèi. Tereo, preso da rabbia e paura, le mozza dunque la lingua con spada e tenaglia. Dopodiché si reca nuovamente da Procne, con la falsa notizia della morte di Filomela. Passa un anno e Filomela finalmente riesce ad ingegnarsi di scrivere su una tela la denuncia di quanto ha subito e a farla portare da una serva a Procne.
Procne, scoperto il tutto, sfrutta la notte seguente, quella in cui la Tracia celebra i baccanali, per liberare la sorella. Quindi, in cerca di vendetta, uccide Iti, cucinandolo per Tereo. Dopo che questi ha mangiato, ignaro di tutto, la carne di suo figlio, Filomela salta fuori sozza di sangue e gli tira in faccia la testa recisa di Iti. Tereo si getta dunque dietro di loro, ma tutti e tre si trovano mutati in uccelli: Tereo in upupa, Filomela in usignolo, Procne in rondine.

corpora Cecropidum pennis pendere putares:
pendebant pennis. quarum petit altera silvas,
altera tecta subit, neque adhuc de pectore caedis
excessere notae, signataque sanguine pluma est.
ille dolore suo poenaeque cupidine velox
vertitur in volucrem, cui stant in vertice cristae.
prominet inmodicum pro longa cuspide rostrum;
nomen epops volucri, facies armata videtur. [Ovidio, Metamorfosi, VI, 667-674]

Questa l’ampia e libera traduzione di Giovanni Andrea dell’Anguillara (1563), che trovate su Wikisource:

Il dolor co’l desio de la vendetta
Rendon l’offeso Re si crudo, e insano,
Ch’anch’ei fuor del balcon si lancia, e getta
Per punir quelle due co’l ferro in mano,
E mentre, che per l’arla anch’ei s’affretta,
E si sostien per non cader su’l piano,
Come à le Greche insidiose avenne,
Vede le membra sue vestir di penne.

Lascia il ferro crudel l’ irato artiglio,
Et à la bocca un lungo rostro innesta,
L’armano molte penne intorno il ciglio,
Et hà l’ insegne regie anchora in testa,
E dimostra il dolor, ch’egli hà del figlio
Con la sdegnata vista atra, e molesta.
Upupa alza la cresta, e bieco mira,
E mostra il cor non vendicato, e l’ ira.

Nel più propinquo bosco entra, e s’asconde
La Greca, che restò senza favella,
La lingua hoggi hà spuntata, e corrisponde
In parte à la sua sorte iniqua, e fella,
Piangendo và il suo duol di fronde in fronde
Con una melodia soave, e bella.
Tien del suo incesto anchor vergogna, e cura,
E non osa albergar dentro à le mura.

Progne, che diede à la vendetta effetto,
E fu d’ogni altro error monda, e innocente,
Il nido tornò à far nel regio tetto,
E non hebbe vergogna de la gente.
Del sangue del figliuol anchora hà il petto
Macchiato, e se talhor le torna à mente,
Tanta pietà per lui la move, e ancide,
Che si querela un pezzo, e al fine stride.

Secondo Robert Graves (The Greek Myths), che racconta una variante del mito eceletticamente composta da diverse fonti, spiega in questo modo la metamorfosi: la rondine non ha lingua e vola in tondo, come Procne camminava in tondo, prigioniera; l’usignolo canta tristemente «Ἵτυ, Ἴτυ!», che vuol dire: «Iti, Iti!», lamentando la morte che ha involontariamente procurato al bambino; l’upupa grida: «Ποῦ, pou?», che significa «Dove, dove?», mentre dà la caccia alla rondine.

Tra i calunniatori dell’ùpupa metterei anche l’Antico Testamento, che lo annovera tra gli uccelli impuri, di cui è vietato nutrirsi (Deuteronomio 14, 18; Levitico 11, 19) e il monaco normanno Filippo di Thaon che nel suo Bestiario ne fa (in modo a me peraltro incomprensibile) un simbolo del peccato:

E il sangue indica il peccato da cui gli uomini sono legati:
quando l’uomo dorme nel peccato, il peccato alla morte lo trae;
allora il diavolo vuole coglierlo di sorpresa e strangolarlo.
Per questo dobbiamo lodare ed adorare Dio,
perché tale insegnamento mostra agli uomini:
ci propone un grande esempio
con il comportamento dell’upupa.

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