St. Vincent – Roma, Auditorium Parco della musica, 16 novembre 2014

St. Vincent l’avevo sentita – non conoscendo altro che quel disco in collaborazione – nella tournée con David Byrne, poco più di un anno fa: ne ho parlato qui.

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Nel frattempo ho sentito qualche cosa di più di St. Vincent, tra cui il recentissimo album omonimo. Ugualmente, l’impatto con il concerto dal vivo è stato abbastanza traumatizzante.

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Gentle Giant – Milano, Palalido, 4 gennaio 1973

Tra le molte possibili declinazioni del concetto di essere un loser (o, come traducono nei doppiaggi cinematografici e televisivi, uno sfigato) si potrebbe introdurre questa, a mo’ di compendio: non ho mai sentito dal vivo i Genesis, però ho sentito i Gentle Giant.

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Non che fossero poi malaccio, ma al confronto dei “grandi” del prog inglese, i Gentle Giant stavano nel peloton insieme agli Hatfield and the North cantati da Jonathan Coe in un suo romanzo (‘The Rotters’ Club – tradotto in Italia La banda dei brocchi – che è il titolo del secondo LP del gruppo).

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Stefano Bollani e Hamilton De Holanda – Roma, 16 luglio 2014

L’abbiamo evocato, Stefano Bollani, ed eccolo qua, insieme a Hamilton De Holanda, virtuoso di mandolino a 10 corde.

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Mandolino a 10 corde? Perché quante corde ha, di solito, un mandolino?

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Keith Jarrett – Roma, 11 luglio 2014 (e 5 novembre 1993)

Quando vado a un concerto e poi ne scrivo sul blog, la mia massima aspirazione sarebbe quello di parlare di musica. Non sempre è possibile, però, perché a volte gli aspetti extra-musicali prendono il sopravvento.

È successo, a mio parere, con il concerto di Keith Jarrett alla Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della musica di Roma l’11 luglio 2014, nell’ambito dell’ormai classica e meritoria rassegna Luglio suona bene.

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Quanto agli aspetti musicali, la sintesi più efficace l’ha fatta uno sconosciuto parlando con una sconosciuto, che ho sentito mentre uscivamo dalla sala: «Non è stato un concerto, è stata una sequenza di bis.»

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Un requiem tedesco – Spoleto, 12 luglio 1988

Non sono un grande frequentatore di occasioni mondane, eppure 26 anni fa ero lì, in piazza del Duomo a Spoleto, per il concerto di chiusura del Festival dei due mondi, insieme ad altre 7.000 persone. Era domenica 10 luglio 1988.

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Ero stato anche l’anno precedente, su invito di un amico e mentore più grande di me, e volentieri avevo accettato l’invito anche per quell’anno. C’era anche mia madre. Ci eravamo mossi con largo anticipo nel primo pomeriggio, lasciando agli altri nonni i bambini (avevano 5 e 3 anni non ancora compiuti, nitroglicerina pura). Rientrammo la sera stessa.

Per la cronaca musicale mi affido alla recensione di Landa Ketoff su la Repubblica:

FINALE CON BRAHMS

SPOLETO
Sembrava che la festa spoletina non potesse concludersi con i soliti fantasmagorici fuochi, invece anche questo rito si è compiuto per la gioia dei cittadini e dei turisti, chiudendo in bellezza un’ edizione del Festival dei Due Mondi che si farà ricordare per alcuni spettacoli assai pregevoli come, per la musica, l’ opera Jenufa di Janacek, e per il gran numero di presenze: più di 101 mila spettatori per 81 produzioni con 187 rappresentazioni.
Il primo Festival del quarto decennio è dunque riuscito finalmente a superare la soglia delle centomila presenze, mostrando ancora una volta la vitalità della propria formula. E gli applausi che gli oltre settemila spettatori del Concerto in Piazza hanno rivolto a Giancarlo Menotti affacciato a una finestra della sua casa che domina la piazza erano profondamente sentiti e grati.
È questo un festival che, nonostante il proliferare delle manifestazioni estive in tutta la penisola, rimane unico, per la varietà e originalità delle proposte e per la capacità che ha di immergere chiunque si trovi in città in qualunque giorno in un bagno di spettacoli di ogni genere che iniziano alle 10.00 di mattina e terminano quasi alle due di notte giustapposti e in parte sovrapposti in modo da offrire un’ ampia possibilità di scelta. È un festival che riesce ad essere insieme elitario e popolare e che, stando alle cifre, non è neppure tra i più costosi (7 miliardi di spesa e 1 miliardo di incassi), quando sappiamo di altri festival che si avvicinano a questa cifra offrendo solo quattro o cinque produzioni e con incassi minimi.
Il più popolare tra i vari momenti del Festival è certamente il concerto finale nella piazza del Duomo. Un rito al quale hanno partecipato oltre settemila persone stipate nella piazza trasformata in enorme auditorio, davanti all’ immensa conchiglia in cui domenica avevano preso posto la Spoleto Festival Orchestra, il Coro Filarmonico di Colonia formato da circa 150 elementi, i due solisti (il soprano Maria Spacagna e il baritono Victor von Halem), l’ organista Paolo Carignani e il direttore Kenneth Montgomery.
Come è quasi sempre accaduto e in fondo questo rito lo esige è stata scelta un’ opera sinfonico-corale, il Requiem tedesco di Brahms (sebbene la scelta iniziale fosse la Missa Solemnis di Beethoven, poi sostituita per motivi legati alla diretta della Rai).
Meno grandioso della Messa beethoveniana, il Requiem brahmsiano non ha un carattere liturgico ma è un’ esortazione rivolta all’umanità di qualsiasi fede (e non è un caso che non vi si nomini mai il Cristo) a riflettere sulla morte. Di proposito vi mancano accenti tragici e scoppi di gioia, ma vi si avverte piuttosto l’ invito a una serena accettazione di un destino comune. Scritto in tempi diversi fra il 1857 e il 1868, il Requiem è costruito su un libero adattamento di testi biblici scelti da Brahms stesso. Lungo tutto il pezzo predomina il coro, mentre i solisti, che pure hanno un ruolo determinante nel significato del lavoro, sono limitati a interventi del baritono nel terzo e nel sesto dei sette numeri che lo compongono, e del soprano nel quinto, aggiunto nel 1868 in memoria della madre dell’ autore. Splendida la parte strumentale, con un linguaggio ricco di contrappunto, mai magniloquente e privo di sentimentalismi ma tutto soffuso di tenerezza.
Una tenera elegia della quale Massimo Mila ebbe a dire, quando nel 1961 Thomas Schippers ne dette, sempre a Spoleto, un’ esecuzione memorabile: «Se la musica avesse nella cultura il posto che le spetta, questo capolavoro verrebbe citato accanto alle opere di Proust e di Joyce, di Freud, di Kafka, di Musil e di Thomas Mann, come un documento fondamentale della crisi dell’ anima moderna da cui esce la civiltà contemporanea.»
L’ interpretazione che domenica ne ha dato Kenneth Montgomery è stata decorosa anche se non memorabile. I tempi sono parsi un po’ troppo lenti specialmente nella prima parte, e tutto l’ insieme un po’ monotono. Anche il coro, che pure è assai buono, non aveva quell’ incisività che si richiede nel Requiem brahmsiano. Molto bravo il soprano, l’ italo-americana Maria Spacagna, dalla voce chiara e pura, e bravo anche Victor von Halem, già apprezzato, senza microfoni e al chiuso, nella Petite Messe rossiniana.
Pubblico nell’insieme soddisfatto, il concerto in piazza è più uno spettacolo che un vero concerto.

Per quello che ricordo, avevo trovato la musica tutt’altro che straordinaria. Da pochi anni (mi pare fosse il 1983) un Giuseppe Sinopoli non ancora quarantenne si era rivelato al mondo con una sua incisione del Requiem tedesco profondamente innovativa e vigorosa. Al confronto, questa di Spoleto mi era sembrata enervata.

Ricordo piuttosto la straordinaria scenografia del concerto. Il palco è situato davanti al portico del Duomo e circondato da una grande (e bellissima) conchiglia di legno per migliorare l’acustica (non mi pare che ci fosse amplificazione, nonostante l’affermazione difforme di Landa Ketoff, e a differenza di quanto ormai accade surrettiziamente in molte sale, anche di grande reputazione).

Il concerto inizia all’imbrunire, direi alle 19:00. Fa ancora un caldo brutale (il termometro aveva raggiunto i 32 °C nel pomeriggio). Siamo stipati su seggiolette di paglia che riempiono la bella piazza in discesa, quasi un teatro naturale. Stormi di piccioni e voli di rondoni riempiono con i loro gridi la piazza, a volte sommergendo la musica.

Molte le signore in abito da sera. Davanti a me un’ampia schiena femminile quasi nuda. Durante tutto il concerto, molte zanzare si avvicendano su quelle belle spalle e tra le scapole per un banchetto ininterrotto. A tratti sono due o tre contemporaneamente. La signora, una vera signora (non certo la moglie di un politico o di un palazzinaro, ma probabilmente una discendente della danese principessa del pisello), non ha mai mosso una mano per scacciarle. Non ha nemmeno mai contratto i muscoli delle spalle, neppure involontariamente. Ne ho sinceramente ammirato l’eleganza e l’autocontrollo.

Sicuramente il Concerto in piazza è un’occasione mondana anche per l’alta società dei culicidi:

– Allora, che mi dici?
– Straordinario. Mi aspettavo molto, ma è stato al di sopra di tutte le mie aspettative. Squisitezze. E poi, non quelle porzioncine da nouvelle cuisine …
– Sai, dipende tutto dalla tracciabilità della filiera. Non è mica sangue qualunque o, peggio, roba d’importazione. Qui la qualità è controllata. Sono le grandi razze italiane: la piemontese, la chianina, la bufala campana. E non stiamo certo parlando di vacche …
– Sì, ma non è solo quello. Anche l’apparecchiatura è raffinatissima. E tutto il contorno. Un posto di gran classe.
– Allora, spero di vederti l’anno prossimo.
– Certamente, all’anno prossimo. E se non potrò venire io, verranno le mie figlie: corro subito a deporre le uova.
– Vedrai come cresceranno belle e sane, dopo questa scorpacciata.

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Emerson, Lake & Palmer – Milano, 4 maggio 1973

Era molto tempo che non li ascoltavo. Eppure ci fu un periodo, neppure brevissimo, in cui sembrava che Emerson, Lake & Palmer fossero l’epitome del progressive. Quanto meno, a giudizio della maggioranza e (soprattutto, per quanto mi riguarda) dei conduttori di Per voi giovani, che accompagnavano da anni i miei pomeriggi di studio («Ma come fai con la radio accesa?» era una domanda ricorrente, ma anche a distanza di decenni mi sembra che la cosa funzionasse egregiamente).

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All’epoca (inizio 1973) penso fossero il napoletano Raffaele Cascone (il «Raffaele è contento / non ha fatto il soldato / ma ha girato e conosce la gente / […] /Raffaele è contento / non si è mai laureato / ma ha studiato e guarisce la gente / e mi dice: stai attento / che ti fanno fuori dal gioco /se non hai niente da offrire al mercato» della canzone Venderò cantata da Edoardo Bennato ma scritta dal fratello Eugenio), il romano Carlo Massarini (il secondo da sinistra nella foto sopra; il primo da sinistra è – se non sbaglio – Paolo Giaccio e il terzo è Mario Luzzatto Fegiz), il milanese Massimo Villa (che veniva dal Liceo scientifico Vittorio Veneto come gli Stormy Six) e il novarese Riccardo Bertoncelli (quello reso immortale dall’Avvelenata di Guccini).

A onor del vero, il mondo del prog era diviso in fazioni rivali e nella stessa Per voi giovani c’erano i tifosi del gruppo concorrente, gli Yes che avevano anch’essi un punto di forza in un tastierista, Rick Wakeman…

Il concerto del 4 maggio 1973 lo ricordo ancora abbastanza bene. Si teneva al mitico Velodromo Vigorelli. Gli ELP erano al massimo della loro popolarità ed eravamo tantissimi. Faceva abbastanza caldo, per essere l’inizio di maggio.

Ricordo un concerto lungo e sontuoso, con il tradizionale accoltellamento finale dell’organo Hammond da parte di Keith Emerson. La setlist (secondo gli specialisti di setlist.fm) fu questa:

  1. Tarkus
  2. Karn Evil 9: 1st Impression, Part 2
  3. Jeremy Bender
  4. The Sheriff
  5. Take a Pebble
  6. Still… You Turn Me On
  7. Lucky Man
  8. Piano Improvisation
  9. Hoedown (da Aaron Copland)
  10. Pictures at an Exhibition (da Modest Petrovič Musorgskij)
  11. Toccata (da Alberto Ginastera)
  12. Rondo (da Wolfgang Amadeus Mozart, via Dave Brubeck)

Il gruppo di sostegno, che aprì il concerto, fu la Premiata Forneria Marconi, da poco passata alla scuderia Manticore degli ELP.

Il tour era quello di Trilogy, ma gli ELP eseguirono anche un brano da Brain Salad Surgery (Karn Evil 9: 1st Impression, Part 2), il nuovo album che sarebbe stato pubblicato soltanto 6 mesi più tardi, il 19 novembre 1973.

Per me, e per molti della mia generazione, la copertina di Brain Salad Surgery, con la sua necrofilia e il suo sottile riferimento osceno, fu il primo incontro con il genio di Hans Rudolf Giger (scomparso poche settimane fa, il 12 maggio 2014), molti anni prima di Alien.

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The Rolling Stones – 8 aprile 1967

Poco più di un mese dopo il concerto di The Who (di cui ho raccontato qui) arrivarono al Palalido The Rolling Stones. Due concerti, uno il pomeriggio e uno la sera. Prezzo del biglietto, mi pare, mille lire. Poco più del prezzo di un 45 giri. Una cifra che potevo permettermi senza dover chiedere ai genitori. Quindi, consapevole del fatto che difficilmente mi avrebbero dato il permesso (facevo la IV ginnasio) e per evitare qualunque discussione sui pericoli per la morale, la salute e l’incolumità personale che il concerto comportava (anche se i Rolling Stones, benché famosissimi come l’alternativa al dominio dei Beatles, non erano ancora accompagnati dalla fama maledetta che li avrebbe seguiti dopo Altamont) ci andai di nascosto, come l’altra volta.

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Tori Amos – 2 giugno 2014 (e 19 aprile 1994)

Sono passati più di 20 anni dalla prima (e fino a oggi unica) volta che sono stato a un concerto di Tori Amos.

La Tori Amos del 1994 era una ragazza americana del sud (OK: del sud degli Stati Uniti), non molto alta (1,58 ci informa il web) ma con una grande presenza scenica. Dava l’impressione di sapere fare tutto, con il suo pianoforte (un Bösendorfer che aveva già cominciato a portarsi in giro per il mondo), e molto con la sua voce. Suonava di traverso, girata verso il pubblico, e ci si poteva immaginare che fosse un’abitudine presa girando per piccoli locali pieni di fumo, dove la gente giocava e beveva ascoltando la musica solo distrattamente. Ma forse era soltanto un vezzo. Era bellissima, e molto sexy. La foto qui sotto è del 1996, un paio d’anni dopo il concerto romano, ma vi potete fare un’idea abbastanza fedele.

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Caetano Veloso – Roma, Auditorium di via della Conciliazione – 7 maggio 2014

Come vi avevo preannunciato, ci sono poi andato, al concerto di Caetano Veloso.

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Un tempo ero un frequentatore abituale dell’Auditorium di via della Conciliazione: vi si svolgevano le stagioni sinfonica e cameristica dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia fino al trasferimento al nuovo Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano poco più di 10 anni fa.

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Claudio Lolli – Roma, Auditorium Parco della musica, Teatro studio – 6 aprile 2014

Una splendida, calda serata romana di primavera. Un lungo viaggio in macchina addolcito da un traffico meno frenetico del solito (salvo che per l’infernale semaforo di Piazzale delle Belle Arti). Una brezza leggera e gli stridii dei primi rondoni. Una falce di luna in una leggera foschia. Il teatro è pieno, ma il posto vicino a me è vuoto.

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Tutto sembra più che propizio all’ascolto di un cantautore che ho molto amato, ma non ho mai sentito del vivo.

Poi, l’incubo. Le luci si sono già spente e si sta esibendo Simone Avincola. La pedana di legno sotto i miei piedi comincia a tremare, poi l’intera fila di poltroncine. Il pensiero corre per un attimo al terremoto (è tutto il giorno che la radio ci ricorda L’Aquila). No, è semplicemente un gigante, un orco, un minotauro, che si lascia cadere sul posto accanto al mio.

Arrivano i musicisti, Nicola Alesini e Paolo Capodacqua: una scossa. Entra Claudio Lolli, con il suo passo esitante e la sua schiena curva: un sobbalzo seguito da una sorda vibrazione. Comincia la musica: Shrek batte il piede provocando un effetto analogo a quello dei passi del T. rex nel bicchiere d’acqua in Jurassic Park. Lolli racconta, è sommesso e teneramente ironico: ma il minotauro lo trova di una comicità irresistibile, esplode in un riso squassante che fa scricchiolare l’impiantito.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Non so come dirlo: più il concerto gli piaceva, più il mio vicino lievitava. Come nella vecchia sigla di Blob, una massa informe di velluto a costine si gonfiava, lievitava, strabordava, tracimava oltre i braccioli della poltroncina. Mi sentivo come la Polonia, le mie paludose pianure diventate il Lebensraum altrui.

In queste condizioni, in questo spazio sempre più angusto, avrei potuto godermi il concerto? Bell’esempio di domanda retorica. Ovviamente no. Ovviamente tutte le aspettative sono andate deluse, o quantomeno sono state ridimensionate. E dire che Claudio Lolli, per me (ne ho parlato molte volte, qui qui e qui, ad esempio) è inseparabile dal 1977, quando Radio Città Futura e Radio Onda Rossa ce lo riproponevano ossessivamente).

Claudio Lolli stesso non ha aiutato: è ancora un simpatico entertainer, ironico al punto giusto. Ma non canta più, recita. Una via di mezzo tra lo Sprachgesang schönberghiano e il crooner americano, con qualche strascinamento delle iniziali (ma senza l’affettazione di Attilio Scarpellini). E poi non aiuta – lo so che non è politically correct prendersela con l’aspetto fisico di una persona – che ormai Claudio Lolli sembri il gemello separato alla nascita del Riff Raff di Rocky Horror Picture Show.

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A parte gli scherzi, è stato un bel concerto e Claudio Lolli, con i suoi bravissimi musicisti, ha eseguito molte delle canzoni più belle del suo repertorio.

Tra cui ricordo queste (senza pretesa di metterle in ordine o di documentare una setlist):

  • Borghesia (l’ultimo bis, per la verità)
  • Quello che mi resta
  • Quando la morte avrà
  • Donna di fiume
  • Primo maggio di festa
  • Anna di Francia
  • Ho visto anche degli zingari felici
  • Analfabetizzazione
  • Incubo Numero Zero (disoccupate le strade dai sogni)
  • Adriatico
  • I musicisti di Ciampi
  • Folkstudio

Ma una almeno ve la devo far sentire, no? Analfabetizzazione!