Stuart Isacoff – A Natural History of the Piano

Isacoff, Stuart (2011). A Natural History of the Piano: The Instrument, the Music, the Musicians – from Mozart to Modern Jazz and Everything in Between. New York (NY): Alfred A. Knopf. 2011. ISBN: 9780307701428. Pagine 385. 9,96€.
[Storia naturale del pianoforte. Lo strumento, la musica, i musicisti da Mozart al modern jazz, e oltre. Trad. it. Marco Bertoli. Torino: EDT. 2012. ISBN: 9788860409195. Pagine 338. 20,90€]

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Riprendo a pubblicare sul blog recensioni dei libri che ho letto. Saranno molto più brevi che in passato, per alleviarne l’onere per voi e per me. Scrivetemi nei commenti se volete saperne di più.

Sarà un lavorone, perché ho un sacco di arretrati.

Veniamo al libro di oggi. L’ho acquistato e iniziato a leggere quasi dieci anni fa, nell’aprile del 2013. Sotanto di recente l’ho ripreso in mano e finito.

L’idea è buona, il libro è documentato, ricco di informazioni interessanti (soprattutto nella prima parte). Eppure mi ha deluso. Troppo idiosincratico, troppo sbilanciato sul mondo statunitense. Forse anche troppa enfasi sul jazz, che pure a me piace molto. Nella musica ‘classica’ (eh sì, scare quotes), troppa mescolanza (e un po’ di confusione) tra autori e interpreti.

E poi ci sono le mie idiosincrasie. Troppo poco Sviatoslav Richter, liquidato in poche pagine. Va peggio a Emil Gilels, citato due volte e per due aneddoti, uno sullo stesso Richter e uno su Van Cliburn. Non va meglio a Maurizio Pollini, anche lui citato due volte, una come allievo di Arturo Benedetto Michelangeli e l’altra come dedicatario di …sofferte onde serene… di Luigi Nono.

Vi risparmio le mie citazioni e annotazioni: anche quelle, se volete, a richiesta.

«L’amore non esiste», la canzonetta più ruffiana del 2014

L’avete certamente sentita anche se, come me, non siete assidui ascoltatori della radio.

Si chiama L’amore non esiste e la cantano (avendola anche scritta, penso) Niccolò Fabi, Max Gazzè e Daniele Silvestri.

Perché dico che è ruffiana?  Leggi il seguito di questo post »

Obituary: Jack Bruce, 14 maggio 1943 – 25 ottobre 2014

Un musicista che ho molto amato e che ho avuto il privilegio di sentir suonare dal vivo.

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Credere per aspettare [Proverbi pessimisti 15]

«Aspettare per credere, ma, anche, credere per aspettare.»

Non è mio, è di Gianni Mura, ma merita di essere inserito nella serie.

A meno che, a rifletterci un po’, non sia pessimista l’originale (aspettare per credere) e particolarmente ottimista il suo capovolgimento (credere per aspettare, spes ultra spem).

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Per aspera ad aspera [Proverbi pessimisti 14] & Chavez Ravine

Una vita tutta in salita.

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I 12 mesi: Guccini, Schifanoia, Zavattini

In rigoroso ordine alfabetico nel titolo, ma in ordine cronologico nel post.

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5 gennaio: 3 compleanni musicali (Gazzelloni, Benedetti Michelangeli e Pollini)

I 12 giorni di natale non sono soltanto l’oggetto di una famosa Christmas carol o di un’iniziativa promozionale Apple. sono anche un periodo speciale del calendario, quello dei giorni intercalari che servono ad allineare l’anno solare (i 365 giorni dell’orbita della Terra intorno al Sole) con quello lunare (12 orbite della Luna intorno alla Terra, 354 giorni). Da un punto di vista esoterico sono giorni speciali (io ne ho accennato qui), in cui l’ordine usuale delle cose è sospeso:

  1. Secondo un mio vecchio prozio, purtroppo scomparso, l’osservazione del tempo atmosferico in quei 12 giorni (che lui chiamava, in dialetto, li calendri, cioè le calende) forniva indicazioni precise sul tempo che sarebbe stato prevalente nei corrispondenti mesi dell’anno: vedo consultando il web che l’usanza è molto diffusa nel mondo contadino, ad esempio nell’entroterra campano e sul Gargano.
  2. Secondo Carlo Ginzburg (ne I benandanti: Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, ma soprattutto in Storia notturna. Una decifrazione del sabba), i dodici giorni di Natale sono quelli in cui i morti tornano tra noi ed è necessario che esseri speciali (benandanti, streghe, lupi mannari, sciamani e kallikantzaroi) entrino in azione per ristabilire l’ordine naturale delle stagioni (nel tempo, ma anche nello spazio, cioè nel territorio).

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  3. Sempre secondo Carlo Ginzburg, i 12 giorni di natale trovano corrispondenza nei 12 giorni delle 4 tempora, che sono 4 periodi di 3 giorni ciascuno, in cui i benandanti sono attivi [Nel calendario liturgico, le Quattro Tempora sono quattro distinti periodi di tre giorni – mercoledì, venerdì e sabato – di una stessa settimana approssimativamente equidistanti nel ciclo dell’anno, destinati al digiuno e alla preghiera. Questi giorni erano considerati particolarmente idonei per l’ordinazione del clero. Le tempora d’inverno cadono fra la terza e la quarta domenica di Avvento, le tempora di primavera cadono fra la prima e la seconda domenica di Quaresima, le tempora d’estate cadono fra Pentecoste e la solennità della Santissima Trinità e le tempora d’autunno cadono fra la III e la IV domenica di settembre, cioè dopo l’Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre].
  4. Non resisto alla tentazione di fare una digressione: la tempura, la famosa frittura giapponese di verdure e pesce, fu inventata per effetto del contatto nel XVI secolo tra i giapponesi e i missionari gesuiti portoghesi. Le 4 tempora erano giorni di magro e i missionari l’osservavano scrupolosamente, friggendosi soltanto un po’ di pesce con le verdure. O tempura!

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  5. Le 4 tempora, a loro volta, rimandano al calendario festivo celtico, di cui parla ampiamente Robert Graves nel suo bellissimo e giustamente celeberrimo The White Goddess. A Historical Grammar of Poetic Myth. Permettetemi una lunga citazione:
    […] since the twelfth century no generation has been entirely faithless to the Theme. The fact is that though the Anglo-Saxons broke the power of the ancient British chieftains and poets they did not exterminate the peasants, so that the continuity of the ancient British festal system remained unaffected even when the Anglo-Saxons professed Christianity. English social life was based on agriculture, grazing, and hunting, not on industry, and the Theme was still everywhere implicit in the popular celebration of the festivals now known as Candlemas, Lady Day, May Day, Midsummer Day, Lammas, Michaelmas, All-Hallowe’en, and Christmas; it was also secretly preserved as religious doctrine in the covens of the anti-Christian witch-cult. Thus the English, though with no traditional respect for the poet, have a traditional awareness of the Theme.
    The Theme, briefly, is the antique story, which falls into thirteen chapters and an epilogue, of the birth, life, death and resurrection of the God of the Waxing Year; the central chapters concern the God’s losing battle with the God of the Waning Year for love of the capricious and all-powerful Threefold Goddess, their mother, bride and layer-out. The poet identifies himself with the God of the Waxing Year and his Muse with the Goddess; the rival is his blood-brother, his other self, his weird. All true poetry […] celebrates some incident or scene in this very ancient story, and the three main characters are so much a part of our racial inheritance that they not only assert themselves in poetry but recur on occasions of emotional stress in the form of dreams, paranoiac visions and delusions. The weird, or rival, often appears in nightmare as the tall, lean, dark-faced bed-side spectre, or Prince of the Air, who tries to drag the dreamer out through the window, so that he looks back and sees his body still lying rigid in bed; but he takes countless other malevolent or diabolic or serpent-like forms.
    The Goddess is a lovely, slender woman with a hooked nose, deathly pale face, lips red as rowan-berries, startlingly blue eyes and long fair hair; she will suddenly transform herself into sow, mare, bitch, vixen, she-ass, weasel, serpent, owl, she-wolf, tigress, mermaid or loathsome hag. Her names and titles are innumerable. In ghost stories she often figures as ‘The White Lady’, and in ancient religions, from the British Isles to the Caucasus, as the ‘White Goddess’. […] The reason why the hairs stand on end, the eyes water, the throat is constricted, the skin crawls and a shiver runs down the spine when one writes or reads a true poem is that a true poem is necessarily an invocation of the White Goddess, or Muse, the Mother of All Living, the ancient power of fright and lust – the female spider or the queen-bee whose embrace is death.

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Bene, ho divagato più che a sufficienza, mi pare. Il punto che volevo portare a casa è che è lecito aspettarsi – secondo tradizione; anzi, secondo Tradizione, come scriverebbero Julius Evola e René Guénon – che in questi giorni speciali nascano persone speciali.

E che in questo 5 gennaio si ricordi il compleanno di 3 grandi musicisti italiani. Per non fare torto a nessuno, andiamo in ordine di nascita.

Cominciamo dal flautista Severino Gazzelloni, nato Severino Gazzellone a Roccasecca (FR) il 5 gennaio 1919 e morto a Cassino (FR) il 21 novembre 1992. Questa è Syrinx di Claude Debussy:

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Il grandissimo pianista Arturo Benedetti Michelangeli nacque l’anno successivo, il 5 gennaio 1920, a Brescia e morì a Lugano il 12 giugno 1995. Di come Arturo Benedetti Michelangeli abbia avuto un ruolo non secondario nel mio amore per la musica e nel mio desiderio (in parte frustrato) di imparare a suonare il pianoforte l’ho già raccontato qui.

Ho anche avuto la fortuna di ascoltarlo dal vivo, una sola volta, alla Sala Nervi in Vaticano il 13 giugno 1987:

Quel 13 giugno 1987 era un sabato. L’appuntamento per il recital venne fissato alle 18,30. Arturo Benedetti Michelangeli era attesissimo. Il suo ultimo concerto in Italia era stato a Brescia nel 1980, e si poteva considerare anch’esso un’eccezione (scopo benefico pure in questo caso: il pianista aveva suonato in memoria di Paolo VI e per aiutare i profughi del Sud-Est Asiatico). In Vaticano aveva tenuto un concerto dieci anni prima, venerdì 29 aprile 1977, sempre nella Sala Nervi. Si capirà dunque il clima che si respirava quel 13 giugno del 1987. Il programma inoltre si poteva considerare affascinante. Si apriva con la Sonata in do maggiore op.2 n.3 di Ludwig van Beethoven, proseguiva con la Grande Polonaise brillante précédée d’un Andante spianato op.22 di Chopin, quindi con la prima e la seconda serie di Images di Claude Debussy. Si chiudeva con Maurice Ravel: Gaspard de la Nuit (trois poèmes pour piano d’après Aloysius Bertrand). [tratto da: L’armonia della semplicità, di Armando Torno, pubblicato su Il sole 24 ore del 15 gennaio 1995]

Di quel concerto (anche se eravamo molto lontani) ho una memoria vivissima (oltre a un bel cofanetto in 4 CD dove quel concerto, insieme alle altre registrazioni vaticane, è preservato nella sua interezza). Questi, da quel con concerto, è Gaspard de la Nuit (nell’ordine: Ondine, Le Gibet, Scarbo):

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Last, ma certamente non least, Maurizio Pollini, altro stratosferico pianista, nato a Milano il 5 gennaio 1942. sentito, per mia grande fortuna, innumerevoli volte, fin da quando stavo a Milano. Non c’è quasi stagione che non venga all’Accademia di Santa Cecilia (la cronologia dei suoi concerti la trovate qui).

Mi sarebbe facile proporvi uno dei suoi misuratissimi e antiretorici Chopin. Ma voglio ricordare l’esecuzione del primo libro del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach che eseguì all’Auditorium di via della Conciliazione il 24 gennaio 1986:

She Belongs to Me

Una bellissima canzone d’amore di Bob Dylan, dedicata (pare) a Joan Baez.

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Somiglianze di famiglia o soltanto coincidenze? Donovan, Guccini e i Procol Harum

Delle somiglianze di famiglia (Familienähnlichkeiten) nell’accezione wittgensteiniana abbiamo già parlato seriosamente qui.

Adesso ne parliamo giocosamente, senza sapere se le somiglianze siano casuali, oppure implichino un plagio e semplicemente una “suggestione” più o meno inconscia, o se discendano da una radice letteraria comune …

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Cominciamo ascoltando con  attenzione.

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Sesso in chiesa: un precedente illustre

PARENTAL ADVISORY: QUESTO POST NON È ADATTO AI MINORI

Quando giorni fa (martedì scorso, il 16 aprile: ma sembra un’eternità, perché nel frattempo abbiamo assistito al collasso del PD e al contempo della fiducia nella democrazia italiana) ho riportato la storia della coppia di Rosignano colta a copulare in un confessionale del duomo di Cecina (certe cose non si fanno nella propria parrocchia, va da sé: è una questione di buon gusto; e il locale cronista de Il Tirreno ci tiene a farci sapere che non era gente di Cecina, che certe cosacce in chiesa non le fa, o se le fa le va a fare, che ne so, nella pieve di San Pietro in Palazzi o nella parrocchiale di Vada) …

Ma sto divagando. Dicevo: quando giorni fa ho riportato la storia accaduta nel duomo di Cecina, l’ho fatto perché leggendola è risuonato nella mia memoria un ricordo lontano, qualche cosa che avevo letto su Johann Sebastian Bach, sul suo viaggio a Lubecca per ascoltare Dietrich Buxtehude, sulla sua permanenza che era prevista in pochi giorni (nonostante il lungo viaggio a piedi) e si era invece protratta per 4 mesi, in un suo ritorno precipitoso …

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Ricordavo confusamente e in modo impreciso, come accade nel caso di letture ormai remote. Tra le varie fortune che ho avuto nella vita (ho avuto anche la mia buona dose di sfighe e disgrazie, ma non è questa la sede né per bilanci, né per recriminazioni), una è stata quella di poter seguire il ciclo di conferenze su Bach che Giulio Confalonieri tenne alla Piccola Scala di Milano (ne ho già parlato qui, ma non sono riuscito a trovare nulla sul web: qualcuno mi aiuta a ricostruire che anno fosse?). La storia di questo ragazzo poco più che ventenne (l’età di Bach in quell’autunno del 1705; io ne avevo una quindicina, forse) che si fa 400 km a piedi per andare da Arnstadt a Lubecca per ascoltare il grande organista Dietrich Buxtehude suonare quello che allora era forse il migliore e più grande organo al mondo in una favolosa cattedrale di mattoni rossi e che – con un permesso di 4 settimane – ci si ferma 4 mesi è di quelle che restano impresse. Alla narrazione originaria di Confalonieri si erano aggiunte nel tempo altre letture bachiane – dalla monumentale Frau Musika di Alberto Basso al Bach di Piero Buscaroli. Nella mia memoria, il Bach ventenne, arrivato a Lubecca, non soltanto aveva ascoltato Buxtehude, ma l’aveva incontrato, ne era stato allievo in una sorta di master class, si era visto offrire il posto di organista nella Marienkirche (Buxtehude aveva quasi 70 anni) ma a patto che Bach ne sposasse la figlia (più grande del nostro e, s’immagina, non particolarmente attraente, se anche Handel e Mattheson declinarono cortesemente l’affare).

In più ricordavo, vagamente, uno scandalo sessuale: Bach sorpreso dallo stesso Buxtehude insieme a una giovane coetanea sul panchetto dell’organo, intento a un genere d’esercizi diverso dalle scale e dagli accordi. «Ohibò,» avrebbe esclamato il vecchio organista, «sotto la cupola non si copula!» [scusate la licenza, e la citazione di una battuta – mi pare – di Roberto Benigni: la Marienkirche, come potete ben vedere, non ha cupola]

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L’invenzione di una mente lubrica come la mia? Nulla di più probabile (mi conosco abbastanza bene). Eppure …

Eppure, tanto per cominciare, Giulio Confalonieri non era estraneo allo stesso tipo di miscuglio tra sacro e profano, tra crasso ed elevato, tra nobile e popolaresco: e può dunque essere che una battuta nelle sue dotte conferenze l’abbia fatta, marcando a fuoco la memoria di un adolescente metaforicamente brufoloso com’ero all’epoca.

E poi, qualche cosa di non troppo diverso nella biografia di Bach è registrato. Pochi giorni dopo il rientro da Lubecca, il 21 febbraio 1706 il concistoro di Arnstadt chiama Bach a giustificare un’assenza protrattasi ben oltre i termini concordati. Era già il secondo richiamo, dopo un’inchiesta per rissa sfociata in un processo in 4 sedute (5, 14, 19 e 21 agosto 1705) e una severa ammonizione al giovane organista, colpevole di essere venuto alle mani con Johann Heinrich Geyersbach, un collega musicista che Bach aveva insultato pubblicamente chiamandolo Zippelfagottist, “suonatore di fagotto da strapazzo”. Ve ne fu un terzo, l’11 novembre 1706, in cui il concistoro fece osservare a Bach «che recentemente egli ha permesso che una giovane straniera facesse musica con lui nel coro.»

Piero Buscaroli non avanza esplicitamente l’ipotesi che la giovane straniera fosse la cugina di secondo grado Maria Barbara, che Bach avrebbe sposato di lì a poco. Fatto sta, però, che di lì a 20 giorni Bach avrebbe abbandonato l’impiego di Arnstadt per assumere quello di Mühlhausen (a uno stipendio inferiore, cosa decisamente inconsueta per l’oculato Bach). Lì, il 17 ottobre 1707, il nostro finalmente impalmò la cugina, che gli avrebbe dato 7 figli (di cui 3 morti in tenera età.

Lo dico per scrupolo: non si tratta della medesima Barbara Bach che – in epoca più recente – fu una Bond girl e poi sposò Ringo Starr.

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Alberto Basso non ha dubbi e ci ricama un po’ di più:

La «giovane straniera» era la cugina Maria Barbara: undici mesi dopo, la coppia protagonista dello scandaloso episodio – solo agli uomini e alle voci bianche competeva il servizio musicale nel tempio – si sarebbe unita in matrimonio. È verosimile che già da qualche tempo, forse un anno o due, Bach conoscesse la cugina sua coetanea (Maria Barbara era nata a Gehren il 20 ottobre 1684); e quella conoscenza, destinata a dare un primo saldo volto al mondo degli affetti bachiani, si era formata non occasionalmente e non superficialmente nella dimora del borgomastro di Arnstadt, Martin Feldhaus, nella cui abitazione Bach aveva preso alloggio. Maria Barbara […] doveva aver trovato nella casa del borgomastro di Arnstadt un tetto famigliare e ospitale: Feldhaus […] aveva sposato una Margarethe Wedermann, sorella della madre di Maria Barbara. Il grande passo verso la soluzione nuziale fu reso facile, forse scontato, da una coabitazione che gli offrì i mezzi più certi per valutare, attraverso i gesti e le reazioni, il pensiero e le parole, i gusti e le inclinazioni, gli atteggiamenti assunti dalla cugina davanti al vivere quotidiano.
[…] La tensione, dopo l’incivile eppur legittimo rimprovero che gli si muoveva a causa della cugina, dovette giungere a livelli insostenibili. [Basso 1979, Frau Musika, I, pp. 256-257]

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Ma chi elabora l’episodio fino a farne uno dei 10 racconti ispirati alla vita di Bach che costituiscono il suo Bravo, Sebastian è il fisico-letterato Andrea Frova. Fingendo di utilizzare come fonte le memorie di un improbabile discendente del maestro di Eisenach, Franz Ottokar Bach (recensendo il libro trovato su un banchetto, Susanna Schwarz racconta di aver chiesto all’autore se Franz Ottokar Bach fosse realmente esistito e di averne ricevuto risposta recisamente negativa), Frova trasforma l’episodio in un tour de force dell’ars amandi di un focoso Sebastian, descritto con tutti i canoni e le convenzioni della letteratura erotica.

Come gli amanti di Cecina (verosimilmente ignari di tanto illustre precedente) anche Sebastian e la cugina vengono sorpresi, ma fortunatamente non interrotti, dall’autorità costituita.

Sebastian guardava sua cugina Barbara distesa sui soffici cuscini rosso porpora del coro. Era pallida, gli occhi chiusi, le gote irrorate di lacrime. Ve l’aveva adagiata delicatamente, dopo averla tenuta abbracciata – svenuta così come appariva – per qualche minuto. Da quando si erano trovati soli nella sagrestia, Sebastian aveva avvertito una pressione crescente nella zona del basso ventre, che si irradiava su ambo i lati e gli imponeva il desiderio di uno sfogo liberatorio. Era certo stato sotto la spinta di questa carica fisiologica – rifletté Sebastian – che verso la fine del suo racconto si era lasciato trasportare dalla foga dell’improvvisazione. Era andato ben al di là di quanto si fosse mai prospettato! Però ne aveva tratto un gusto profondo, simile – benché più asciutto e concreto – alla frenesia gioiosa che gli provocavano le acrobazie virtuosistiche sulle tastiere dell’organo. Ma ora, non era il caso di negarlo, provava una certa apprensione.
Maria Barbara era sempre immobile, ma le sue guance andavano riprendendo il naturale colorito. – Com’è bella – mormorò Sebastian a fior di labbra, provando un’intensa attrazione fisica. Si rassicurò notando che Joachim non aveva ancora smesso di suonare. – Sarebbe un guaio se anche lui decidesse di venire ad ammirare le bellezze del coro – ragionò. Un pensiero l’assalì: – Ti sei cacciato in una situazione difficile, caro Johann Sebastian, illustre organista della Neue Kirche! Ma perché hai voluto ingrandire il senso di questo rapporto? –. Ripeté, questa volta ad alta voce: – Adorabile creatura, come sei bella!
Fissò per lunghi istanti il corpo interamente abbandonato di Barbara. Le carezzò con un gesto morbido una guancia e la piccola bocca carnosa. Le passò una mano sui capelli corvini, che le attraversavano il mento e si mescolavano sul collo. Notò che il volto di lei aveva assunto un aspetto sereno che ricordava quello degli angeli in certe pitture italiane. – Mia piccola deliziosa Barbara! – Esclamò. Le ripassò le dita sulle labbra, che risposero con una minuscola contrazione. La guardò di nuovo, poi si chinò su di lei, così vicino. da percepirne il fiato.
Fu allora che la mano di Sebastian si mosse. Si mosse quasi da sola. Con un gesto veloce raggiunse il corsetto di Maria Barbara, e prese a slacciare cautamente il nastro che lo stringeva. Quando il corsetto fu libero, lo divaricò in modo da mettere a nudo, una dopo l’altra, le piccole mammelle. L’armonia delle curve, l’equilibrio delle proporzioni, l’esatta simmetria, erano all’altezza dei violini più belli. Erano solide come acini d’uva e pulsavano con il ritmo del respiro, spingendo su e giù i capezzoli rosa, vellutati e appena turgidi, come per segnare il tempo di una musica silenziosa. Egli iniziò a carezzarle con il palmo delle mani, leggero leggero, e subito sentì la sua parte virile impennarsi in uno strappo deciso.
Sebastian non si era accorto che Barbara aveva avuto un fremito, ma vide molto bene il momento in cui la cugina aprì gli occhi. Guardava lontano, oltre il volto di Sebastian, come se egli non fosse presente. Spalancò le braccia e lo tirò sopra di sé, stringendolo con tutta la sua forza e lasciandosi andare a un pianto sommesso. Il bacio fremente che Sebastian le impresse sulla bocca aveva assai poco del garbo che egli aveva sempre usato nei riguardi di Maria Barbara.
– Ma come sono potuto giungere a tanto? – non aveva potuto fare a meno di chiedersi un istante più tardi. – Che azione indegna! Nella casa del Signore! Ma lei, in nome del cielo … lei … perché non mi ferma, perché mi ha seguito fino a questo punto?
Le stava sopra con tutto il peso, togliendole il fiato con i suoi movimenti convulsi, baciandole il volto, le spalle, il seno, toccandole freneticamente le altre parti del corpo. Sebastian non aveva mai raggiunto, con una donna, un simile grado di intimità fisica. E nondimeno, dopo l’ultima timorosa esitazione, aveva messo al bando ogni pensiero, agendo come se seguisse un percorso conosciuto da sempre. Con un gesto improvviso, aveva sollevato la massa voluminosa della gonna e con la mano andava carezzando la stoffa umida e calda sopra l’incavo delle cosce. Attraverso il fine tessuto, egli provava sensazioni del tutto nuove. I suoi polpastrelli, abituati a scorrere sul rigido avorio delle tastiere, percepivano ora i rilievi molli e cedevoli della carne di Barbara. Ella appariva docile, sotto le mani di Sebastian, come se non avesse scelta. Però, quando egli cercava di vederla in viso, affondava il mento nel collo di lui e gli si stringeva addosso ancor più tenacemente.
Sebastian si rese conto che la parrucca, intrisa di sudore, gli era di grosso impiccio. Risolse di strapparsela di dosso e la fece volare al di là del leggio. Cadde proprio davanti all’organo da cappella e rimase a terra sparpagliata. Poi, con una mossa energica, afferrò presso l’ombelico le brache leggere che vestivano Barbara dalla vita in giù e le tirò verso il basso. L’indumento scese per un tratto, poi si squarciò di netto. Sebastian finì per lacerarlo del tutto, scaraventando la parte che gli era rimasta in mano nella stessa direzione della parrucca.
Il forte odore femminile che d’improvviso era giunto alle sue narici, aveva avuto l’effetto di eccitarlo ancor più, infondendogli una sorta di ebbrezza sulla quale aveva scarso controllo. Le sue dita furono attratte nella nicchia calda e umida, lasciata senza difesa. Egli le fece ondeggiare a lungo, usando la stessa delicata pressione con cui avrebbe fatto trillare le corde del violoncello. Come un violoncello, Maria Barbara vibrava in tutta la persona. Ansimava, emettendo di quando in quando dei suoni soffocati, e si avvinghiava convulsamente al collo di Sebastian, fino a fargli male. Egli sentiva che il fondo del ventre era divenuto esplosivo e lo tirava verso il basso. Quando Barbara raggiunse il delirio, Sebastian si scoprì. Spinse con decisione, ma senza vera violenza. Ella fece un solo piccolo grido: – Mio Dio! – Sebastian era penetrato tra i lembi vivi di lei quasi all’istante.
La sensazione di subitaneo calore che aveva avvertito lo aveva spinto vicino alla soglia dell’orgasmo. Ciò lo fece tornare alla realtà: si impose di restare immobile e di prendere qualche istante per assaporare l’emozione che provava.
–  L’avrei mai creduto possibile? Barbara … mia … Barbara … e tra noi si è sempre parlato soltanto di musica, di arte, di nobili sentimenti di amicizia e di stima! Eppure tutto è stato così naturale, come se lo avessimo atteso da sempre! –. Un pensiero lo colse: – Ma lei, lei cosa prova? Saprà affrontare il domani o mi disprezzerà?
Quando prese a muoversi su e giù ritmicamente, fu subito in preda al piacere e ciò ebbe l’effetto di spazzare via d’un colpo i suoi pensieri. Si strinse a lei, e lei a lui, mentre il loro movimento diveniva sempre più sfrenato. Le loro bocche impazzite si cercavano, i loro capelli intrisi di sudore si confondevano. La musica nella cattedrale, che per qualche tempo aveva accompagnato sordamente la danza dei loro corpi, era ora cessata, senza che essi se ne fossero accorti. Sebastian avvertiva soltanto, e molto confusamente, che i muri della sagrestia facevano eco ai rumori scomposti del loro ardore.
Al momento dell’orgasmo, sembrò a Sebastian che il mondo si disperdesse, e tutta la sua attenzione si focalizzò nel punto dove lui e Barbara erano congiunti. Le spinte di lei raggiunsero un’intensità così alta, che Sebastian si sentì sollevato di peso, quasi che sua cugina avesse d’improvviso scoperto forze sconosciute al suo esile corpo di fanciulla. Gridarono entrambi, senza ritegno, e infine si arresero, abbandonandosi l’uno sull’altra, madidi di sudore, senza più energie.
Passarono lunghi minuti in un totale silenzio, senza che i due cugini rientrassero nella realtà. D’un tratto Sebastian udì un rumore secco, come d’una porta che sbatteva. Si alzò di scatto e volse lo sguardo verso l’ingresso della sagrestia: immobile, eretto in una posa minacciosa, li fissava il sovrintendente della Neue Kirche, con accanto il vice-diacono e poco più indietro il nipote Joachim Nepomuk, rosso in volto fino alla base della parrucca. Anche Maria Barbara si era rimessa in piedi e si affrettava in qualche modo a ricomporre la veste disastrata. Sebastian afferrò un cuscino e le coperse il petto. La guardò: si sbagliava, o negli occhi sbarrati di lei, tra i segni della costernazione, aveva visto balenare un guizzo luminoso? [Frova 1989, Bravo, Sebastian, pp. 54-58]
Mi spiace, caro Frova, ma non ti è venuto benissimo. Le scene erotiche sono difficilissime. E qui, oltre ai luoghi comuni del genere (la stoffa umida e calda sopra l’incavo delle cosce, il forte odore femminile, nicchia calda e umida lasciata senza difesa, penetrato tra i lembi vivi di lei, prese a muoversi su e giù ritmicamente, le loro bocche impazzite, la danza dei loro corpi, madidi di sudore senza più energie, …) c’è l’effetto inesorabilmente comico delle metafore musicali che Frova ci ha voluto intercalare: i seni di Maria Barbara sono “all’altezza dei violini più belli” e pulsano “con il ritmo del respiro, […] come per segnare il tempo di una musica silenziosa”; dal canto loro, i polpastrelli di Bach, “abituati a scorrere sul rigido avorio delle tastiere, percepivano ora i rilievi molli e cedevoli della carne di Barbara”; il nostro, avvedutosi che Barbara non è d’avorio, cambia tecnica e strumento, ” usando la stessa delicata pressione con cui avrebbe fatto trillare le corde del violoncello” e Barbara prontamente risponde “come un violoncello”, vibrando “in tutta la persona”. Per fortuna, dopo aver citato l’organo da cappella, ai piedi del quale si accumulano parrucche sudaticce e brachette strappate, hai resistito alla tentazione della cappella dell’organo. Io, come vedi, non ci sono riuscito.