Harry Potter e il principe mezzosangue (Harry Potter and the Half-Blood Prince), 2009, di David Yates, con Daniel Radcliffe, Emma Watson, Rupert Grint, Helena Bonham-Carter, Alan Rickman e Maggie Smith (lo ammetto, ho messo solo i miei preferiti).

Tra i temi principali di questa sesta puntata del ciclo di Harry Potter (purtroppo ormai il film ha 4 anni di ritardo sull’uscita e la lettura del romanzo, così noi lettori compulsivi e attempati nel frattempo ci siamo dimenticati un bel po’ di cose, complice anche una certa serialità degli episodi) c’è il vomito. Ed è su questo aspetto che mi concentrerò: siete avvertiti e dunque i più schizzinosi si astengano dal proseguire.
Cominciamo quando, insieme ad Albus Dumbledore, Harry si materializza la prima volta (tutte le citazioni che seguono sono tratte da IMDb):
Albus Dumbledore: Take my arm.
[apparates]
Albus Dumbledore: That was fun. Most people vomit their first time.
Notate che nel libro non si parla di vomito, ma Harry si limita a osservare che preferisce le scope come mezzo di trasporto (p. 60 dell’edizione originale inglese).
Più tardi, all’esclusiva cena pre-natalizia di Slughorn, per liberarsi di Cormac McLaggen, che ha invitato per far ingelosire Ron, Hermione gli propina un salatino al sangue di drago (o qualcosa del genere) e il malcapitato Cormac vomita sulle scarpe di Severus Snape, beccandosi un mese di punizione:
[after Cormac threw up on Snape’s shoes]
Severus Snape: That’s a month of detention.
Nel libro, Hermione si limita a svignarsela (p. 298: She moved so fast it was as though she had Disapparated; one moment she was there, the next she had squeezed between two guffawing witches and vanished).
La terza volta è dopo che Hermione scopre Ron appartato con Lavender:
Hermione Granger: [after she sees Ron and Lavender making out] Excuse me, I have to go vomit.
Anche questa scena, se non mi sbaglio, è diversa nel libro (p. 280: I’m sick of Ron at the moment).
Insomma, mi sembra non ci sia dubbio che il regista David Yates e lo sceneggiatore Steve Kloves insistano sulla corda del disgusto come espressione della disapprovazione morale. Tesi in cui non sono isolati, dal momento che è cara anche a Marc D. Hauser (The Moral Mind – che recensirò tra qualche settimana):
If empathy is the emotion most likely to cause us to approach others, disgust is the emotion most likely to cause us to flee. Unlike all other emotions, disgust is associated with exquisitely vivid triggers, perceptual devices for detection, and facial contortions. It is also the most powerful emotion against sin, especially in the domains of food and sex.
[…]
Humans with no pathology experience disgust in response to food, sexual behaviors, body deformities, contact with death and disease, and body products such as feces, vomit, and urine […]. Although there are cross-cultural and age differences in the conditions eliciting disgust, the facial expression – typically a wrinkling of the nose, gaping of the mouth and retraction of the upper lip – is highly recognizable and unique to our species. Together, these observations indicate that disgust emerges from a biological substrate that may be both unique to our species and unique among the emotions we experience.
Darwin defined disgust as “something revolting, primarily in relation to the sense of taste, as actually perceived or vividly imagined; and secondarily to anything which causes a similar feeling, through the sense of smell, touch and even eyesight.” Over a hundred years later, the psychologist Paul Rozin refined Darwin’s intuition, suggesting that there are different kind of disgust, with core disgust focused on oral ingestion and contamination: “Revulsion at the prospect of [oral] incorporation of an offensive object. The offensive objects are contaminants; that is, if they only briefly contact an acceptable food, they tend to render the food unacceptable.” What makes Rozin’s view especially interesting is that many of the things that elicit disgust are not only stomach-churning but morally repugnant. Thus, once we leave core disgust, we enter into a conception of the emotion that is symbolic, attaching itself to objects, people, or behaviors that are immoral. People who consume certain things or violate particolar social norms are, in some sense, disgusting. [pp. 213-214]
Quello che è curioso è che partecipi di questa associazione al disgusto l’amore romantico, quanto meno nel film. C’è una scena, veramente buffa, in cui Ron Weasley subisce gli effetti di una pozione d’amore, l’Amorttentia. Ci era stato spiegato, a lezione, che “Amortentia doesn’t really create love, of course. It is impossible to manufacture or imitate love. No, this will simply cause a powerful infatuation or obsession. […] When you have seen as much of life as I have, you will not underestimate the power of obsessive love …” (p. 177). E infatti, dapprima l’amore di Ron si riversa su Romilda Vane (che aveva confezionato la pozione), ma ben presto diventa ecumenico, non fa più distinzione di sesso e si rivolge persino agli oggetti inanimati.
In questo modo, J.K. Rowling prende le distanze dall’amore romantico. Anzi, suggerisce il rigetto dell’amore romantico, che per lei non è amore genuino ma infatuazione e ossessione. Nella tradizione romantica, invece, anche l’amore che scatta dalla scintilla di una pozione può essere amore reale, anzi l’unico vero amore, e la pozione è uno strumento del destino. Ne portano testimonianza i più grandi e disperati amanti della storia della musica, Tristano e Isotta (ne ho parlato molte volte, qui, qui, qui e anche qui).
Sui personaggi della saga di Harry Potter si abbatte invece il Liebesverbot di J.K. Rowling. E qui mi butto in un’interpretazione un po’ spericolata.
Harry e Hermione, in particolare, non si possono amare anche se sembrano fatti, a prima vista, l’uno per l’altra. E sembrano fatti l’uno per l’altra perché sono molto simili, quasi eguali: maghi dotati, i migliori del loro corso, entrambi predestinati. Eguali quintessenzialmente, al di là delle differenze superficiali. E proprio per questo non possono amarsi, per il tabù che vieta i rapporti tra consanguinei.
Vi faccio notare che l’identità di Harry e Hermione è rivelata dall’assonanza del loro stesso nome: sono la parte maschile e femminile di una stessa identica persona, come nel mito platonico del Convivio.
Certo, potreste obiettare, è tutto molto più banale: J.K. Rowling ha un problema narratologico. Alla fine della saga deve fare sposare tra loro i personaggi principali, e l’unica soluzione ammissibile è che Harry sposi Ginny e che Hermione sposi Ron. Ogni altra possibile combinazione è inammissibile. Va esclusa la doppia coppia omosessuale (Harry-Ron e Hermione-Ginny): è pur sempre narrativa (anche) per ragazzi. La coppia Ron-Ginny sarebbe incestuosa: questo, anzi, è un altro indizio che anche la coppia Harry-Hermione, che vi si rispecchia, sarebbe “incestuosa”. Di qui il continuo ritornare, nel film, delle tematiche del vomito e del disgusto. Se è ripugnante l’accoppiamento tra fratello e sorella, è mostruoso quello tra eguali di sesso opposto.
J.K. Rowling si allontana dunque, e molto, dalla tradizione platonica (o quanto meno dalla sua vulgata “romantica”, perché ho seri dubbi che Platone volesse veramente proporre una teoria dell’amore così bislacca, che fa dire da un comico!). L’amore nasce dalla diversità, dal riconoscimento della diversità. Cercarlo nell’identità e nell’assimilazione è una perversione, ed è perciò ripugnante. L’orrore. Come accade per le storie di vampiri, di cui ho già parlato soprattutto qui, ma anche qui e qui.