Quello che ho da dire io – che mi sono imbattuto la prima volta nei Pink Floyd con See Emily Play nel 1967 e che ho comprato tutti i loro dischi, compresi un po’ di bootleg e di oscure stranezze) fino a The Final Cut (e per la verità anche A Momentary Lapse of Reason e The Division Bell) – sono soltanto due cose, una sulla musica e una sullo spettacolo. Leggi il seguito di questo post »
In questi giorni di caldo canicolare (emergenza caldo, Caronte et similia) molti quotidiani, almeno qui a Roma, hanno dato notizia di un piano di distribuzione di bottigliette d’acqua minerale nella stazioni della metropolitana capitolina, a cura dell’Atac (la locale azienda dei trasporti pubblici locali).
huffpost.com
Per non essere accusato di partigianeria, e secondo la mia abitudine di andare alla fonte (cosa quanto mai opportuna quando si parla d’acqua) riporto la notizia dal sito dell’Atac (25 Luglio 2013 – ore: 18:06):
Ho scritto di recente di aver assistito soltanto 2 volte a concerti dei King Crimson, nel 2000, nella formazione Fripp-Belew-Gunn-Mastellotto. Ma non sono state certo quelle le uniche occasioni in cui ho potuto sentire suonare dal vivo Robert Fripp. In questo post e in uno successivo vorrei testimoniare delle 2 volte che – a distanza di 15 anni – l’ho sentito suonare con la sua League of Crafty Guitarists.
Questo è uno di quei post che una persona saggia e matura non scriverebbe mai. Ma io ho la maturità di un bambino di 3 anni ed eccomi qui a scrivere di una cosa soltanto perché sono contento di averla: ma non mi basta tenermela tutta per me e quindi lo devo sbandierare ai 4 venti. Forse anche, ma appena appena un po’, per farvi schiattare d’invidia.
Ho ricevuto in regalo un Raspberry Pi. Che cos’è? È un computerino, piccolo ma potente, progettato nel Regno Unito a fini didattici. Costa pochissimo (tipicamente 35$). Grande grosso modo come una carta di credito, ha tutto quello che deve avere: un processore ARM11 a 700 MHz, 512 mega di RAM, 2 porte USB, una porta mini-USB per l’alimentazione, un lettore di schede SD per la memoria di massa, uscite audio e video, incluso un’uscita ad alta risoluzione HDMI. Leggi il seguito di questo post »
Wilson, G. Willow (2012). Alif the Unseen. London: Corvus. 2012. ISBN 9780857895684. Pagine 448. 3,90 €
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Se questo non fosse un blog ma, che ne so, una rubrica letteraria su un giornale, avrei probabilmente la categoria della “rivelazione dell’anno” e Alif the Unseen meriterebbe il primo posto. Il romanzo non è un capolavoro in assoluto, e non è nemmeno privo di difetti, ma è sicuramente molto originale, soprattutto per l’amalgama di elementi che vi sono ben mescolati. Leggi il seguito di questo post »
In una tiepida domenica sera di maggio, in una pausa di un lavoro che mi aveva impegnato per settimane senza pause nemmeno nei week-end e che avrebbe continuato a impegnarmi ancora per una quindicina di giorni, lo stacco di questo gioiello di concerto, cui sono andato, ancora una volta, con mio figlio. Auditorium Parco della musica, sala Santa Cecilia, Roma.
Il jazz, almeno per me, è stata una conquista lenta e graduale, una manovra d’accerchiamento a tenaglia, partita da un lato dal rock (via il Miles Davis della prima metà degli anni Settanta, per capirsi, e i Weather Report), dall’altro dal blues (via Il popolo del blues di LeRoj Jones – poi islamizzatosi come Amiri Baraka – e il blues-rock degli inglesi, tutti figli dei Bluesbreakers di John Mayall). Ornette Coleman, in questa metafora, è stata una delle roccaforti espugnate da ultimo: ho e ho molto amato e amo tuttora la coppia di album del 1996 Sound Museum, Hidden Men e Three Women, in cui Coleman e il suo gruppo eseguono le stesse 13 composizioni del nostro, ma in diverse versioni. Una coppia fondamentale – a parer mio – per capire il significato profondo dell’improvvisazione nel jazz. Di seguito, la doppia recensione di Scott Yanow su allrovi.com:
Hidden Men. For this project, altoist Ornette Coleman made one of his very few recordings with a pianist. On a vacation from his electrified Prime Time group, the innovative saxophonist (who also plays a bit of trumpet and his percussive violin) teams up with a purely acoustic trio (pianist Geri Allen, bassist Charnett Moffett and drummer Denardo Coleman) to perform 13 of his originals, plus the traditional “What A Friend We Have In Jesus.” Most unusual is that another CD released at the same time (Three Women) has different versions of the exact same Coleman originals (plus one other song). Ornette Coleman shows throughout that he had not mellowed with age, and his concise yet adventurous improvisations (which are full of pure melody) are quite intriguing.
Three Women. In 1996, altoist Ornette Coleman simultaneously released a pair of 14-song CDs; 13 of his pieces are heard in different versions on both releases. Joined by a particularly stimulating rhythm section (pianist Geri Allen, bassist Charnett Moffett and drummer Denardo Coleman), Coleman (who also contributes some trumpet and violin) is in superior form throughout the performances. On “Don’t You Know By Now” (the one tune that is only heard on this CD), Lauren Kinhan and Chris Walker take passionate vocals. Otherwise, this is an excellent showcase for Ornette’s searching and emotional (yet melodic) improvisations, one of the very few occasions since 1958 when he can be heard using a conventional three-piece rhythm section.
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Un Ornette Coleman (in parte/ben) diverso quello di quasi 10 anni dopo. Intanto, sempre un quartetto, ma non il classico quartetto jazz (come era quello di Sound Museum) in cui il solista è accompagnato da pianoforte, basso e batteria; ma un quartetto anomalo, con 2 contrabbassi (uno pizzicato e uno suonato con l’archetto) e una percussione (il figlio Denardo, che compare anche in Sound Museum). E poi – lasciatemi essere frivolo – non avevo alcuna idea del modo di vestire di Coleman: per me era puro suono e andava bene così. Invece il 75enne Coleman, all’apparenza fragile e un po’ traballante sulle gambe, si è presentato vestito, se non proprio così, nello stile documentato dalla foto qui sotto:
sentireascoltare.com
Ma appena ha cominciato a suonare tutta l’attenzione, di tutte le persone presenti nella sala grande dell’Auditorium di Renzo Piano a Roma, si è concentrata sulla musica, compattissima, mai banale. Noi eravamo molto avanti, sulla destra. Vedevamo molto bene la concentrazione di Ornette Coleman, il suo affiatamento con il trio, i suoi rari cenni con il capo o con lo strumento. L’unico rammarico, che abbia suonato così poco.
Non sono riuscito a trovare molta documentazione in rete su questo concerto, ma l’album Sound Grammar (il primo in 10 anni, dopo Sound Museum – appunto – cui il titolo si riconnette), registrato dal vivo in Germania nell’ottobre del 2005 con il medesimo quartetto, dovrebbe darvi un’idea abbastanza precisa della musica che abbiamo sentito noi quella sera. Provo a ricostruirlo per voi:
Sound Grammar was recorded in Germany in front of a live audience in October of 2005 with his new quartet — Greg Cohen (bass), Denardo Coleman (drums and percussion), Tony Falanga (bass), and Ornette (alto, violin, trumpet) — it’s the first “new” product from Coleman in ten years. That said, with the exception of “Song X,” the last song on the program, the other five tunes are new, seemingly written just for this band. The use of two bassists here is not only a rhythmic consideration, but a sonorous one. Cohen picks his bass, while Falanga bows his. This heavy bottom and full middle, as it were, leave room for Denardo to interact with his father. While one can make somewhat logical comparisons to Coleman’s At the “Golden Circle” in Stockholm recordings on Blue Note from four decades ago with Charles Moffett and David Izenzon, these are only logistical. This time out, Coleman’s band is rooted deeply in modal blues — check the slow yet intense “Sleep Talking.” The intensity level is there but it’s far from overwhelming, since this band plays together as one. Nothing is wasted, either in the heads of these pieces or in the solos. This band plays together literally as one, no matter what’s happening. Listen to the interplay between the basses on “Turnaround,” as Coleman finds his unique place in blowing the blues and melding harmolodically with his instantly identifiable lyric sound. As all these sounds blend together, they become, in their order to one another, grammar. And each member finds a unique place in the conversation in this ordered sonic universe.
The playfulness in “Matador” is infectious as the entire band walks through a sideways version of “Mexican Hat Dance” along with the sound of the crowd at a bullfight. As the work unfolds, it becomes clear that the struggle of species, blood, and passion is taking place in the ring of death and victory. The work ends back on the theme, with the crowd cheering (one assumes the matador won?). The rhythmic/melodic approach to improvising and timekeeping the bassists take is one of close listening, and carrying Coleman’s harmolodic theory to its most beautiful and lyrical extreme. The place the blues inhabit in this working order is a special one, as Coleman is able to engage them at any time, pull them out, speak from them, and turn them inside out with his own linguistic and playfully melodic method of playing. This is no less so when he pulls out his trumpet, as he does on “Jordan,” with the hardest-driving rhythmic setting of the disc. This also happens on “Call to Duty,” where Coleman once again plays both instruments. The bassists push one another incessantly here — and Cohen with this rhythmic attack can push any musician to his best performance — while Denardo steps back and folds into the middle; he actually allows Ornette to slow time down somehow, no matter the pace. The deep blues are expressed in Falanga’s solo in “Once Only,” as he plays a doleful melodic line and moves off from it in bits and pieces. The violin comes out again in a ten-and-a-half-minute “Song X,” which closes the concert. The playing is out and edgy, but never goes to the extremes it once did, in part due to Falanga’s ability to create harmolodic counterpoint and pace Coleman’s solo on the instrument into a great lyric context. Sound Grammar is one of those records that makes the listener realize just how much Ornette Coleman means to jazz, and how much he is missed as he releases something new only once a decade.
Infine, 2 bonus. Primo, la presentazione del concerto che ne fece all’epoca l’ufficio-stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma:
Musica per Roma presenta: Ornette Coleman Ornette Coleman Quartet
Ornette Coleman sassofono
Tony Falanga contrabbasso
Greg Cohen contrabbasso
Denardo Coleman percussioni
Ornette Coleman è uno dei più grandi sassofonisti viventi. All’inizio della sua carriera, a ventinove anni, incise “The shape of jazz to Come” (“La forma del jazz che verrà”): poteva sembrare una forma di arroganza giovanile ma non lo era. Quel titolo fu profetico. Pochi come lui sono stati in grado di modificare completamente il nostro modo di sentire la musica. Coleman ha indicato al mondo una nuova strada: le sue idee musicali sono state controverse ma oggi il contributo innovativo è riconosciuto in tutto il mondo. Nato a Fort Worth in Texas nel 1930, ha cominciato da solo a suonare il sassofono. Suo padre morì quando aveva sette anni, sua madre lavorò sodo per comprargli il primo sassofono a quattordici anni. Un anno dopo formò la sua prima band e cominciò la ricerca di un suono che esprimesse la realtà come lui la percepiva. “Potevo suonare Charlie Parker nota per nota ma stavo solo riproducendo qualcosa. Così ho cominciato a cercare la mia strada”. A causa della segregazione razziale e della povertà in cui viveva a diciannove anni partì per Los Angeles. Ma negli anni ’50 a Los Angeles le sue idee musicali controverse non gli permettevano di tenere frequenti concerti. Ciò nonostante riuscì a circondarsi d’una serie di musicisti che condividevano le sue idee: Don Cherry, Bobby Bradford, Ed Blackwell e Blilly Higgins, e Charlie Haden. Nel 1958 l’uscita del suo primo album “Something else” rese immediatamente chiaro che Coleman aveva inaugurato una nuova era del jazz. L’energia e l’elettricità che il sassofonista aveva costruito insieme ai suoi musicisti, esplose durante la leggendaria stagione in cui Coleman suonò al Five Spot Jazz club di New York nel novembre del ’59. La sua musica era priva delle convenzioni prevalenti sull’armonia, il ritmo, la melodia e Coleman per definirla la chiamò Harmolodic. Dal 1959 fino a tutti gli anni ’60, Coleman realizzò più di cinquanta dischi considerati classici del jazz. Negli anni ’70 il sassofonista viaggiò attraverso il Marocco e la Nigeria suonando con i musicisti locali e nel 1975 costituì un nuovo ensemble chiamato Prime Time. Negli anni ’90 Coleman realizzò anche le colonne sonore dei film “Il pasto nudo” e “Philadelphia”. Nel 1997 il New York City Lincoln Center presentò la musica di Ornette Coleman in tutte le sue forme nell’arco di quattro giorni, incluso il concerto con la New York Philarmonic Orchestra diretta da Kurt Masur, “Skies of America”.
“Oggi, che non è più possibile inventare nulla, la sua musica viaggia su lidi più sicuri, non può fare scandalo, perché nulla più fa scandalo, ma nel suo modo di improvvisare c’è, intatto, quel senso di mobilità costante, quel modo di essere stabilmente oltre l’ovvio, il segno nobile del genio, del guerriero che, anche quando riposa, preserva la dignità dell’avventura”. Con queste parole Gino Castaldo presentava sulle pagine del “TrovaRoma” de “La Repubblica” il concerto che si sarebbe tenuto l’8 maggio 2005 all’Auditorium: di scena, l’Ornette Coleman Quartet.
Il noto sassofonista texano, padre di una delle correnti più rivoluzionarie e controverse della musica afroamericana, il free jazz, si è presentato al Parco della Musica con il suo altrettanto straordinario, quanto atipico e “libero” quartetto. Un sassofono, Ornette Coleman, due contrabbassi, Tony Falanga e Greg Cohen, una batteria, Denardo Coleman. Una formazione dalla struttura quantomeno particolare, in cui i due contrabbassi procedevano l’uno archettato (Falanga), l’altro pizzicato (Cohen), mentre la batteria dissertava amabilmente con il sax del leader, colorando la scena in modo ricco e brillante, con matura proprietà d’idee. Ornette Coleman, in questo modo, era libero di dettare il suo passo con il sax contralto, con il violino e con la tromba. Le parole di Gino Castaldo, infatti, sono una sorta di manifesto culturale della musica odierna di Ornette, il quale, benché faccia meno scalpore di una volta e i critici di jazz, almeno quanto gli appassionati tradizionalisti, si siano ormai abituati e non storcano più il naso davanti alla sua arte e al suo genio, continua a suonare il “suo” free jazz. Un free particolare, un free argilloso e magmatico, che caratterizza qualsiasi brano da lui interpretato, rendendolo unico ed inimitabile.
Su brani malinconici, aperti spesso dal contrabbasso “archettato” di Falanga, una sorta di violoncello a (quasi) tutti gli effetti, il sax di Ornette fluttua mieloso, ma di quel miele selvatico ed amaro. L’interplay del quartetto prevede che il leader funga da motore trainante, ma allo stesso tempo la loro compatta intesa evidenzia un’atmosfera scostante e lacunosa.
Si tratta di un concerto a 4 voci. Ma quattro voci in “libertà condizionata”. Dal sax del leader escono spesso suoni convulsi e il gruppo interpreta ciò come l’avvio di un motore a reazione, suonando in contrappunto, creando melodie-armonie parallele, suonando contro, suonando appresso, suonando per il leader, di modo che il fraseggio che parte dal suo strumento coinvolga a reazione l’intero ensemble.
Altrettanto spesso, poi, Ornette intervalla linee di sax alto con interventi di tromba, inserendo nello spettro sonoro del quartetto anche il suono squillante dell’ottone. Se volessimo azzardare una metafora, la sua musica assomiglierebbe ad una conserva con tanti “pezzettoni”, una conserva densa e coesa, costituita da molti ingredienti, sapori e odori diversi, ma decisamente ben amalgamata.
Su brani più concitati e dal ritmo nervoso meglio si può cogliere la tecnica espressiva di Ornette Coleman e del suo quartetto. Spesso Ornette ripete una cadenza, un pattern, una frase tipica del suo vocabolario espressivo, una “frasetta blues” accattivante, una sorta di piccola ancora all’interno del mare musicale da lui creato. Quando, invece, passa al violino, un violino amplificato, la musica si trasforma, assume un quid di zigano, di balcanico, che ricorda le evoluzioni di Bregovic.
Ma con Coleman i paragoni stanno a zero: tutto viene “harmolodicizzato”, da “harmolodic”, parola con cui Ornette quasi subito definì la sua musica, totalmente priva di convenzioni armoniche, ritmiche e melodiche, ma basata su un armonia-melodia parallela e alternativa, detta appunto “armolodia”. All’orecchio “nuovo” di quasi tutti i suoi primi ascoltatori la sensazione fu – e spesso rimase – un crogiuolo di suoni allo stato puro, senza alcuna relazione con l’armonia e la melodia. E in massima parte è così, l’unica cosa da aggiungere è l’aggettivo “convenzionale” ai sostantivi “armonia” e “melodia”.
Spesso poi i suoi primi ascoltatori non apprezzarono molto questo “magma sonoro”, oggi, invece, ogni volta che si esibisce, il pubblico va in delirio. Un delirio spesso derivato dai picchi espressivi particolarmente ostici tecnicamente raggiunti da Ornette o dagli assoli/intermezzi caleidoscopici, scatenati, euforici di Denardo Coleman, figlio ormai totalmente emancipato dalla pesante eredità paterna, in grado di affrontare il repertorio e la concezione armolodica del padre con la consapevolezza, la grazia e l’eleganza espressiva di un maturo jazzman colemaniano.
Su brani più delicati, come le ballad, vivo è l’amore di Ornette per le cadenze blues, che rendono maggiormente intenso, sentito, simbolico ed evocativo il suo fluttuare in “liberi pensieri”. Tali pensieri partono di solito per la tangente così la musica si affolla di immagini sonore dai cromatismi magici e cangianti.
Questa delicatezza espressiva si contrappone però all’irruenza di altri brani, mossi invece da corse e rincorse fra leader e ritmica, con pause, blocchi, sbalzi, scatti improvvisi e frasi magicamente all’unisono. Pratica questa non certo facile in un contesto free. Immaginate la scena: ognuno suona delle linee rapide, in contrappunto, l’una contro l’altra, l’una per l’altra; all’improvviso, ci si ferma; neanche un gesto, l’intesa è cerebrale; una veloce frase all’unisono; poi si riparte, divisi e liberi. Spettacolare.
In questo clima di “libertà condizionata”, come l’ho chiamata, Ornette passa senza problemi da sax a tromba e viceversa, per brevi intermezzi di ottone per poi riprendere il sax e continuare con un similare fraseggio energico, irruente, straripante, scomposto, spesso rotto da una frase blues. Sempre la stessa. Un pattern. Un breve riff. Tutto questo adagiato sul tappeto sonoro variabile, coeso e denso della ritmica, ove il contrabbasso di Falanga fraseggia sotto l’impeto dell’archetto, il contrabbasso di Cohen avanza in pizzicato con colpi cadenzati su un registro medio-alto, spesso – quando il ritmo cambia – in walking bass swing, e la batteria di Denardo Coleman sfrigola delicatamente sullo sfondo.
Altro che ritmica, melodia e armonia convenzionale, qui “appaiono” solo 4 voci, legate certamente da un’armolodia alternativa, ma anche da un dialogo costante e continuo senza “apparenti” regole, se non quelle conversazionali, di griceana memoria, o semplicemente quelle del bon-ton estetico-linguistico, di guida per una giusta conversazione.
Tra i tanti brani anche un calypso (Long Time No See), caratterizzato da uno splendido e articolato assolo del contrabbasso/violoncello. Un calypso free, spigoloso, suonato dal leader sia con il sax sia con la tromba, mantenendo sempre un blowing, un soffio deciso, irruente, ritmico e colorato. Il contrabbasso è lamentoso sotto il pungolo dell’archetto, il suo fraseggio è sofferto, romantico e arioso. Si apre per poi chiudersi su se stesso, con lente frasi prima ascendenti e poi inesorabilmente discendenti. Il contrabbasso pizzicato dapprima procede tamburellando, in seguito puntella arioso la scena sonora. Qui il sax, coadiuvato dal timing preciso e colorato della batteria, è più lirico e anche leggermente più melodico e narrativo.
Ornette Coleman e il suo quartetto, però, oltre a suonare con il contagiri, suonano anche con il contagocce. Permettetemi questo piccolo, innocuo screzio da innamorato: è passata poco più di un’ora e già i quattro abbandonano il palco per ritornarvi solo per due bis. Si sa che i concerti free jazz non possono durare molto, vista l’intensità con cui i musicisti suonano e il pubblico ascolta, ma Ornette ne deve essere consapevole: l’amore è ingordo!
Su un tappeto delicato e morbido, eppur a tratti agitato e frastagliato, il sax del leader si staglia con un fraseggio deciso, intenso, tenue e sentito. Su Turnaround, poi, suonato non in maniera lineare, concitata e tipicamente blues, ma confusa, scostante, “melmosa”, la ritmica si “adagia” – si fa per dire – su un tappeto sonoro multicolorato, multiritmico, multisfaccettato, multistriato, multistoriato. Una musica guizzante, animata e sgusciante.
La batteria “cicaleggia”, il contrabbasso con il suo omologo suonato a violoncello si integra perfettamente e Ornette vola come un novello Icaro vincente, senza avvicinarsi mai troppo al sole caldo costituito dalla ritmica. L’atmosfera – per concludere – è decisamente da jazz club, un po’ per l’atteggiamento, le movenze, l’abito dei musicisti – Ornette sfoggia un cappello anni ’50 che gli nasconde la faccia quando si china sullo strumento – un po’ per questo sound frastagliato, confuso, ambiguo, in una parola free.
Con le dovute differenze, sembra di rivivere il clima della leggendaria stagione in cui Ornette Coleman suonò al Five Spot Jazz Club di New York nel novembre del 1959. Non so dire perché, ma l’immaginò così: con quelle luci soffuse, con il pubblico che a bassa voce si scambia opinioni, impressioni, stupore, meraviglia davanti al genio di quest’artista così rivoluzionario da non essere apprezzato e capito subito, se non dagli addetti ai lavori, da quei musicisti che condivisero le sue idee, circondandolo d’affetto e ammirazione e collaborando con lui.
Mi riferisco a Don Cherry, Billy Higgins, Charlie Haden e molti altri… Grazie a tutti voi e grazie ad Ornette e al suo nuovo quartetto free! Marco Maimeri
Istvan, Zoltan (2013). The Transhumanist Wager. SL: Futurity Imagine Media LLC. 2013. ISBN 9780988616110. Pagine 300. 0,99 $
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A me non era mai successo prima: sono stato invitato a leggere questo libro dal suo autore. Non mi era mai successo prima, ma nel frattempo mi è già successo una seconda volta. Immagino che diventerà sempre più frequente ed è un effetto del famoso web 2.0 e dei social network. Questo, tanto per contraddire quelli che pontificano (a partire, ahimè, da Umberto Eco) che internet non si è inventato nulla che non ci fosse già prima, e che al massimo è una questione di scala. Può anche essere, ma in tal caso neppure quella di Gutenberg sarebbe stata una rivoluzione: e invece lo è stata, e una rivoluzione pervasiva, per di più: basta vedere che cosa ne scrive Steven Pinker nel 4° capitolo (The Humanitarian Revolution) del suo The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined (ne ho parlato anche qui):
The growth of writing and literacy strikes me as the best candidate for an exogenous change that helped set off the Humanitarian Revolution.
[…]
Reading is a technology for perspective-taking. When someone else’s thoughts are in your head, you are observing the world from that person’s vantage point. Not only are you taking in sights and sounds that you could not experience firsthand, but you have stepped inside that person’s mind and are temporarily sharing his or her attitudes and reactions. [posizione Kindle 3830-3839]
Del resto, del passaggio quantità → qualità mi sembra ne avesse già scritto Hegel nella sua Scienza della logica …
Ma torniamo all’invito. Il 6 maggio 2013, su Goodreads, ho ricevuto questo messaggio:
Hi Boris, I found you through a review you made on Nexus. The reason I’m writing is I recently published a revolutionary novel, The Transhumanist Wager. It’s a philosophical science-fiction thriller. Reviewers are calling it “an instant cult classic” and the book has the power galvanize a new generation of readers.
I’m a former National Geographic war journalist, and if you’re interested in a bold and rebellious novel, especially one that promotes science and technology, this book will give you much to ponder and cheer about. There’s a daring, twisted love story too.
You can find out more about the novel and purchase it on Amazon ($0.99 for ebook (SALE today) / $7.28 for paperback): http://www.amazon.com/The-Transhumani…
Feel free to friend me or ask any questions if you like.
Thanks and cheers, Zoltan
Incuriosito, e dato il prezzo ridicolo (anche se Amazon mi ha sgridato per essere passato temporaneamente su amazon.com per godere dello sconto), ho comprato il libro, e l’ho scritto all’autore, che a sua volta mi ha risposto. Ecco lo scambio di messaggi:
Bought your book. I’ll let you know what I think and possibly post a review when I’ve read it. But don’t hold your breath, as I am reading other things at present.
Best
Boris
Hi Boris,
Thanks for buying my book. I hope you enjoy it when you get around to reading it. Thanks again, Zoltan
Fine della storia. Penserete, come ho pensato anch’io, che Zoltan è una persona gentile e cordiale, anche se un po’ sboronespaccone(«I recently published a revolutionary novel»).
A leggere il romanzo, trasparentemente autobiografico, stiamo invece parlando – temo – di un pericoloso fanatico.
singularityweblog.zippykid.netdna-cdn.com
Partiamo dall’autobiografia del nostro, tratteggiata sul suo sito:
At the age of 21, Zoltan began a solo, multi-year sail journey around the world. His main cargo was 500 handpicked books, mostly classics. He’s explored over 100 countries—many as an investigative journalist for the National Geographic Channel—writing, filming, and appearing in dozens of webcasts, articles, and television stories. His work has also been featured by The New York Times Syndicate, Outside, San Francisco Chronicle, Sail, BBC Radio, NBC, CBS, ABC, FOX, Animal Planet, and the Travel Channel. In addition to his award-winning coverage of the war in Kashmir, he gained worldwide attention for inventing and popularizing the extreme sport of volcano boarding. Zoltan later became a director for the international conservation group WildAid, working with armed patrol units to stop the billion-dollar illegal wildlife trade in Southeast Asia. Back in the States he started various successful businesses, from real estate development to filmmaking to viticulture, joining them under ZI Ventures.
He is a philosophy and religious studies graduate of Columbia University and resides in San Francisco with his daughter and his physician wife. Zoltan recently published The Transhumanist Wager, a visionary novel describing apatheist Jethro Knights and his unwavering quest for immortality via science and technology.
Inutile dire che il protagonista del romanzo, Jethro Knights, si laurea all’università, fa il giro del mondo in una barca carica di libri che si è costruito da solo, lavora per il National Geographic, fa il corrispondente dal Kashmir e così via. Il che ti lascia con la sensazione che le idee dell’autore non siano poi così diverse da quelle, superomiste oltre che transumaniste, del protagonista del romanzo.
Il libro si regge, con qualche difficoltà, finché racconta le avventure del nostro Jethro/Zoltan. Ma diventa sinceramente inquietante quando ne espone, a volte con pipponi che durano decine di pagine, la Weltanschauung. Ho qualche simpatia per Kurzweil e le sue idee sulla singolarità, ma se transumanismo significa un individulismo che fa impallidire Ayn Rand «you can count me out», come diceva John Lennon. Non abbiamo proprio bisogno di un altro Mein Kampf.
* * *
Il romanzo è un tale minestrone, che non vi stupirete del guazzabuglio di spunti interessanti e luoghi comuni che ci si possono trovare. Ve ne metto un idiosincratico florilegio (riferimenti alla posizione Kindle):
The rotunda was silent for a long time after Jethro stopped speaking. In those moments every person believed in the speech’s common sense, in the potential of transhumanism, in modifying and improving the landscape of traditional human experience. The logic was inescapable. But then—slowly—their minds, egos, and fears lumbered around to the immediate tasks facing them. They remembered about their need to be elected to office; about what their constituents would say; how their churches would cast judgment; how their mothers, spouses, and friends would react; how they would be viewed, tallied, and callously spit out in public. Finally, they remembered their own fears of the unknown. [631]
“[…] We might be stuck in some vortex where we’ve already died, and are reliving our lives in a nanosecond in some laboratory vat. Or more likely, a parallel universe where our greater minds have recreated all these realities using unknown quantum technology. Or maybe we’re just controlled experiments of super-intelligent aliens from one of the hundred billion galaxies in our universe that contain planets capable of supporting life. Or possibly we’re just dreaming and still asleep in bed. And one morning we’re going to wake up and be late for our job flipping hamburgers, or maybe running a country as its president. Or maybe fighting as a soldier in Kashmir.” [1354]
Progress, not control, is the prime motive. [2170]
“[…] I’m only human with how many hours I can dedicate to everyone and everything, you know.”
“Well, that’s power, Gregory. Get used to it.” [3253]
[…] formulize […] [3202: la parola, che io trovo orrenda e ho incontrato qui per la prima volta, è sinonimo di formulate (formulare), è presente nel Merriam-Webster ed è stata usata la prima volta nel 1842]
People, it seemed, even the scientists capable of making transhumanism succeed, simply wanted the world that Jethro spoke about to exist. They didn’t want to build it or fight for it; t; it was risky and far too much work. [3325]
“Their management and regulation of our lives spans the total spectrum of American experience, from their obtuse Imperial Measurement System, to their irregularity-strangled English language. From their lobbyist-ruled government bureaucracy, to their consumer-oriented religious holidays like Christmas. From their brainless professional sports jocks cast as heroes, to their anorexic supermodels warping the concept of beauty. These are the people who made sugary colas more important than water; fast food more important than health; television sitcoms more important than reading literature. They made smoking a joint in your home a crime; going out in public without your hair tinted an embarrassment; and accidentally carrying a half-filled bottle of baby formula on an airplane a terrorist act. Do you realize 85 percent of Americans still say ‘God bless you’ after someone sneezes? And that ‘In God We Trust’ is on every U.S. dollar in circulation? Or that ‘One nation under God’ is recited every day in the Pledge of Allegiance by millions of impressionable kids?
“From our first day alive on this planet, they began teaching society everything it knows and experiences. It was all brainwashing bullshit. Their trio of holy catechisms is: faith is more important than reason; inputs are more important than outcomes; hope is more important than reality. It was designed to choke your independent thinking and acting—to bring out the lowest common denominator in people—so that vast amounts of the general public would literally buy into the sponsorship and preservation of their hegemonic nation. Their greatest achievement was the creation of the two-party political system; it gave the illusion of choice, but never offered any change; it promised freedom, but only delivered more limits. In the end, you got stuck with two leading loser parties and not just one. It completed their trap of underhanded domination, and it worked masterfully. Look anywhere you go. America is a nation of submissive, dumbed-down, codependent, faith-minded zombies obsessed with celebrity gossip, buying unnecessary goods, and socializing without purpose on their electronic gadgets. The crazy thing is that people don’t even know it; they still think they’re free. Everywhere, people have been made into silent accomplices in the government’s twisted control game. In the end, there is no way out for anyone. [3745]
Gregory insisted again, his pink silk tie crooked. [4802: i cattivi portano sempre cravatte rosa]
Imagineade — the Transhumanian-brewed energy drink that induced creativity. [5415: OMG]
“[…] You’re an apatheist—one who doesn’t care to find out if he should know God.” [5848: OMG2]
Every time they accept anti-science laws instead of pro-science laws, every time they embrace restrictive religious attitudes instead of freethinking human enhancement attitudes, every time they pay for trillion-dollar wars abroad instead of funding trillion-dollar wars at home against cancer, heart disease, or old age, they are prematurely ending the lives of their fellow human beings. [5954: e a volte mi tocca pure essere quasi d’accordo]
“Throughout your lives and modern history, civilization has erroneously subscribed to the vision that the human being is a marvelous, ingeniously assembled specimen of life: a work of divine creation and sweeping beauty, whose culture and intellect is profound like the cosmos itself. What a joke. The cruel truth is we are a frail, hacked-together organism living within a global culture of irrationality, pettiness, and deception. [6650]
Compared to humans, rats have better noses for smelling. Pigeons have sharper eyes for seeing. Crocodiles can run faster. Earthworms can survive underwater longer. Cockroaches can survive far colder temperatures. Humans are only best at reasoning. Yet, computers can already beat the best of us in chess, math, and physics. [6753]
L’unica volta che sono stato a un concerto di Fabrizio De André, autore di cui ho amato soprattutto la versione world music ispirata dal grande Mauro Pagani. Lo devo confessare, e sarà una bestemmia per gli adoratori veri, quello del primo De André, e anche degli adoratori delle incarnazioni successive.
Il concerto era al Palasport di Roma, prima dei restauri e della trasformazione in Palalottomatica a cura di Massimiliano Fuksas. L’acustica, che non è buona neppure ora, era all’epoca assolutamente disastrosa.
Per di più, nella seconda parte del concerto, quando De André cominciò a cantare le canzoni più vecchie e più note, i ragazzini e le ragazzine intorno a me, che all’epoca di quelle canzoni non erano certamente ancora nati, cominciarono a cantarle in coro, coprendo del tutto la voce di Fabrizio e gli arrangiamenti (spesso molto belli, come potrete notare qui sotto).
pixogs.com/image
Bellissima la prima parte, dedicata a Le nuvole, l’album uscito l’anno prima, dominata dal polistrumentismo di Mauro Pagani, la sorpresa più bella della serata.
In ragione della pessima acustica (immagino) la serata non è documentata nei 2 CD dedicati alla tournée 1991 contenuti nel cofanetto (16 CD) I concerti ed è soltanto citata su viadelcampo.com. Si possono però tentativamente ricostruire – mutuandoli dagli altri concerti di quell’anno – la setlist e i musicisti in scena.
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Dal CD doppio Le nuvole, dedicato alla tournée 1991:
Le nuvole (F. De André | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Ottocento (F. De André | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Intermezzo musicale
Don Raffae’ (F. De André | M. Bubola | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Intermezzo musicale
La domenica delle salme (F. De André | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Andrea (F. De André | M. Bubola) – Milano, Arena Civica
Presentazione Indiano (parlato)
Hotel Supramonte (F. De André | M. Bubola) – Milano, Arena Civica
Se ti tagliassero a pezzetti (F. De André | M. Bubola) – Milano, Arena Civica
Fiume Sand Creek (F. De André | M. Bubola) – Milano, Arena Civica
Giugno ’73 (F. De André) – Milano, Arena Civica
Amico fragile (F. De André) – Milano, Arena Civica
Crêuza de mä (F. De André | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Jamin-á (F. De André | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Sidún (F. De André | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Gag accordatura (parlato)
La canzone di Marinella (F. De André) – Marostica, piazza degli Scacchi
La guerra di Piero (F. De André) – Marostica, piazza degli Scacchi
Bocca di rosa (F. De André | G.P. Reverberi) – Marostica, piazza degli Scacchi
‘Â çimma (F. De André | I. Fossati | M. Pagani) – Marostica, piazza degli Scacchi
Mégu Megún (F. De André | I. Fossati | M. Pagani) – Milano, Arena Civica
Presentazione band (parlato)
Presentazione ‘Â duménega (parlato)
‘Â duménega (F. De André | M. Pagani) – Marostica, piazza degli Scacchi
Presentazione Il gorilla (parlato)
Il gorilla (Le Gorille di G. Brassens), testo italiano di F. De André – Marostica, piazza degli Scacchi
Presentazione bis (parlato)
Don Raffae’ (bis) (F. De André | M. Bubola | M. Pagani) – Marostica, piazza degli Scacchi
Le nuvole (strumentale) (F. De André | M. Pagani) – Marostica, piazza degli Scacchi
Dalle note di copertina:
Questa di Pulcinella…
Prodotto da Fabrizio De André e Mauro Pagani
Registrato nel corso del 1991 a Genova, Novara, Torino, Albenga, La Spezia, e Pisa da Maurizio Camagna con lo Studio Mobile “White Mobile” di Amek & Vanis, assistenti Vanis Dondi, Sandro “Amek” Ferrari e Giuliana Righi. Mixato nello Studio Metropolis da Maurizio Camagna. Assistenti Celeste Frigo e Lorenzo Cazzaniga.
Suonato da:
Chitarre, bouzouki, mandolino e seconde voci: Michele Ascolese
Batteria: Ellade Bandini
Chitarre, bouzouki, mandolino, tastiere aggiunte e seconde voci: Giorgio Cordini
Chitarra: Fabrizio De André
Pianoforte, tastiere e fisarmonica: Gilberto Martellieri
Basso e seconde voci: Pier Michelatti
Percussioni e gabbiani: Naco
Violino, mandolino, flauto, kazoo, bouzouki, oud, ‘ndelele e seconde voci: Mauro Pagani
Flauto, sax soprano, clarinetto, ciaramella, zampogna e tastiere aggiunte: Giancarlo Parisi
Regia: Pepe Morgia – Amplificazione luci: Milano Music Service – Responsabile Tecnico: Giovanni Riccio Colucci – Direttore di produzione: Jimmy Pallas – Fonico di sala: Giancarlo Pierozzi – Fonico di palco: Vincenzo Cinone – Direttore di palco: Tony De Grandis – Assistenti di palco: Salvatore Iennaco e Alan Pink
Tour Management: Bruno Sconocchia per Cose di Musica – Direzione: Ester Paglia – Programmazione: Adele Di Palma – Organizzazione: Massimo Maggioni – Foto di: Giordano Morganti – Art Direction: Luigi Piola – I 2 falsi Magnasco riprodotti in copertina sono stati dipinti da Paolo D’Altan – Le foto del concerto di Spoleto sono di: Fotostudio Romagna
Ringraziamo la gente, il cielo sereno, i Local Promoters, tutti i tecnici, gli scarichini, i polacchi, che montavano il palco ed il “Gondone”, Franco Filocamo, Giovanna Pesella, gli attori ballerini Enzo e Fausto, e Bruno Sconocchia per non essere scappato con la cassa
Mauro Pagani appare per gentile concessione della Phonogram Italia
Per vostra fortuna il doppio CD è disponibile integralmente su YouTube:
Non sono un tifoso sfegatato di Antonia Byatt: ho letto Possession, naturalmente, che mi è piaciuto senza entusiasmarmi e soprattutto senza farmi venire la voglia di leggere altri suoi romanzi. Quando un paio d’anno fa mia moglie ha finito di leggere The Children’s Book e me l’ha raccomandato, non ho voluto seguire il suo consiglio, spaventato anche dalle quasi 900 pagine.
Ma anche se non sono un tifoso sfegatato di Antonia Byatt, sono comunque un wagneriano sfegatato, e una rilettura dei miti norreni non me la potevo lasciare scappare: perché il Ragnarok è il crepuscolo degli dei, non la quarta giornata dell’Anello del Nibelungo, ma proprio il crollo del Pantheon nordico.
Spiccano alcuni aspetti che mi sembrano però (per quel che poco che ne so) tipici dello stile, e prima ancora del modo di essere, di Antonia Byatt:
La sensibilità verso il modo infantile e, per quanto esile sia la figura della bambina magra, questo è un punto in comune con l’io narrante di The Ocean at the End of the Lane.
Un vocabolario ricchissimo e preciso, che mi pare essere una cifra (come direbbero i critici veri) della scrittora di Antonia Byatt. Anche se, a volte, i lunghi elenchi di piante, fiori, pesci, uccelli e creature varie sfocia decisamente nella tassonomia barocca.
Una grande attenzione ai temi dell’esaurimento delle risorse ambientali, tema molto insistito e ripreso nel capitolo finale (Thoughts on myth); tema che invece a me lascia freddissimo.
Un’originalissima lettura di Loki come dio della razionalità e dello studio del caos. Anch’io, come Antonia Byatt, adoro Loge/Loki da quando l’ho incontrato in Wagner e – pur sapendo che figlio di puttana sia – riconosco che in me convivono aspetti dell’uomo d’ordine Wotan, il mago legislatore e garante del buon funzionamento dell’universo, e aspetti dello sparigliatore Loge, il dio schumpeteriano della distruzione creativa.
* * *
Partiamo da un approfondimento della figura di Loki, come emerge dalle pagine di Antonia Byatt (consueti riferimenti alla posizione Kindle):
The gods needed him because he was clever, because he solved problems. When they needed to break bargains they had rashly made, mostly with giants, Loki showed them the way out. He was the god of endings. He provided resolutions for stories – if he chose to. The endings he made often led to more problems.
There are no altars to Loki, no standing stones, he had no cult. In myths he was the third of the trio, Odin, Hodur, Loki. In myths, the most important comes first of three. But in fairy tales, and folklore, where these three gods also play their parts, the rule of three is different; the important player is the third, the youngest son, Loki. [364-367]
[…] Loki her father whose form was hard to remember, even for her, since it changed subtly not only from day to day but from moment to moment. [519]
Odin had acquired knowledge in danger and pain, and at the cost of an eye. Odin’s knowledge was the knowledge of the forces that bound things together, and of the runes that read and controlled those forces.
[…]
Odin controlled magic, a form of knowledge that controlled things and creatures, including the societies of gods and men.
[…]
Loki was interested in things because he was interested in them, and in the way they were in the world, and worked in the world.
[…]
A sacrificed man was a cross, a simplified tree. A lung, a brain, was complexity run wild, an unholy mess in which a different kind of order might nevertheless be discerned [913-916-920-926]
As a child I had always sympathised with Loki, because he was a clever outsider. When I came to write this tale I realised that Loki was interested in Chaos – his stories contain flames and waterfalls, the formless things inside which chaos theorists perceive order inside disorder. He is interested in the order in destruction and the destruction in order. If I were writing an allegory he would be the detached scientific intelligence which could either save the earth or contribute to its rapid disintegration. [1311]
* * *
Qualche altra citazione:
[…] he had put the humans in their place and had told them to keep their place and not to eat the knowledge of good and evil. The thin child knew enough fairy stories to know that a prohibition in a story is only there to be broken. The first humans were fated to eat the apple. The dice were loaded against them. [183]
[…] out of sight and inside the head. [419: detto dei lupi del mito]
And the dwarves made a supple skein from unthings. There were six, woven together: the sound of a cat’s footfall, the beard of a woman, the roots of a mountain, the sinews of a bear, the breath of a fish and the spittle of a bird. The thing was light as air and smooth as silk, a long, delicate ribbon. [464]
The gods of Asgard were punished because they and their world were bad. Not clever enough, and bad. [999]
Courage became endurance, and soup was needed too much to be fed to the dying. [1031]
There are two ways, in stories, of winning battles – to be supremely strong, or to be a gallant forlorn hope. The Ases were neither. They were brave and tarnished. [1072]
[…] became ash amongst the falling ash. [1119: troppo facile, signora mia. Shame on you! Vergogna!]
The black thing in her brain and the dark water on the page were the same thing, a form of knowledge. This is how myths work. They are things, creatures, stories, inhabiting the mind. They cannot be explained and do not explain; they are neither creeds nor allegories. The black was now in the thin child’s head and was part of the way she took in every new thing she encountered. [1131]
[…] the black undifferentiated surface, under a black undifferentiated sky, at the end of things. [1188]
[…] Deryck Cooke, in his splendid study of Wagner’s Ring Cycle, I Saw the World End […] [1307: subito ordinato]
Pur amando smisuratamente i KC, soprattutto nelle loro incarnazioni più recenti (diciamo dalla svolta di Lark’s Tongues in Aspic in avanti) sono stato soltanto a 2 concerti, per di più nella stessa tournée. Cose che capitano, ma comunque una gran bella tournée e una grandissima formazione: Adrian Belew (chitarre e voce), Trey Gunn (chitarre, bassi e diavoleria varie), Pat Mastellotto (batteria elettronica) e naturalmente Robert Fripp (chitarre e frippertronics).
Al concerto del 4 giugno sono andato con mio figlio, all’epoca diciassettenne e contagiato dalla mia passione per il prog. Sapeva che ci sarebbe stata la data di Roma, ma sapeva anche che non sarebbe stato in città quella sera. Avevamo amici a Monaco di Baviera, e dunque ci andammo. Partimmo, naturalmente in seconda classe, con il leggendario Eurocity Michelangelo, che partiva da Roma Termini la mattina intorno alle 8 e arrivava a Monaco una decina di ore dopo, passando per il Brennero. Il concerto si teneva al Zirkus Krone, di cui all’epoca non sapevo la cosa più importante, e cioè che era in qualche modo collegato al tentativo di putsch hitleriano del 1923 e che nel 1944 Himmler vi aveva tenuto l’ultima commemorazione annuale dell’evento.
wikimedia.org/wikipedia/commons
Il circo, con un interno di legno a pianta centrale, aveva una bella acustica. Ricordo con emozione Heroes eseguita come bis, con Belew alla voce (che aveva accompagnato Bowie come chitarrista in una sua tournée italiana) e la chitarra di Fripp (che suona anche nell’originale di David Bowie). Questa versione è stata registrata a Londra nella stessa tournée (mi piace particolarmente Robert Fripp, quando è inquadrato, con quella serafica faccetta da Hannibal the Cannibal).
The World’s My Oyster Soup Kitchen Floor Wax Museum
FraKctured
VROOOM
One Time
Dinosaur
Improv
Cage
ProzaKc Blues
Larks’ Tongues in Aspic (Part IV)
Coda: I Have a Dream
Three of a Perfect Pair
Deception of the Thrush
Sex Sleep Eat Drink Dream
“Heroes” (David Bowie cover)
Tornammo il giorno successivo, con il medesimo treno, arrivando a Roma intorno alle 20, stanchi ma felicissimi. Sono tuttora orgoglioso e contento di aver fatto questa cosa con mio figlio.
Quindici giorni dopo però i KC erano a Roma. L’Auditorium era in costruzione da anni, i lavori erano stati interrotti per il ritrovamento di una villa romana che aveva costretto Renzo Piano a cambiare l’orientamento e la planimetria delle 3 sale. L’amministrazione comunale, per rabbonire il popolo affamato di musica, s’inventò la rassegna Musica in cantiere. Il concerto dei KC, comunque, non era gratuito. Benché la tournée dei King Crimson si chiamasse Heavy ConstruKction, l’idea di suonare in un cantiere non piacque per niente a Robert Fripp, che si incazzò con chi faceva le foto e terminò il concerto in anticipo. E si lamentò pubblicamente sul suo diario, scritto a caldo il 24 giugno 2003 alle 1:26 del mattino:
So, what of the performance?
The venue: unbuilt. A concrete amphitheatre in the middle of a building site. No running water.
By the time we were into TCOL (second piece after “Frying Pan”) I knew: the centre was hollow; the heart was undermined. This doesn’t mean that a show is necessarily wretched, or worth abandoning immediately. It does mean that, unless angels descend on chariots of fire and blow trumpets of goldin your ear, the best you can hope for is a professional & competent performance. Even, flashes of something more.
The other guys know that I don’t play “FraKctured” for photo sessions. Most sound checks we play it, and it’s getting to simmer gently. Last night the band asked me especially to play it and, with the centre of the performance established, I enjoyed doing so. Tonight, I made another call, even though Adrian needed a breathing space to deal with his guitar problems. Adrian dealt with those problems superbly, and ProjeKct Three burst into action on demand & in response to necessity.
One of my personal highlights of the evening: a juxtaposition of wonderment and delight. As Adrian cheerfully bounced into the litany of 20th century terrors (this is itself an astonishing contrast) I looked up during “Hiroshima! Aids disease! Terror! Misery! Death! Pain! Horror! Suffering!” to see an ice cream vendor (as in any cinema of my youth) walking up & down the seats with a glace in hand, touting for trade. And successfully so.
But, you can’t tell people what to do or how to behave. You can ask, even several times. And then, you respond to the particular conditions which develop when people affirm their rights to do whatever they want, wherever they want, whenever they want. So, in front of ongoing flashes, a feature of the entire evening, I regretfully abandoned the photo session before the final encores.
Un pippone dei suoi, d’accordo, ma secondo me – che c’ero – aveva ragioni da vendere.
Il concerto è documentato su YouTube:
E questi erano i KC quando erano fuori forma!
La setlist, almeno per la parte documentata dal video, dovrebbe essere questa (il riferimento è ai minuti e secondi del video):
00:00 FraKctured, Power To Believe, EleKtric, or Improv
08:05 Larks’ Tongues In Aspic IV
19:30 RF and Ade Announcement (No Photos Please)
20:22 Cage
26:20 The World’s My Oyster Soup Kitchen Floor Wax Museum