Asor Rosa – 13 aprile, la posta in gioco

Non condivido tutto, ma trovo molti spunti di interesse in questo articolo di Alberto Asor Rosa (sì, il palindromo del ’77) comparso su il manifesto di oggi, 31 marzo 2008.

I tre gravi rischi dell’anomalia Pd
Alberto Asor Rosa
All’inizio non ci volevo quasi credere, pensavo fosse uno scherzo. Come! Con una legge elettorale come quella che ci ritroviamo le due parti «storiche» del centro-sinistra si presentano al voto separate, scegliendo di andare incontro ad una quasi certa sconfitta?
Poi, con lentezza, ho capito che la scelta veltroniana andava al di là della scadenza elettorale attuale, guardava a una prospettiva diversa da quelle tradizionali, lanciava ponti in direzioni inconsuete. Insomma, era una scelta seria. Anzi, molto seria. Anzi, grave.
Non c’è molto spazio per motivarlo, ma io lo direi così. Il Pd – partito sostanzialmente di centro che non guarda a sinistra, intenzionato a presentarsi da sé e in sé come la soluzione del problema politico italiano e destinato perciò per propria natura a rinunciare ad un sistema preventivo di alleanze, esplicitamente percepito come un ostacolo alla propria autonoma manovra programmatica e politica – rappresenta un’anomalia non solo nella tradizione politica italiana ma in quella europea (se qualcuno è in grado di additarmene un esemplare analogo fra l’Atlantico e i confini della Russia, gliene sarei grato). Qualche elemento ispirativo se ne può ritrovare nel Partito democratico americano, tanto caro a Veltroni (e infatti il nome è lo stesso: nomen omen), anche se altri – per esempio, il confessionalismo spinto di certi suoi settori – nettamente divergono. E – potremmo dire ancora una volta: infatti – esso manifesta l’ambizione di ricondurre il bipolarismo italiano – che indubbiamente è all’origine, per la sua composizione eccessivamente molteplice, di molti degli inconvenienti del nostro sistema politico – ad un più sano e semplice bipartitismo. Per raggiungere questo obiettivo si tende fra l’altro a cancellare definitivamente dalla nostra carta politica qualsiasi presenza e sigla socialista: un’altra delle nostre più pesanti e innaturali anomalie.
L’abilità e la forza comunicativa, che indubbiamente caratterizzano il suo principale ispiratore e leader, Walter Veltroni, non celano però – se si esce per un istante dal clima (neanche tanto) agitato del confronto elettorale – alcuni gravi rischi strategici. Io ne vedo tre, che segnalo, perché forse, nell’immediato o in un lontano futuro, si troverà modo di correggerli.
Innanzitutto. Per avvalorare la tesi secondo cui il Pd era legittimato a fare da solo, Veltroni ha dovuto riconoscere il medesimo diritto al suo principale antagonista, il Popolo delle libertà, con il quale forma in duetto il futuro bipartitismo virtuoso. Così facendo, ha portato avanti, con atti e con parole che il suo concorrente ha subito ripreso, il processo di legittimazione di Silvio Berlusconi in persona all’interno del quadro politico-istituzionale italiano. Se viene meno la persuasione che la principale anomalia del sistema politico italiano – oltre che una grande vergogna nazionale – è la presenza nell’agone politico di uno come Berlusconi, tutto il quadro si corrompe e si offusca e in nome della «governabilità» (ricordate Craxi?) si possono compiere le peggiori turpitudini.
Dice: metà degli italiani lo vota. Gli italiani hanno votato anche Mussolini e i tedeschi Hitler. Insomma, il voto democratico non è sempre in grado di sanzionare – depurandole – le aberrazioni che si verificano in giro per il mondo: talvolta ne prende atto e le esalta. Non penso soprattutto, a dir la verità, alle ipotesi di Grosse Koalition, che pure da qualche parte si ventilano. Penso ad una caduta di tensione (quasi mi vergogno, dati i tempi, a definirla morale), che sembra caratterizzare l’attuale momento storico-politico (il fine giustifica i mezzi…). Basterebbe una buona, precisa e incontestabile presa di posizione nel merito per cancellare molti dubbi e preoccupazioni.
Esprimo in secondo luogo una convinzione ideal-politica, che per me ha valore pienamente strategico. Io sono persuaso che l’Italia possa essere decentemente governata (se non temessi l’enfasi, salvata) solo da quel complesso di forze che in Italia costituisce il centro-sinistra «storico» e che, per intenderci, va da Fanceschini a Migliore. Naturalmente, per motivare convenientemente questa convinzione, dovrei scrivere un libro. In mancanza del quale, accontentatevi dell’enunciazione: le particolari condizioni della storia italiana nel corso degli ultimi due secoli hanno sempre evidenziato l’imprescindibilità di questa alleanza ai fini del destino nazionale (e anche di ognuno dei principali protagonisti che lo compongono e lo determinano). Ancor più oggi: a me pare cioè, per esprimermi in una maniera un po’ approssimativa, che il raggiungimento di un punto di equilibrio tra «riformismo» e «radicalismo» sia la formula a cui consegnare il nostro futuro: formula difficile da impostare e da gestire, ma tutt’altro che impossibile.
In questa prospettiva strategica salta all’occhio non solo la clamorosa divaricazione veltroniana – che va alla ricerca di altri destini, presumibilmente ben diversi – ma anche l’inadeguatezza delle forze della cosiddetta «sinistra radicale» a sostenere, praticare, riempire di contenuti nuovi tale prospettiva. Con il corredo culturale e ideale di cui esse, più o meno a seconda dei casi, dispongono e con il ritardo d’iniziativa di cui han dato prova negli ultimi anni, non si va lontano. Dico questo: la divaricazione veltroniana è stata resa possibile anche (soprattutto?) dall’assenza sulla sinistra di un interlocutore in grado di condizionare anche i movimenti del centro del centro-sinistra. Il centro del centro-sinistra ha deciso di andare per proprio conto, anche perché non aveva contrappesi validi sulla propria sinistra, che gli rendessero più difficoltosa la manovra.
Infine. Pochi, mi pare, hanno notato che il prossimo voto mette gli elettori italiani di fronte al massimo d’incertezza possibile riguardo all’uso che del loro voto verrà fatto. Walter Veltroni ha detto: non siamo soli; siamo liberi. Ha ragione. Si vota al buio. Il bipolarismo imperfetto delle tre precedenti consultazioni politiche consentiva tuttavia di votare non solo per un partito ma per un governo. Ora non più: possiamo votare solo per un partito o un raggruppamento di partiti, ai quali è demandata dopo il voto l’intera facoltà di contribuire a formare, a seconda della forza loro attribuita dagli elettori, questo o quel governo.
Io trovo questo intollerabile. Tolte di mezzo le preferenze; attribuiti agli stati maggiori (Andrea Manzella parla di cinque-sei persone!) tutti i poteri nella formazione delle liste: interrotta qualsiasi circolazione rinnovatrice fra i partiti e il resto della società: ci si toglie ora anche il diritto di scegliere il governo che desideriamo. Il massimo della delega, dunque, coincide con la fase di maggiore scadimento, autoreferenzialità e discredito del nostro ceto politico. Nonostante il successo di alcuni dei comizi di Walter in piazza, la forbice secondo me s’allarga. E non si sa cosa di nuovo sarà in grado di combinare un parlamento che uscirà da questo voto.
Da questo punto di vista non c’è niente che si possa fare nell’immediato. Bisognerebbe forse pretendere che al primo posto delle tanto conclamate riforme ci sia l’annosa, mai affrontata, sempre più indispensabile «riforma della politica»: la quale vuol dire essenzialmente messa in discussione del ceto politico, rottura dell’autoreferenzialità, nuovo rapporto società-politica (gli inserimenti adottati a tal fine nelle liste fanno sorridere, quando non indignano), cambiamento radicale delle regole del gioco.
In conclusione, e per non lasciar spazio ad equivoci. Penso che questa volta si debba assolutamente andare a votare, e non solo per sbarrare la strada a Berlusconi (che pure è un argomento non da poco). Bisogna soprattutto impedire che si cada in quell’acquiescenza passiva, che si traduce nel detto famoso: «in malora!» e che sarebbe la situazione peggiore di tutte, l’anticamera della morte. Per chi votare, invece, oggi è affare di ognuno.(Alberto Asor Rosa)

Il fado

Nery, Rui Vieira (2004). Il fado. Storia e cultura della canzone portoghese. Roma: Donzelli. 2006.

Una storia del fado interessante e ben documentata, per quanto ne posso capire io, che ne sono un ascoltatore incuriosito, ma non uno specialista.

Ne approfittiamo per un ripasso.

Prima la classica Amalia Rodriguez (Tudo isto é fado).

Poi due stelle recenti, Mariza …

… e Cristina Branco.

No Country for Old Men

McCarthy, Cormac (2005). No Country for Old Men. London: Picador. 2007.

Uno strano romanzo, che ti prende e ti trascina in una riflessione cupa. In un western ambientato nel 1980, un uomo è in fuga da pericoli tutti mortali. Due killer, di cui uno è gelido e lucido come un angelo vendicatore, lo inseguono. Un attempato sceriffo cerca inutilmente di salvarlo.

Una parabola amara (e reazionaria) sugli Stati Uniti dell’edonismo reaganiano (e a fortiori su quelli di oggi). Contro la lucidità spietata, razionale all’estremo, dell’uomo nuovo Chigurh non c’è scampo: nessuna delle regole del passato si applica, nessuna convivenza è possibile, nessuna via d’uscita, nessuna speranza.

Il pessimismo di McCarthy è temperato da una scrittura bellissima, soprattutto nei dialoghi (ma molto difficile da seguire per un lettore straniero, per la capacità di rendere anche nell’ortografia la lingua parlata del Texas).

Più difficile da digerire la sua morale reazionaria, che emerge nelle riflessioni dello sceriffo Bell. Davvero la droga è all’origine di tutti i mali (If you were Satan and you were settin around tryin to think up somethin that would just bring the human race to its knees what you would probably come up with is narcotics)? E se invece fosse il proibizionismo? Davvero è l’abbandono di Cristo? E se invece fosse l’incapacità di fondare una morale laica sulla solidarietà e l’empatia? Davvero l’esito ultimo della razionalità è la spietatezza? Ma la razionalità è soltanto quella fondata sul calcolo economico?

Quando affronta questi temi “filosofici”, McCarthy ha il fiato corto e i suoi personaggi perdono spessore. Le riflessioni di Bell sono, secondo me, la parte più debole del romanzo. La sua forza, invece, è nei dialoghi, soprattutto in quelli che coinvolgono i bei personaggi femminili di questo libro apparentemente così macho.

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Tre romanzi di Paolo Roversi

Roversi, Paolo (2006). Blue tango. Noir metropolitano. Viterbo: Stampa alternativa. 2006.

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Roversi, Paolo (2006). La mano sinistra del diavolo. Milano: Mursia. 2006.

Roversi, Paolo (2007). Niente baci alla francese. Milano: Mursia. 2007.

Ho già spiegato tempo fa che non amo i romanzi gialli. E allora perché mi ostino a leggerli? Le risposte sono molte, nessuna esauriente. Perché sono un lettore onnivoro e pervicace. Perché tra le varie epigrafi che vorrei fare incidere sulla mia lapide una è: “Vissi, dissi e mi contraddissi”. Perché ci ricasco ogni volta come Charlie Brown quando Lucy si offre per fargli tirare il pallone…

In questo caso, però, avevo anche un motivo sentimentale. L’autore, Paolo Roversi, è delle mie parti e sono venuto a conoscenza della sua esistenza (è molto più giovane di me) perché organizza a Suzzara un festival di letteratura, Nebbia gialla.

Al di là delle motivazioni sentimentali, però, i tre romanzi non mi sono piaciuti. Roversi non scrive in modo memorabile (tra l’altro, i testi sono pieni di refusi). Le trame non sono originali (non sono un giallista, ma la soluzione si scopre in tutti e 3 i casi fin dalle prime pagine) e personaggi e stile mi sembrano un po’ un centone di personaggi e stili di altri romanzi gialli (e io non sono un cultore del genere!).

Fa in parte eccezione il secondo, in parte ambientato nella torrida estate della Bassa mantovana, in cui ho ritrovato atmosfere e storie a me care. Il clima è quello di Giorno d’estate di Francesco Guccini.

Giorno d’estate, giorno fatto di sole,
vuote di gente son le strade in città,
appese in aria e contro i muri parole,
ma chi le ha dette e per che cosa chissà.

I manifesti sono visi di carta che non dicono nulla e che nessuno più guarda,
colori accesi dentro ai vicoli scuri,
sembrano un urlo quelle carte sui muri,
sembrano un urlo quelle carte sui muri…

Giorno d’estate, giorno fatto di vuoto,
giorno di luce che non si spegnerà;
sembra d’ andare in un paese remoto,
chissà se in fondo c’è la felicità.

Un gatto pigro che si stira sul muro, sola cosa che vive, brilla al sole d’estate;
si alza nell’aria come un suono d’incenso,
l’odore di tiglio delle strade alberate,
l’odore di tiglio delle strade alberate…

Giorno d’estate, giorno fatto di niente,
grappoli d’ozio danzan piano con me,
il sole è un sogno d’oro, ma evanescente,
guardi un istante e non sai quasi se c’è.

Dentro ai canali l’erba grassa si specchia, cerchi d’ombra e di fumo sono voci lontane;
nell’acqua il sole con un quieto barbaglio
brucia uno stanco gracidare di rane,
brucia uno stanco gracidare di rane…

Giorno d’estate senza un solo pensiero,
giorno in cui credi di non essere vivo,
gioco visivo che non credi sia vero
che può svanire svelto come un sorriso.

Vola veloce ed iridato un uccello come un raggio di luce da un cristallo distorto:
vola un moscone e scopre dietro a un cancello
la religiosa sonnolenza d’ un orto,
la religiosa sonnolenza d’ un orto.

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The Hitchhikers Guide To The Galaxy – BBC – Ep2P4

La nuova squadra (4)

Taricone (togliendosi una scarpa): “Chista è ppuzza, signò'”

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La dama di Elche

Elche (in castigliano) o Elx (in catalano) è una città di oltre 200.000 abitanti, non lontana da Valencia. Oggi assurge alle cronache perché la nazionale italiana ci gioca un’amichevole con la Spagna.

Ma è anche la città in cui fu trovata, nel 1897, la Dama di Elche. È un simulacro della dea, adorata dagli abitanti del luogo (iberici o cartaginesi) tra il V e il III secolo avanti Cristo. E gli abitanti l’adorano tuttora: nella basilica di santa Maria, il 14 e 15 agosto, si celebra una Fiesta con la sacra rappresentazione detta Misteri de Elx (su un testo in lingua catalana del XIII secolo, con alcuni segmenti in latino), eseguita da soli uomini e bambini del coro di voci bianche.

L’occhio sinistro della dama di Elche, come il mio, ha la palpebra più abbassata di quello di destra.

Ai tempi della peseta, compariva su una banconota.

Molti anni fa, festeggiai un solstizio d’estate con una “piccola festa pagana”: questo post è dedicato a chi c’era.

L’eleganza del riccio – ma anche…

Oppure: L’eleganza del riccio, riparliamone.

Possibile che questo romanzo sia piaciuto a tutti, senza riserve? Possibile che in rete si fatichi a trovare una recensione negativa?

Eppure, il romanzo ha molti difetti ed è un’operazione astuta.

Cominciamo dall’autrice. Tutt’altro che una debuttante, tanto per cominciare. Il suo primo romanzo è del 2000. L’autrice era poco più che trentenne, e pubblica da Gallimard! Vince il premio Bacchus per la letteratura gastronomica. Ex normalista, e professoressa di filosofia, non rinuncia a infarcire il libro di dotte citazioni, da Marx buttato lì in prima pagina, a Occam (per studiare il quale è sprecato buttare i soldi dei contribuenti), e così via. E se i filosofi non bastano, abbiamo i letterati (Racine e, naturalmente, Tolstoy), i musicisti (Mahler), i pittori (Hopper e le nature morte di Claesz).

Assumere il ritratto di un condominio come protagonista di un romanzo è tutt’altro che originale: basta pensare a La vita, istruzioni per l’uso (La vie mode d’emploi – 1978) di Georges Perec. La portinaia Renée rovescia uno stereotipo (quello della portinaia parigina – la Madame Pipelet dei Misteri di Parigi – di cui pipelette è diventato un sinonimo). Paloma ne è lo specchio e l’alter ego, e non gode di vita propria: quando Renée è viva, Paloma è destinata a morire, e quando Renée muore Paloma ricomincia a vivere. Colombe, la sorella di Paloma, è un altro riflesso capovolto… In questo gioco di specchi, tutti alla fine parlano con la voce dell’autrice, con le sue nozioni, con la sua cultura…

In questo senso, penso, siamo di fronte a un esercizio di stile, come ha detto qualcuno. E anche a un racconto filosofico. In un romanzo riuscito, in un romanzo vero, i personaggi assumono vita propria, si muovono e parlano mossi da una loro necessità interiore. In un racconto filosofico sono mossi, piuttosto, dalle necessità di un’argomentazione dell’autore. Non per questo un libro è brutto. Semplicemente, è un’altra cosa.

Ma di un racconto filosofico è lecito discutere l’ideologia. E qual è l’ideologia de L’eleganza del riccio? Un’ipotesi è che Muriel Barbery ce lo riveli fin dal Preambolo:

«Dovrebbe leggere L’ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia.
Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L’ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un’organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
“Chi semina desiderio raccoglie oppressione” sono sul punto di mormorare […]

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25 marzo

Nel 1881, a Nagyszentmiklós (allora in Ungheria, oggi in Romania) nasce Béla Viktor János Bartók. Qui lo sentiamo suonare le Danze rumene raccolte e rielaborate da lui (l’incisione è tratta dai “rulli” per il pianoforte meccanico Welte-Mignon – con qualche approssimazione possiamo dire che sta suonando Béla Bartók, senza i difetti di una rudimentale incisione fonografica, anche se alcune sfumature di tempo e dinamica sono a discrezione dei tecnici moderni).

Sempre il 25 marzo, ma del 1918, muore un altro grande del pianoforte, Claude Debussy. Qui Gianluca Cascioli suona Des pas sur la neige, dal primo libro dei Preludi.

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The Hitchhikers Guide To The Galaxy – BBC – Ep2P3