La squadra 8 (7)

E così la soluzione di tutti i misteri è rinviata a quest’autunno. Guerra non è morto (ma ha rischiato, e per la seconda volta deve essere grato a Sciacca). La talpa non si sa chi è. Matrone è scappato e sarà protagonista della prossima serie. E la bella Cecilia Dazzi? Ma, soprattutto: Sciacca dove l’ha preso quel cappellino Tattoo? Esiste davvero, quella marca? Made in Naples o in qualche posto ancora più esotico? Palermo? Guayaquil?

Ancora un sacco di battute felici. Ancora qualche duetto tra personaggi (Ferro e la Veneziani, la Veneziani e Pettenella, Pettenella e Battiston). Ma soprattutto Battiston e Sciacca: impagabile la scena della piegatura della camicia.

La scena più bella registicamente: l’interrogatorio di Ercole (chi lo interpreta? bravissimo!) che guarda nella scollatura della Torre e racconta tutto quasi senza accorgersene. Mentre la Torre, che se ne avvede (c’è un’inquadratura rivelatrice), l’usa per farlo continuare a parlare (forse ci siamo sbagliati e questa Ines Nobili sa recitare).

Recital di Evgenij Kissin

Mercoledì 30 maggio 2007 – ore 21.00

Roma, Auditorium, Sala Santa Cecilia
Evgenij Kissin in recital

Pianoforte: Evgenij Kissin

Programma:

Schubert – Sonata in mi bemolle maggiore per pianoforte D 568, op. 122
Beethoven – Trentadue variazioni in do minore per pianoforte, WoO 80
Brahms – Sei Klavierstücke per pianoforte, op. 118
Chopin – Grande polonaise brillante précédée d’un Andante spianato, per pianoforte, op. 22

Nella musica, come nel modo di affrontare la vita e nella filosofia, si individuano visioni diverse: quella che sottolinea la dinamica drammaticità delle vicende umane e quella che enfatizza l’eterno ritorno, la freccia e il cerchio, il maschile e il femminile, l’occidente e l’oriente, il dio calato nella storia (Jahvè e Allah) e la religione del ciclo (induismo e buddismo). In musica, questa dicotomia si ripropone come quella tra forma sonata e variazione.

Per fortuna non si deve per forza scegliere.

Ma mi verrebbe da dire che la sonata è più facile da apprezzare e amare, proprio perché siamo occidentali. La sonata nelle sue forme più alte non racconta soltanto una storia, o una tragedia con i suoi personaggi drammatici (la Sonata in si minore di Liszt), ma può essere anche una riflessione intima sugli abissi dell’anima (le ultime sonate di Beethoven e di Schubert).

Le variazioni richiedono un distacco maggiore, uno spirito ironico, uno sguardo disincantato. Soltanto i grandi musicisti ne sanno fare dei capolavori assoluti. Due in particolare: Bach, con le Variazioni Goldberg, e Beethoven, con quelle su un Valzer di Diabelli. Beethoven, però, non riteneva tutte le sue variazioni una cosa seria, degna di essere inserita nella produzione ufficiale con un numero d’opera. Anzi, la maggior parte delle variazioni che ha scritto sono WoO (Werk ohne Opus): è il caso delle 32 variazioni su un tema originale in do minore eseguite ieri sera.

Sono variazioni molto amate dai pianisti russi, i più orientali dei musicisti occidentali. Kissin, con i suoi lineamenti quasi asiatici, ne ha dato un’interpretazione magistrale. L’avevo sentito per la prima volta al suo debutto romano, nella vecchia sala di via della Conciliazione, quando aveva suonato gli Studi sinfonici di Schumann. Ricordo di aver commentato che, per affrontarli, non bastava essere bravi, ma bisognava anche avere vissuto, e che l’impresa (per un pianista nemmeno ventenne) era segno d’orgoglio e d’ambizione eccessivi. Ma certamente l’eterno ragazzone, a 36 anni, è ben maturato.

Il programma mi era sembrato senza capo ne coda, ma aveva una sua logica che ho capito ascoltando: Kissin ci ha presentato una panoramica delle forme pianistiche. Oltre alla sonata e alla variazione, la piccola forma romantica (i Klavierstücke op. 118 di Brahms) e la danza (ancorché quella trasfigurata della Polacca di Chopn).

La musica è forma. Anzi, soltanto forma. Il godimento musicale è puramente cerebrale, dipende dal fatto che riconoscere configurazioni, pattern, forme è essenziale alla nostra sopravvivenza come specie e, quindi, è associata a un piacere intenso, come quello dell’orgasmo, del gusto e del pettegolezzo (altre tre attività fondamentali sono la riproduzione, l’alimentazione e la lettura della mente dei nostri simili).

Bip & Go: cronaca di un disastro annunciato

Dal 3 maggio 2007 è iniziata l’operazione Bip & Go (così, in inglese, segno di modernità).

La miriade di manifesti affissi in tutte le stazioni – va da sé che il battage pubblicitario è pagato dagli utenti, che non ne traggono nessun vantaggio, perché sono messi di fronte a una decisione già presa e il contenuto informativo dei cartelloni è inversamente proporzionale al dispiego di grafica – non spiega molto.

Boris, pignolo e sospettoso, è andato sul sito di Metroroma ed è in grado di riportare la spiegazione dell’azienda:

Con il via nella fermata di Bologna della linea B della metro, oggi è iniziata l’operazione di chiusura dei varchi d’ingresso nella sotterranea romana. Inizialmente verranno effettuati i lavori nella stazioni della linea B che termineranno entro fine giugno; subito dopo sarà la volta della linea A con l’ultimazione delle installazioni dei tornelli prevista per fine luglio. L’investimento del Comune di Roma, pari a circa 11 milioni di euro, prevede sia il recupero dell’evasione tariffaria, sia l’aumento dei livelli di sicurezza nelle 49 stazioni delle due linee della metropolitana. In realtà tutti gli accessi diverranno protetti e automatizzati completamente in quanto i varchi si apriranno solo presentando un titolo di viaggio valido, cioè abilitato. Con l’occasione sarà abolito anche lo spazio riservato agli abbonati fino ad oggi presidiato dagli addetti. Entro il prossimo mese di ottobre, poi, l’operazione continuerà con l’installazione di circa 150 varchi riammodernati ed installati nelle 26 stazioni considerate “strategiche” per numero di passeggeri delle ferrovie in concessione.

L’unica notizia vera in questo comunicato stampa: l’azienda risparmierà sul “presidio” degli addetti al varco abbonati. Che sia un risparmio è chiaro, se si traduce in una riduzione del personale di stazione. Ma che in questo modo aumenti la sicurezza degli utenti, sia in senso tecnico (cioè in caso di incidente o di guasto tecnico), sia come presidio per la micro- o macro-criminalità non mi pare proprio. A meno che il personale resti nei paraggi, insieme ai vigilantes, ma non controlli più l’esibizione della tessera, e a questo punto non ci guadagnano più né l’azienda né i passeggeri.

Ma in realtà, quello che voglio fare qui è un discorso il più possibile quantitativo. Non ho tutti gli elementi, ma mi auguro che qualcuno mi possa aiutare a integrare le informazioni mancanti. Spero, anzi, che MetroRoma e ATAC dissipino i miei dubbi. Per una volta, preferirei avere torto.

Cominciamo da un’osservazione. In tutte le stazioni della metropolitana ci sono più uscite che ingressi. A EUR Fermi, direzione Rebibbia, ad esempio, ci sono 3 ingressi e più di 10 uscite. Il rapporto è più o meno lo stesso in tutte le stazioni. Tutto questo ha un senso: si entra alla spicciolata e si esce tutti insieme (dopo che è arrivato il treno). Spero, anche se non ne sono sicuro, che gli ingegneri dell’azienda dei trasporti abbiano fatto i loro conti e non si siano limitati a un ragionamento qualitativo.

Quali conti avrebbero dovuto fare? Quello del numero dei passeggeri in entrata e in uscita e quello del tempo necessario in media a passare il varco. Soltanto così, in media, avrebbero potuto evitare il formarsi di code (che è un problema di tempo, ma anche di costi per gli utenti – il tempo è denaro – e di sicurezza – nessuno vorrebbe incontrare un ostacolo alla fuga in caso d’emergenza).

Ammesso che i conti siano stati fatti a suo tempo (nel 1990, quando la linea B è stata ammodernata e prolungata), i conti non sono più validi adesso. Il biglietto del 1990 doveva essere semplicemente timbrato (operazione che richiedeva una frazione di secondo, diciamo circa 1/3), mentre il biglietto attuale deve essere inserito (nel verso giusto!), risucchiato dalla macchinetta, stampato su 3 righe da una stampante a impatto e restituito dalla macchinetta. Mia valutazione: 3 secondi se tutto va bene! Quindi, la capacità di ogni varco è diminuita di 10 volte: nel tempo in cui prima passavano 10 persone ora ne passa una sola (può darsi che i miei calcoli siano imprecisi, ma il ragionamento reggerebbe anche se avessi fatto un errore del 50% in più o in meno). E infatti, qualche coda si forma già ora, soprattutto nelle stazioni più trafficate, come Termini, ma anche a EUR Fermi quando arriva un autobus extraurbano.

Se la situazione non è ancora drammatica oggi, è perché gli abbonati (e forse anche i “portoghesi”) sono molti. Non sono riuscito a trovare sul sito dell’ATAC il numero degli abbonati, ma mi sembra di aver letto da qualche parte che esprimono la maggioranza dei viaggi! D’ora in poi, gli abbonati non dovranno più semplicemente “esibire la tessera al passaggio”, ma avvicinare il chip alla macchinetta e attendere il segnale verde (e, se leggo bene il comunicato stampa, l’apertura fisica del varco). Se c’è un non abbonato davanti a loro, attendere i famosi 3 secondi. Se c’è una coda, ancora più tempo.

Facciamo un calcolo per difetto. Secondo il sito dell’ATAC, nel 2006 la metropolitana di Roma ha trasportato 287 milioni di passeggeri. Ipotizziamo (ma è un’ipotesi irrealistica, e vedremo perché) che si distribuiscano regolarmente nei 365 giorni dell’anno (786.301 al giorno), nelle 18 ore di servizio giornaliero (43.683 all’ora), nei 60 minuti di ogni ora (728 al minuto), nei 60 secondi di ogni minuto (12,13 al secondo) e, infine, nelle 48 stazioni della metropolitana (0,25 al secondo). Siamo al limite (ogni passeggero ha 4 secondi per “obliterare il titolo di viaggio” e abbiamo ipotizzato che ne bastino 3, e poi c’è più di un varco per stazione), ma non al disastro.

Ma l’ipotesi non è realistica: ci sono giorni dell’anno più affollati (i mesi in cui sono aperte le scuole, i giorni feriali, i giorni di pioggia, i giorni di fine mese quando sono finiti i soldi) e giorni meno (l’estate, i festivi…); ore di punta e ore “morte” (il mattino presto e la sera tardi); stazioni più affollate di altre… Qui è in agguato il disastro – o almeno il nostro disagio.

Un altro fattore che influisce è il numero dei varchi attivi in ogni stazione. Se ci sono 3 varchi, come a EUR Fermi, uno guasto riduce la capacità di assorbimento di un terzo; se ce ne sono 10, “soltanto” del 10%.

L’unica speranza è che i nuovi varchi che saranno installati (150 in 26 stazioni – a proposito 150 varchi a un costo di 11 milioni di euro fa 73.333 euro a varco: spero di aver letto male! sono varchi o SUV?) possano essere “banalizzati”, cioè essere trasformati da entrate in uscite e viceversa secondo necessità, un po’ come accade ai caselli dell’autostrada.

Spero di essermi sbagliato, davvero!

Un marito per Cinzia

Un marito per Cinzia (Houseboat), 1958, di Melville Shavelson, con Cary Grant e Sophia Loren.

Quarto DVD del cofanetto di Cary Grant (dopo Un amore splendido, Il visone sulla pelle e Sospetto).

Un filmetto leggero leggero. Grado di credibilità: -1. Incastonato, nella carriera di Cary Grant, tra due capolavori di Hitchcock come To Catch a Thief (1955) e North by Northwest (1959).

Sophia Loren è abbastanza divertente (e molto carina) e sembra che la chimica con Grant funzioni abbastanza bene.

Molto bravi i tre bambini.

Sotto sotto, la storia è una rielaborazione di Cenerentola.

Lettera a una professoressa

Cade in questi giorni il 40esimo anniversario della pubblicazione di Lettera a una professoressa (e anche della morte di Lorenzo Milani).

Per me e per molti della mia generazione è stato un libro fondamentale.

Mi limito qui a riportare l’articolo comparso su Eguaglianza & Libertà, Rivista di critica sociale.

Mi fa piacere ritrovare su questo intervento il riferimento all’articolo di Sebastiano Vassalli (“Don Milani, che mascalzone”) su La Repubblica del 30 giugno 1992: da allora non compro più quel giornale.

‘Lettera a una professoressa’ 40 anni dopo

Fu pubblicata nel maggio 1967, dopo un paio d’anni di gestazione. Il mese dopo don Lorenzo Milani moriva a soli 44 anni. La Libreria Editrice Fiorentina ripropone il celebre testo, accompagnato da una ricca documentazione e da testimonianze

B. L.

A quarant’anni dalla prima edizione, la Libreria Editrice Fiorentina ripubblica Lettera a una professoressa, scritta dalla Scuola di Barbiana. In questa edizione la Lettera è accompagnata da testi che ne ricostruiscono la vicenda, documenti inediti, interventi di vari personaggi che in un modo o nell’altro hanno incrociato nella loro vita e nel loro impegno questo testo.

Come ci ricorda l’editore Giannozzo Pucci nella nota introduttiva al volume, “nei confronti della Lettera a una professoressa ci sono stati, e ci sono ancora, due atteggiamenti opposti. Da una parte la chiusura totale, il rifiuto di seguirne il filo, la condanna preventiva. Chiunque, invece, si sia avvicinato a questo libro con un minimo di mancanza di pregiudizi non è rimasto immune da un bisogno di conversione personale”.

Sintomatica di questa “divisione degli spiriti” fu una polemica accesa nel 1992, in occasione del 25° anniversario della Lettera, sulle pagine di “Repubblica” da un intervento dello scrittore Sebastiano Vassalli (Don Milani, che mascalzone, “La Repubblica” 30 giugno 1992). L’articolo di Vassalli e le più significative delle reazioni che suscitò si possono leggere nella documentazione che, nella riedizione attuale della LEF, precede il testo della Lettera. Vassalli, rifacendosi in parte a un libello dell’ex insegnante ed ex preside Roberto Berardi (Lettera a una professoressa. Un mito degli anni sessanta), demoliva pezzo per pezzo la fatica della scuola di Barbiana: dal metodo al linguaggio ai contenuti, fino a farne una sorta di “libretto rosso” che – al dire dei suoi detrattori – avrebbe contribuito alla demolizione della scuola pubblica e al disimpegno di tanti giovani rispetto alla disciplina dell’imparare.

Numerose furono le reazioni a difesa di don Milani. Alcune (ad esempio quelle di Gentiloni, Vattimo, Gozzini) sottolineavano in questo attacco a don Milani un momento di un più vasto tentativo di regolare i conti con la cultura di sinistra, alimentato dal clima instaurato dalla vittoria politica dello schieramento di destra raccolto attorno a Silvio Berlusconi. Altri (come De Mauro, Pampaloni, Ferrarotti, Starnone), sia pure con accentuazioni diverse, entravano più nel dettaglio dei contenuti della proposta pedagogica del priore di Barbiana, sottolineandone l’originalità e la bruciante attualità. Ma anche sulle colonne del quotidiano dei vescovi “Avvenire” scesero in campo a difesa della memoria di don Milani dei sacerdoti, come Sandro Lagomarsini e Raffaello Ciccone (oggi responsabile della Pastorale del lavoro della Diocesi di Milano), il quale ultimo titolava il suo articolo “Don Milani, maestro di civiltà” (“Avvenire”, 25 luglio 1992). Ripercorrere quella polemica, e anche le prime reazioni della stampa nel 1967, è tuttora di grandissimo interesse per cogliere le molte sfaccettature della proposta di Barbiana e dell’eco che ebbe e ancora merita di avere.

È attuale ancor oggi la lezione di Barbiana? Lo è per più versi, ma soprattutto su un punto richiamato da Giannozzo Pucci: “La Lettera a una professoressa resta una proposta di conversione personale più attuale che mai. Anche perché nel classismo di don Milani schierato coi poveri, c’è qualcosa di più di una teoria sociale o politica, qualcosa di più di una riforma istituzionale, c’è la radicalità dell’appartenenza a un Sovrano che ha emanato un decreto incancellabile secondo cui tutto ciò che sarà fatto a uno dei più piccoli sarà fatto a Lui”.

Tra gli interventi pubblicati, segnaliamo quelli di Bruno Manghi e di Mario Capanna.

Il primo richiama la diffusione “vasta e diretta” che la Lettera ebbe nel sindacato, in particolare nella Cisl e nella Fim-Cisl, e l’influenza esercitata nel forte impegno dei sindacati di allora sul fronte della scuola e dell’istruzione, che ebbe sbocco nell’esperienza delle 150 ore. “Il sindacalismo italiano – scrive Manghi – seppe affiancare a una veemente stagione di conflitti un’opera di costruzione sociale positiva, coinvolgendo mondi più vasti di quello strettamente operaio. (…) Rispetto a don Milani, si trattava ovviamente di riportare la sua lezione nel mondo degli adulti, senza però smarrire la passione per il sapere, anche quello non immediatamente impiegabile, che aveva segnato Barbiana”.

Capanna rivendica l’apporto positivo della Lettera alla stagione del ’68, a “quegli anni formidabili”, nei quali “ci aiutò a studiare come pazzi (contrariamente alla vulgata secondo cui avremmo coltivato l’ignoranza), certo in modo nuovo e anche divertendoci. Il Sessantotto è stato il mondo che, per la prima volta, è riuscito a guardarsi. E a vedersi. Il merito è stato anche di Lettera a una professoressa. Che ci aiuta ancora a volgere lo sguardo verso l’orizzonte”.

Tra i contenuti della documentazione che precede il testo, è di straordinario interesse la ricostruzione che Sandra Gesualdi fa delle genesi della lettera, alla presenza di un don Milani ormai distrutto dalla malattia (sarebbe morto un mese dopo la pubblicazione, il 26 giugno 1967), ma sempre attivo e vigile sul lavoro dei suoi alunni. Viene riportata anche la prefazione che per la Lettera aveva scritto il grande architetto Giovanni Michelucci, che intratteneva un intenso rapporto con don Milani. Malgrado l’entusiasmo dell’architetto, la prefazione non venne pubblicata, perché – scrive Sandra Gesualdi – “fu giudicata dai barbianesi troppo difficile nel linguaggio per il libro. Tentarono di semplificare il testo secondo il loro stile, ma non se la sentirono di proporla all’architetto e preferirono rinunciare alla prefazione”. L’ultimo dei contributi presenti nella documentazione è del ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, del quale viene pubblicato l’intervento alla quinta “Marcia a Barbiana” del maggio 2006.

Su Lettera una professoressa e su don Milani esiste un ricchissimo materiale: se ne può avere un’idea navigando con Google o Yahoo. Segnaliamo comunque i seguenti siti, nei quali è possibile trovare ampi materiali biografici, testi, commenti, ricostruzioni storiche: www.barbiana.it (del Centro di Formazione e Ricerca don Lorenzo Milani e scuola di Barbiana); www.donmilani.info; www.marciadibarbiana.it (il sito ufficiale della VI Marcia, 20 maggio 2007).Il sito della Fondazione don Lorenzo Milani è attualmente in costruzione.

Penso sia utile, per comprendere l’attualità di Lettera a una professoressa, leggere la documentazione dell’Istat sulla dispersione scolastica:

Nel 2006, in Italia l’incidenza degli abbandoni scolastici, misurata attraverso la rilevazione sulle forze di lavoro, è pari al 21 per cento, risultando superiore di sei punti a quella registrata nella media dell’Ue25. In una graduatoria dei paesi membri, l’Italia si trova al quartultimo posto, con valori dell’indicatore superati solo da Spagna, Portogallo e Malta. La distanza rispetto al traguardo fissato per il 2010, pari a non più del dieci per cento, è ancora ampia.
Sulla base della definizione ora ricordata, nel nostro Paese le persone con esperienza di abbandono scolastico precoce sono circa 900 mila” (Istat, Rapporto annuale, p. 200).

Fooled by Randomness

Taleb, Nassim Nicholas (2005). Fooled by Randomness: The Hidden Role of Chance in Life and in the Markets. New York: Random House. 2005.

Ho comprato il libro attratto dal titolo e, soprattutto, dal sottotitolo. La quarta di copertina avrebbe dovuto mettermi in guardia.

Mi aspettavo un’analisi delle nostre (umane) difficoltà a gestire i concetti di probabilità, casualità e incertezza, magari sotto una prospettiva personale, ma un po’ nel filone di Gigerenzer, Stigler o Hacking. Niente di tutto questo. È un testo senza capo né coda, scritto in modo certamente personale ma a me sgradito, di cui fatico a comprendere lo scopo.

Quello che mi irrita di più è che Taleb e io abbiamo molte letture in comune, ma non è scattato per me nessun meccanismo di “affinità elettive”: sospetto che se per caso c’incontrassimo litigheremmo subito.

Avrete già capito: ve lo sconsiglio. Io stesso sono arrivato alla fine per testardaggine, nella vana speranza di capire dove volesse andare a parare e – anche – perché un paio di cose interessanti le avevo trovate e non volevo rischiare di perdere la terza, che però non è mai arrivata.

Le cose interessanti, dunque.

La prima è una lancia spezzata a favore della gerontocrazia. Taleb fa una simulazione con il metodo Montecarlo e scopre (o meglio trova conferma) che gli speculatori più vecchi hanno maggiori probabilità di “sopravvivere”, semplicemente perché più esposti (e quindi più resistenti) agli eventi molto rari. Anche nella selezione di un partner – commenta Taleb a pagina 63 della mia edizione – le donne preferiscono, coeteris paribus, un vecchio sano a un giovane sano, perché il primo segnala una comprovata capacità di sopravvivere. Lo trovo particolarmente divertente, dal momento che in questo periodo il chiacchiericcio nazionale (alimentato da giornalisti e opinionisti tutti più vecchi di me) attribuisce il declino italiano alla gerontocrazia imperante nella politica e nell’impresa. Naturalmente, a me dà fastidio, dopo che per anni non era il mio momento ed ero considerato troppo giovane per posizioni di responsabilità, essere di colpo troppo vecchio per il volgere di una moda.

La seconda è la considerazione (poche pagine dopo) che il rapporto segnale/rumore è funzione del tempo. Nell’esempio di Taleb, nel breve periodo il rumore (la variabilità del portafoglio) prevale sul segnale (la performance): 1.796 a 1 in un secondo; 30 a 1 in un’ora, 2,32 a 1 in un mese, per scendere a 0.7 a 1 in un anno. Non sono del tutto sicuro della matematica di Taleb (che però la insegna all’università) e vorrei vedere le sue simulazioni, ma mi sembra che il suo punto regga: quando osserviamo una serie storica, vediamo sempre una combinazione di segnale e rumore e, per quanti filtri abbiamo, la congiuntura è sempre più opaca dell’analisi strutturale. Forse, quando siamo sollecitati alla tempestività delle informazioni statistiche, invece di metterci subito sulla difensiva, dovremmo far riflettere il nostro interlocutore sugli scopi conoscitivi che si prefigge. Quanto a Taleb, giunge alla conclusione, che condivido, che leggere i giornali è inutile e che, poiché il tempo è limitato, è meglio un buon libro.

Purtroppo (ancorché un best-seller, alla 206esima posizione in questo momento su Amazon), a mio parere il suo non ricade nella categoria!

Amnesty International

Oggi Amnesty – fondata nel 1961 – compie 46 anni.

Buon compleanno e grazie di esistere!

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La squadra 8 (6)

Non mi è piaciuta: troppo autoreferenziale, troppo giocata sulle dinamiche interne alle persone. Troppo scoperto il gioco degli incontri e dei dialoghi, a due a due, per fare emergere il profilo dei diversi personaggi. Un bel gioco dura poco, e invece siamo già alla terza puntata così.

Allora mi dedico a qualcosa di diverso e faccio anch’io l’oracolo, alla Sciacca: il mistero si addensa intorno a Guerra.

La prossima puntata promette bene: Matrone è scappato…

Google

Il nome del noto motore di ricerca è anch’esso un’invenzione di Douglas Adams, nella sua Guida galattica per gli autostoppisti. Uno degli inventori di Deep Thought, rivolgendosi a un altro personaggio, gli dice: “And are you not … a greater analyst than the Googleplex Star Thinker in the Seventh Galaxy of Light and Ingenuity which can calculate the trajectory of every single dust particle throughout a five-week Dangrabad Beta sand blizzard?”

Non è certo, però, se Larry Page, uno dei fondatori del motore di ricerca, avesse letto Adams o abbia fatto semplicemente un’errore di geografia (googol e google si pronunciano allo stesso modo).

Il googol è un numero molto grande, 10100, cioè 10 seguito da 100 zeri, più grande del numero di particelle dell’universo conosciuto (stimato tra 1079 e 1081).

Il nome è stato inventato nel 1938 da un bambino di 9 anni, Milton Sirotta, nipote dal matematico americano Edward Kasner, quando lo zio gli chiese il numero più alto che conoscesse. Probabilmente il bambino aveva in mente una coppia biblica, Gog e Magog, citati nella Bibbia (Genesi ed Ezechiele), nell’Apocalisse e nel Corano, e diventati nella tradizione anglosassone giganti proverbiali.

Il googolplex è 10 elevato a un googol, cioè:

\mbox{googolplex} = {10}^{\mbox{googol}} = {10}^{({10}^{100})} .

Il googleplex di Adams è chiaramente una deformazione satirica del googolplex.

Esculento

Commestibile (in genere, di vegetale).

Ma anche qui è divertente l’etimologia, dal latino edĕre (mangiare), in cui ed- si trasforma in es- (come in esca, “cibo”). Mangiare è un’attività comune e importante, e per questo tutte le lingue, compreso il latino, hanno molti modi per dirlo. Da edĕre vengono il tedesco essen, l’inglese eat e il russo est, tutti con il significato di mangiare. Da edĕre deriva anche lo spagnolo comer, attraverso cum-edĕre (“mangiare insieme”, da cui il nostro commestibile). L’italiano mangiare viene da manducare.

Anche obeso ha la stessa etimologia (il prefisso ob rafforza edĕre): colui che ha mangiuato troppo!