29 febbraio – Balthus

Come è facile immaginare, gli eventi riconducibili alla data di oggi sono relativamente scarsi: approssimativamente, del 25% più scarsi di quelli di un qualsiasi altro giorno.

Il 29 febbraio 1908, cioè 100 anni fa esatti, nasce Balthasar Kłossowski de Rola, noto con il nome d’arte di Balthus. Il padre, Erich, è uno storico dell’arte. La madre, Elisabeth Dorothea Spiro (nota come Baladine Klossowska) è amica e musa ispiratrice di Rainer Maria Rilke (i Klossowski, di antica nobiltà polacca, si trasferiscono a Berlino al divampare della Grande guerra). Il fratello, Pierre, è uno scrittore e teologo.

Tra il 1961 e il 1977 Balthus ha abitato a Roma, dove ha diretto l’Accademia francese di Villa Medici. Ai suoi funerali nel febbraio 2001, alla presenza di numerose personalità (tra cui il presidente francese ed Henri Cartier-Bresson) ha cantato Bono degli U2.

L’arte di Balthus, ispirata ai pittori pre-rinascimentali, ma anche a Delvaux, Magritte e De Chirico, ha suscitato molte polemiche per i contenuti esplicitamente erotici e perversi (le sue bambine impuberi hanno più che un tocco di pedofilia, anche se Balthus ha sempre respinto ogni accusa). Già una delle sue prime opere, la Lezione di chitarra del 1934 suscitò scandalo.

Il suo quadro forse più famoso, esposto al Metropolitan di New York, è il Nudo davanti allo specchio.

Perversi o no, non c’è dubbio che i quadri di Balthus siano belli e trasmettano una sottile, perturbante (unheimlich) inquietudine.

Bisestile

Sostanzialmente, un anno con un giorno in più; quindi, di 366 giorni invece di 365.

Il problema che l’anno bisestile cerca di risolvere è questo: il nostro “anno civile” (cioè, quello su cui basiamo il modo in cui contiamo i giorni sul calendario) è sostanzialmente un anno solare o tropico, cioè basato sull’intervallo di tempo che il sole, nel suo moto apparente intorno alla terra, impiega a tornare nello stesso punto dell’eclittica. Per semplificarci la vita, possiamo dire il tempo che intercorre tra equinozio ed equinozio. Anzi, spieghiamolo così: avrete notato, guardando da un posto fisso a casa vostra e prendendo un punto di riferimento, che il sole non tramonta sempre nella stessa posizione (ho scelto il tramonto per non costringervi a levatacce). Sicuro, il sole tramonta sempre a ovest, ma d’estate tramonta più a nord-ovest e d’inverno più a sud-ovest. Per l’esattezza, a partire dal solstizio d’inverno (che è il giorno in cui tramonta apparentemente più a sud-ovest – intorno al 21 dicembre e in cui il giorno è più breve e la notte più lunga) il punto del tramonto si sposta ogni giorno un po’ più a nord-ovest, dapprima lentamente (ogni giorno un entecchia) e poi sempre più veloce, fino a raggiungere il massimo della velocità di spostamento all’equinozio (contestualmente, le giornate si allungano, dapprima lentamente, poi sempre più velocemente: di sicuro l’avete notato in questi giorni). Dopo l’equinozio (intorno al 21 marzo – è il giorno in cui notte e giorno durano entrambi 12 ore, e questo è il significato della parola equi-nozio, la notte dura come il giorno), il punto del tramonto continua a spostarsi a nord-ovest, ma sempre più lentamente, fino a raggiungere il massimo al solstizio d’estate (intorno al 21 giugno). Sempre più lentamente, tanto che il sole sembra fermarsi (quanto a punto del tramonto – il sole sembra “restare” sul posto del tramonto: sol-stizio, cioè stasi del sole). Dopodiché, il ciclo si ripete al contrario: il punto del tramonto ricomincia a spostarsi verso sud-ovest, dapprima lentamente, poi sempre più velocemente (fino all’equinozio autunnale – intorno al 21 settembre), e poi di nuovo rallentando fino al 21 dicembre. Allora: un ciclo intero, da solstizio a solstizio, è un anno tropico.

Un anno tropico medio dura 365,2422 giorni (cioè 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi). Ma il nostro calendario civile non può tenere conto delle frazioni di giorno. Occorre trovare un modo per tenere conto di quelle 5 ore e 48 minuti. Se non lo facessimo, accumuleremmo circa un giorno di ritardo ogni 4 anni, 25 giorni di ritardo ogni secolo (quasi un mese). Un casino per le stagioni!

Un momento, un giorno ogni 4 anni, hai detto? Allora è semplice, basta aggiungere un giorno ogni 4 anni,! Questa fu la soluzione proposta da Sosigene di Alessandria (non quella mandrogna di Baudolino e Umberto Eco, quella d’Egitto), che nel 46 BCE era stato incaricato da Giulio Cesare di riformare il calendario. In questo modo, introducendo un anno bisestile ogni 4, l’anno civile diventa in media lungo 365,25 giorni, con una differenza di 11’14” rispetto all’anno tropico.

I Romani aggiungevano il giorno in più dopo il 24 febbraio, che essi chiamavano sexto die ante Kalendas Martias (sesto giorno prima delle Calende di marzo); il giorno aggiuntivo si chiamava bis sexto die (sesto giorno ripetuto) da cui l’aggettivo “bisestile”.

Dato che in 1600 anni l’errore di 11 minuti era stato sufficiente a spostare le stagioni di una quindicina di giorni, e soprattutto il giorno della pasqua (la prima domenica dopo il plenilunio di primavera), la riforma gregoriana del calendario (1582) cambiò la regola stabilendo che non fossero bisestili gli anni secolari (cioè quelli che finiscono per -00), se non quelli divisibili per 400 (quindi il 1900 non è stato bisestile, ma il 2000 sì).

Fine del tour de force. Ma perché «anno bisesto, anno funesto»?

Ho una teoria. In realtà, un problema molto più complesso di quello visto finora è quello della conciliazione tra anno solare e anno lunare. L’anno lunare è la somma di dodici mesi lunari o sinodici, cioè l’intervallo di tempo tra due lune piene. Poiché il mese sinodico medio dura 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 3 secondi, l’anno lunare è di 354 giorni, 9 ore e 48 minuti.

Gli antichi si accorsero presto della coincidenza: dopo 12 lune il ciclo delle stagioni (che dipende dall’anno solare) si ripete. C’è dunque un’armonia, pensarono, tra sole e luna. Ma, ahimè, l’armonia non è perfetta. Come fare? Diverse culture proposero diverse soluzioni, da quella di lasciar perdere l’anno solare e concentrasi su quello lunare (come fanno gli islamici), all’introduzione di correttivi (come nell’anno ebraico, in quello celtico e in quello cinese), alla nostra soluzione che conserva i 12 mesi ma li svincola dalle lunazioni. Una soluzione particolarmente interessante è quella di aggiungere alla fine dell’anno, al di fuori dei 12 mesi lunari, quegli 11 giorni che servono a completare l’anno solare.

Sono giorni speciali, perché sono al di fuori dell’armonia tra sole e luna, tra principio maschile e principio femminile. Sono i 12 giorni di natale, in cui possono nascere creature straordinarie, non necessariamente benigne.

Anche il 29 febbraio è un giorno speciale, al di fuori del ciclo ordinario. Frutto di un artificio, e dunque contro natura. Per estensione o per contagio, è speciale tutto l’anno: «anno bisesto, anno funesto».

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Etica

Nell’accezione più comune, il “complesso delle norme morali e di comportamento proprie di un individuo, di un gruppo o di un’epoca: etica quattrocentesca, etica cattolica“. In senso più tecnico, la “parte della filosofia che studia la condotta morale dell’uomo e i criteri per valutarla: etica edonistica, etica kantiana” (De Mauro online).

Particolarmente interessante l’etimologia. La parola viene direttamente dal greco ἦθος (abitudine, uso, consuetudine, condotta, morale, costume, carattere, indole), che a sua volta viene dal sanscrito sva-dhà (con lo stesso significato). Qui viene il bello, perché sva-dhà è una parola composta: dhà vuol dire “porre” (è la radice di tema), mentre sva (in cui la s- iniziale a volte cade) significa “sé/suo” (latino eius, inglese self). Quindi è etico qualcosa che è posto come proprio, profondamente radicato in noi, per consuetudine o convinzione.

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Onda su onda

Canzoni che mi piacciono, e che mi mettono di buon umore. O almeno mi permettono di galleggiare.

Bruno Lauzi (1974). La canzone (ma chi non lo sa?) è di Paolo Conte.

Che notte buia che c’è
povero me, povero me
Che acqua gelida qua
nessuno più mi salverà
Son caduto dalla nave, son caduto
mentre a bordo c’era il ballo

Onda su onda
il mare mi porterà
alla deriva
in balia di una sorte bizzarra e cattiva
onda su onda
mi sto allontanando ormai,
la nave una lucciola persa nel blu
mai più mi salverò.

Sara, ti sei accorta?
Tu stai danzando insieme a lui
con gli occhi chiusi ti stringi a lui
Sara, ma non importa!

Stupenda l’isola è
il clima dolce intorno a me
ci sono palme e bambù
un luogo pieno di virtù

Steso al sole ad asciugarmi
il corpo e il viso
guardo in faccia il paradiso

Onda su onda
il mare mi ha portato qui,
ritmi canzoni, donne di sogno,
banane, lamponi
onda su onda
mi sono ambientato ormai
il naufragio mi ha dato la felicità che tu,
non mi sai dar

Onda su onda

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Proverbi pessimisti (8)

Ad malora.

Non l’ho inventato io, me lo ha suggerito l’impagabile correttore ortografico di MS Word quando ho digitato “ad majora”.

My Fair Lady

My Fair Lady, 1964, di George Cukor, con Audrey Hepburn e Rex Harrison.

OK, tutto quello che volete. Sfarzo, musica, cura dei particolari (Cecil Beaton), grande recitazione (a me è piaciuto moltissimo, tra i comprimari, Stanley Holloway che interpreta Alfie Doolittle). Broadway al cinema. Posso persino ammettere che, come film di natale, meglio questo che Parenti o Vanzina. Ma non è il mio genere di intrattenimento. 3 ore di noia punteggiate di qualche dialogo riuscito.

La mia scena preferita (“C’mon, Dover! Move your bloomin’ arse” gridato da Audrey Hepburn al cavallo su cui ha scommesso all’inaugurazione di Ascot) non la posso incorporare, quindi dovete andarvela a vedere qui.

Consolatevi con il trailer originale. Io trovo già noiosi questi 5 minuti!

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The Evolution Man – Quel che potrebbe dire Binetti a Veronesi

Lewis, Roy (1960). The Evolution Man. Or, How I Ate My Father. New York: Vintage. 1994.

Questo libro ha una storia strana. Fu originariamente pubblicato nel 1960, sul mercato britannico (Lewis era un giornalista dell’Economist e del Times) con il titolo What We Did to Father. La traduzione italiana di Adelphi del 1992 (Il più grande uomo scimmia del Pleistocene) fu un successo clamoroso (siamo ormai alla 23° edizione nella collana Fabula e alla 9° nella collana gli Adelphi). Ripubblicato nel Regno Unito con un nuovo titolo nel 1968 (Once Upon an Ice Age), dovette attendere il 1994 per l’edizione americana, che è quella che ho letto io.

È un libro di culto, ma anche di nicchia (è intorno al 180.000 posto nella classifica di Amazon). Più apprezzato in Italia che in patria. Come l’ho trovato? Leggero, ma non stupido. A tratti esilarante, anche se – a mio parere – niente di comparabile con Douglas Adams (ne abbiamo parlato su questo blog in 2 occasioni, qui e qui) cui qualcuno l’ha incautamente comparato.

Uno dei miei personaggi preferiti è lo zio Vanya, il portavoce della conservazione. E una sua osservazione mi sembra l’epitome di tutti i conservatorismi, e una bella definizione sintetica della differenza tra progressisti e conservatori:

You call it progress, I call it disobedience (p. 58).

Lo potrebbe dire Paola Binetti a Umberto Veronesi.

Proverbi pessimisti (7)

Al colon non si comanda.

Stanislaw Lem – L’indagine del tenente Gregory

Lem, Stanislaw (1959). L’indagine del tenente Gregory. Torino: Bollati Boringhieri. 2007.

Perché tradurre dopo 48 anni un romanzo di Stanislaw Lem (Lem è un grandissimo scrittore di fantascienza polacco: basti per tutti Solaris, un bellissimo di film di Tarkovsky e un discreto remake di Soderbergh)? Perché spacciarlo per “l’appassionante giallo di un maestro della fantascienza”?

Non è un giallo. Non è appassionante. È  ben scritto e angoscioso. Ma non si capisce dove vuol andare a parare. Penso che sia un racconto filosofico, ma un po’ la filosofia mi sfugge. Il passaggio più rivelatore (ma non per questo perspicuo) mi sembra questo:

– Ma se cosl non fosse? Se non ci fosse nulla da imitare? Se il mondo non fosse un rompicapo da risolvere, ma solo un calderone in cui nuotano alla rinfusa pezzi sparsi che, di tanto in tanto e per puro caso, si aggregano in un insieme? Se tutto ciò che esiste è frammentario, incompleto e abortito, gli eventi possono an­che essere la fine di qualcosa senza il suo inizio, o la sua parte cen­trale, o solo il suo principio, o solo la sua fine … mentre noi conti­nuiamo a suddividerli, selezionarli e ricostruirli finché ci pare di avere messo insieme un amore completo, un tradimento completo o una sconfitta completa … mentre in realtà siamo solo frammenti ca­suali. Le nostre facce e i nostri destini sono un puro frutto della sta­tistica, siamo la risultante dei moti browniani, gli uomini sono ab­bozzi incompiuti, progetti buttati giù e lasciati a metà. Perfezione, completezza, eccellenza non sono che rare eccezioni dovute all’i­naudita, incredibile sovrabbondanza dell’esistente! L’immensità del mondo, la sua incalcolabile molteplicità regolano la banalità quoti­diana colmando in apparenza brecce e lacune, mentre la mente, per sopravvivere, scopre e associa frammenti sparsi. Usiamo la religione e la filosofia come un collante con cui aggregare e tenere insieme frattaglie statistiche sparse, per conferire loro un senso unitario e farle suonare all’unisono come una campana celebrante la nostra gloria! E invece sotto a tutto questo non c’è che il famoso caldero­ne … L’ordine matematico del mondo è la nostra preghiera alla pira­mide del caos. Siamo circondati da brandelli di vita privi di signifi­cato, che noi etichettiamo come «eccezionali» perché non vogliamo vedere! Di vero non c’è che la statistica. L’uomo razionale è l’uomo statistico. Prendiamo un bambino: sarà bello o brutto? Gli piacerà la musica? Si ammalerà di cancro? Tutto viene deciso da un lancio di dadi. La statistica presiede al nostro concepimento, è lei a sorteg­giare il coagulo dei geni da cui si svilupperà il nostro corpo, lei a estrarre a sorte la morte di cui moriremo. Ma se è la normale inci­denza statistica a decidere l’incontro con la donna che amerò e la durata della mia vita, perché non potrebbe decidere anche della mia immortalità? Non può essere che, di tanto in tanto, per puro caso, a qualcuno tocchi in sorte l’immortalità, come ad altri toccano in sor­te la bellezza o l’infermità? Se non esistono processi prestabiliti, se disperazione, bellezza, gioia e bruttezza sono frutti della statisti­ca … allora anche il nostro sapere è fatto di statistica: esiste solo il gioco cieco, un’eterna combinazione di schemi fortuiti. L’infinito numero delle Cose deride la nostra passione per l’Ordine. Cercate e troverete: purché abbiate cercato con il dovuto fervore, finirete sempre col trovare: la statistica non esclude nulla, la statistica rende tutto possibile, tutt’al più si tratterà di cose più o meno probabili. La storia, invece, è il realizzarsi dei moti browniani, la danza stati­stica di particelle che non cessano di sognare un altro mondo ter­reno …
– Forse anche Dio esiste solo di tanto in tanto? – disse sottovoce l’ispettore capo. Chino in avanti, la faccia nascosta, ascoltava quel­lo che Gregory tirava fuori a fatica senza osare guardarlo.
– Forse – rispose Gregory con indifferenza. – Ma le interruzioni nella sua esistenza si protraggono piuttosto a lungo.
Si alzò, si avvicinò alla parete e fissò senza vederla una delle fo­tografie.
– Forse anche noi … – cominciò, esitando – anche noi esistiamo solo in modo sporadico. Nel senso che a volte esistiamo con minore intensità, certe altre ci dissolviamo e non ci siamo quasi per niente. Poi, reintegrando con uno scatto improvviso il brulichio scompagi­nato della memoria torniamo a esistere per lo spazio di un giorno …

Edoardo Nesi – L’età dell’oro

Nesi, Edoardo (2004). L’età dell’oro. Milano: Bompiani. 2006.

L'età dell'oro

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“Sarà l’acqua? Sarà l’aria? Sarà il caffè?”, diceva una pubblicità di qualche anno fa. Qui mi riferisco a Prato: che cosa ci sarà a Prato che ha generato due scrittori interessanti come Sandro Veronesi (in questo momento inflazionato, ma non è tutta colpa sua) ed Edoardo Nesi?

Non avevo letto nulla di lui. L’ho incontrato per caso, guardando il documentario di Daniele Vicari Il mio paese. Nel capitolo pratese, Nesi ci fa vedere gli ambienti (le case principesche, le fabbriche vuote) in cui è ambientato il suo romanzo, e ne legge qualche pagina. Io l’ho cercato – confesso – prevalentemente per motivi professionali. Mi aspettavo una specie di docu-fiction.

Invece è un romanzo vero, potente. Nesi ha grande capacità di scrittura, sa muoversi tra i registri (volta per volta, comico, lirico, epico). Soprattutto, Ivo il Barrocciai è un personaggio grandioso, a tutto tondo, che straborda dalla pagina nella sua vivacità e nella sua vitalità, nel suo amore per la vita. Bigger than life. Un Leopold Bloom pratese, ma anche un personaggio della commedia all’italiana della migliore qualità, rabelesiano nella sua viva volgarità. Ugo Tognazzi, se fosse toscano (e se fosse vivo), ne sarebbe l’interprete perfetto.

Sotto il profilo documentaristico, è un romanzo vero più di tante analisi economiche e sociologiche. Prato è còlta nella sua grandiosità e nella sua piccineria. Còlta anche nelle sue antiche radici ghibelline e “volgari” (i fiorentini non ammettevano corporativamente i pratesi neppure nelle industrie tessili “nobili”, e meno che mai nelle loro case), nella sua grandiosa cialtroneria, nella capacità d’inventarsi occasioni di guadagno e di successo, ma anche nell’incapacità di uscire dalla materialità del produrre. In questo, il romanzo di Nesi ci insegna del “declino” italiano più di tanti libri d’economia e di sociologia.

Ivo il Barrocciai è eterno, ma muore. Forse anche il nostro povero paese.

PS: Nesi è il traduttore di Infinite Jest di David Foster Wallace. Tanto di cappello.

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