Mi ricordo abbastanza greco scolastico da sapere che eucalipto è parola composta da εὖ, “bene”, e καλύπτω, “nascondere”; ma che cosa abbia da nascondere, e bene per di più, non lo sospettavo nemmeno. Difficile che le piante abbiano da nascondere dolorosi segreti o amori impossibili.
La risposta l’ho trovata facilmente: e poi c’è ancora qualcuno che discute l’utilità del web e di come ci abbia cambiato la vita e le abitudini.
eucalipto (o eucalitto) s. m. [lat. scient. Eucalyptus, comp. di eu– e gr. καλυπτός«coperto», perché nel fiore in boccio i petali, concresciuti, formano un opercolo che nasconde gli stami]. – Genere di piante mirtacee originarie dell’Australia che comprende numerose specie arboree, di grandi dimensioni (come Eucalyptus globulus, molto diffuso in Italia), talora gigantesche (come Eucalyptus amygdalina, alto fino a 100 m e con 10 m di diametro), con foglie dimorfe: quelle delle piante giovani sessili, opposte e dorsoventrali, quelle delle piante adulte, picciolate, sparse, isolaterali, pendenti; i fiori, isolati o in glomeruli o in ombrellette, ascellari, hanno i petali fusi completamente in una formazione simile a un cappuccio, che si stacca e cade; gli stami sono numerosi, l’ovario è infero e dà per frutto una capsula con molti semi. Alcune specie sono coltivate estesamente nei paesi caldi e temperato-caldi, e forniscono, oltre al legno, resine e un olio essenziale (olio di e.), incolore o giallognolo, con odore di canfora, usato in medicina come antisettico, come agente flottante, come profumo per saponi, liquori, ecc.
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Insomma, quello che gli eucalipti hanno da nascondere sono i fiori, perché invece di avere i petali grandi e colorati, come i fiori idealtipici che ci figuriamo nella mente quando pensiamo a un fiore in astratta, hanno i petali trasformati in una specie di cappuccetto che nasconde l’interno del fiore, i “genitali” della pianta, stami e pistilli e tutta quella roba lì.
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La voce italiana di Wikipedia non spiega un bel niente, ma in compenso quella in inglese è molto chiara:
The most readily recognisable characteristics of eucalyptus species are the distinctive flowers and fruit (capsules or “gumnuts”). Flowers have numerous fluffy stamens which may be white, cream, yellow, pink or red; in bud, the stamens are enclosed in a cap known as an operculum which is composed of the fused sepals or petals or both. Thus flowers have no petals, but instead decorate themselves with the many showy stamens. As the stamens expand, the operculum is forced off, splitting away from the cup-like base of the flower.
La mia traduzione quick and dirty:
La caratteristica più facilmente riconoscibile degli eucalipti sono i fiori e i frutti. I fiori hanno molti stami piumosi, bianchi, beige, gialli, rosa o rossi. In boccio, gli stami sono coperti da un coperchietto, l’operculum, creata dai sepali o dai petali o da entrambi. Quindi i fiori non hanno petali, ma sono i molti vistosi stami a svolgere la funzione decorativa. Quando gli stami crescono, provocano il distacco del coperchietto dalla base del fiore (che sembra una coppetta) e la sua caduta.
Nella figura qui sotto vedete al centro i fiori aperti (e quelli rossi sono stami, non petali) e, in alto a destra, i boccioli, con la loro base a coppetta e l’opercolo sopra.
Durante le mie passeggiate mattutine, mi capita di soffermarmi a leggere le indicazioni della toponomastica. Per esempio: Via del Tibet, Acrocoro dell’Asia Centrale.
acrocòro (meno corretto acròcoro) s. m. [comp. di acro– e del gr. χῶρος«regione»]. – Insieme assai esteso di rilievi costituiti sia da forme a struttura tabulare (per es., l’altopiano etiopico), sia da catene di corrugamento di altezza in genere notevole (per es., il Pamir e il Tibet).
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Intanto, io ho sempre detto acròcoro e non acrocòro, e dunque mi sono sempre sbagliato (non che mi sia capitato di pronunciare questa parola molto di frequente, per fortuna).
«La norma è cedevole», cinguetta una fine giurista.
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Si scopre così che la legge, un tempo incisa su tavole di bronzo, è ora cedevole, come la virtù di una demi-mondaine in un romanzo francese del XIX secolo…
Un’accusa frequente a chi si riconosce in una visione naturalistica dell’universo è che un approccio scientifico e razionale impoverisce la vita, privandola delle dimensioni delle emozioni e dei sentimenti. Non per sparare sulla Croce rossa, ma il primo esempio che viene in mente, qui e ora, è il Gramellini che se la prende con gli algoritmi:
La dittatura dell’algoritmo è l’ultimo rifugio di un certo tipo di persone, per lo più maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro, che non riuscendo più a sentire niente si illudono di domare le loro insicurezze con una serie di algide formulette attinte dalla marea di dati personali che le nuove tecnologie mettono a disposizione. [Massimo Gramellini, “Abbasso gli algoritmi“, La Stampa del 6 novembre 2013; lo stesso Gramellini ha poi fatto una parziale marcia indietro]
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Invece, a me pare che le emozioni più profonde vengano da quella comprensione dei fenomeni che (a parer mio, va da sé) soltanto la scienza sa offrire.
L’altro giorno, la funzione shuffle di iTunes mi ha riproposto il brano La collina dall’album Non al denaro, non all’amore né al cielo di Fabrizio De André (e Nicola Piovani e Fernanda Pivano e Giuseppe Bentivoglio e un po’ di Gian Piero Reverberi …). E qui è scattata tutta una catena di serendipità. Ma sarà il caso di andare con ordine.
Agibilità politica: espressione d’attualità, ma piuttosto fumosa. Serve infatti a chiedere – senza chiederlo esplicitamente – l’impossibile: che non si tenga conto di una sentenza passata in giudicato. Giusto per memoria: la pubblica accusa (e ammettiamo pure, senza concederlo, che fossero le famigerate toghe rosse, mosse dal fumus persecutionis e non da indizi di reato) ha formulato un’ipotesi e l’ha portata in dibattimento, dove si è confrontata alla pari con i difensori dell’imputato. Per tre volte i giudici hanno ritenuto indizi e prove sufficienti a condannare l’imputato. L’imputato ora dice che il giudizio era politico, non accetta il verdetto, non riconosce la legittimità delle corti che lo hanno condannato (quando lo facevano i brigatisti si gridava all’eversione e si scrivevano tonanti editoriali) e si vuole difendere almeno un’altra volta ancora (ulteriormente, cioè pretendendo una sede e un livello di giudizio in più rispetto a quello di cui godono gli altri cittadini – «La legge è uguale per tutti» era la millesima e ultima delle battute di Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano). E Violante gli dà ragione, dimenticando che agli altri cittadini la possibilità di tornare sulle sentenze passate in giudicato non la si dà.
scoiàttolo s. m. [der. in –àttolo del lat. *scurius, sciurus, dal gr. σκίουρος: v.sciuridi]. –
Nome di varie specie di roditori della famiglia sciuridi, di medie dimensioni, arboricoli e diurni, con corpo slanciato, muso appuntito, occhi e orecchie grandi, lunga coda rivestita di pelo folto, tenuta rivolta verso l’alto. In partic. sono così chiamate le specie appartenenti al genere Sciurus, tra cui lo scoiattolo rosso(Sciurus vulgaris), comune in Italia nei boschi, di colore bruno rossiccio o nerastro, e lo s. grigio (Sciurus carolinensis), originario dell’America Settentr. ma oggi diffuso anche in alcune regioni europee, soprattutto in Gran Bretagna, di maggiori dimensioni e mantello color grigio bruno. Alla famiglia sciuridi appartengono inoltre gli s. giganti, del genere Ratufa, diffusi nelle foreste tropicali dell’India, Indocina e arcipelago della Sonda, mentre ad altre famiglie appartengono i varî roditori noti col nome di s. volanti, provvisti di un’ampia membrana, detta patagio, che si estende ai lati del corpo, fra gli arti anteriori e posteriori, e fra questi e la base della lunga coda, utilizzata per planare tra gli alberi.
In similitudini e usi fig., con riferimento all’agilità e alla mobilità di cui lo scoiattolo (spec. quello rosso e quello grigio) è dotato: agile, veloce come uno s.; arrampicarsi come uno s.; quel ragazzo è proprio uno s.; gli Scoiattoli di Cortina, celebre gruppo di arrampicatori e guide ampezzane. ◆ Dim. scoiattolino.
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Parola di origine latina e greca dunque, con una transizione da σκίουρος a scurius, sciurus abbastanza usuale. Sì, ma σκίουρος è una parola interessante, perché sarebbe l’unione di σκιά (ombra) e οὐρά (coda). Lo scoiattolo sarebbe dunque l’animale che si fa ombra con la coda: e ci può stare, come dicono qui a Roma.
Dal latino all’italiano ci si arriva attraverso il diminutivo (quindi scoiattolino è il diminutivo di un diminutivo: ricordatevene quando lo dite alla vostra ragazza): scurius → scuriatolus (attraverso l’aggettivo scuriatus).
In provenzale si è invece passati (sempre via diminutivi) da scurius a → scuriolus → squiriolus. Da cui il francese écureuil e l’inglese squirrel.
Naturalmente, se lo privi della bella pelliccia diventa uno scuoiattolo.
I will arise and go now, and go to Innisfree,
And a small cabin build there, of clay and wattles made:
Nine bean-rows will I have there, a hive for the honey-bee;
And live alone in the bee-loud glade.
And I shall have some peace there, for peace comes dropping slow,
Dropping from the veils of the morning to where the cricket sings;
There midnight’s all a glimmer, and noon a purple glow,
And evening full of the linnet’s wings.
I will arise and go now, for always night and day
I hear lake water lapping with low sounds by the shore;
While I stand on the roadway, or on the pavements grey,
I hear it in the deep heart’s core.
Ieri l’Italia si è svegliata con sulle labbra una parola nuova, catoblèpa. Un animale fantastico africano – secondo la Storia naturale di Plinio il Vecchio – dalle forme indefinite, ma con 2 caratteristiche note:
il suo sguardo è mortale
e tuttavia la probabilità di esserne uccisi è bassa, perché la pesantezza della testa lo costringe a tenere sempre lo sguardo volto a terra.
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Claudio Eliano, tornando sull’argomento nella sua opera Sulla natura degli animali, lo identifica praticamente con lo gnu. Il suo sguardo non è più mortale, ma in compenso uccide con un rutto o una fiatata letale, perché si nutre di erbe velenose.
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Mi fermo qui, perché tanto sul significato della parola e sul lemma del Vocabolario Treccani si sono dilungati a sufficienza i quotidiani.
Fabrizio Barca non ha certo bisogno di essere difeso da me. Ma se i suoi improvvisati biografi si fossero presi la briga di consultarne la biografia – niente di più arduo che googlarne la biografia sul sito del Governo o la voce di Wikipedia – avrebbero scoperto che, prima di prendere il master in economia a Cambridge, si è laureato in statistica alla Sapienza di Roma.
Mi piace immaginare che questo passaggio formativo nella sua biografia abbia lasciato un segno nel modo di pensare di Fabrizio Barca. Perché, se io dovessi provare a riassumere in poche parole l’essenza della statistica come scienza dell’informazione, direi che è la scienza di semplificare fenomeni complessi conservandone gli aspetti rilevanti, al costo di una perdita d’informazione e dell’introduzione consapevole di errori, in un processo controllato. Insomma, quello che viene spesso espresso in una citazione falsamente attribuita ad Albert Einstein:
Everything should be made as simple as possible, but no simpler.
In realtà la cosa più vicina a questo che Einstein abbia mai scritto la riporto qui sotto, ma anche la forma apocrifa è corretta ed efficace, e va bene anche se non l’ha scritta un grande scienziato ma – putacaso – un bravo giornalista come Donato Speroni.
It can scarcely be denied that the supreme goal of all theory is to make the irreducible basic elements as simple and as few as possible without having to surrender the adequate representation of a single datum of experience. [Albert Einstein, “On the Method of Theoretical Physics” The Herbert Spencer Lecture, delivered at Oxford (10 June 1933); also published in Philosophy of Science, Vol. 1, No. 2 (April 1934), pp. 163-169., p. 165]
Insomma, se il ragionamento politico di Barca aveva bisogno di 55 pagine di considerazioni anche difficili, ha fatto bene a non farsi condizionare dalle mode dei cinguettii e degli slogan. Se poi sono d’accordo con lui, lo dirò solo dopo averle lette, e non frettolosamente, quelle 55 pagine, che meritano comunque rispetto e non giudizi sommari (e somari).
Ma abbassiamo i toni, come si suol dire. Ricordiamo piuttosto che il catoblepa compare anche in una canzone di EELST del 1992, Supergiovane (e questo l’hanno scritto in molti) e in una storia del grande Don Rosa.
Scatta Supergiovane e derapa soccorrendo il Catopel il Canopeta il Capotel il Catop Catoblepa Catoblepa. Supergiovane derapa soccorrendo il Catoblepa, che purtroppo sta tirando le cuoia. “Addio Supergiovane. Per me ormai è finita” “No!” “L’analcolico moro è entrato in circolo” “Non dire così amico catoblepa. Ecco, prendi questo!” “No, ma… cosa…?” “Ah” “Ah” “Sss” “Ah h h ” “Ah… Catoblepa?! Catoblepa. No. Assassini. No. Governo bastardo.”
Catoblepa catoblepa, io ti dono le mie Tepa per il viaggio che conduce all’aldilà. Catoblepa, catoblepa, catoblepa, catoblepa. Catoblepa, tu mio amico morto, io vendicherotti, tu. E Supergiovane dà fuoco a uno spinello col quale affumica il governo, che, all’istante, passa all’uso di eroina e muore pieno di overdose.
La storia di Don Rosa (da molti considerato l’erede di Carl Barks) compare sul n. 96/1997 di Zio Paperone con il titolo “Paperino e il serraglio mitologico” (l’originale era comparso su Walt Disney’s Comics and stories n. 523 del 1990 con il titolo “Donald Duck. Mythological Managery”). Zio Paperino, per dimostrare la sua (presunta) superiorità sulle Giovani Marmotte, costruisce animali fantastici addobbando di trovarobato posticcio gli animali della fattoria di Nonna Papera, ma Qui Quo e Qua sono comunque più bravi di lui. L’immagine che presento è una scansione della mia copia del giornalino e spero che tanto basti a convincere gli agguerriti legali della WD della mia buona fede.
Nello stesso numero di Zio Paperone trovo anche un articolo di Luca Boschi (“Fra mito e realtà”) in cui si cita come possibile fonte il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Marguerita Guerrero (tradotto per Einaudi dal grande Franco Lucentini):
Plinio (VIII, 32) narra che ai confini dell’Etiopia, non lontano dalle fonti del Nilo, abita il catoblepa, «fiera di media statura e andatura pigra. La testa è di peso considerevole, e l’animale fa molta fatica a portarla; la tiene sempre chinata a terra. Se non fosse per questa circostanza, il catoblepa annienterebbe il genere umano, perché qualunque uomo gli vede gli occhi, cade morto». Catoblepas, in greco, vuol dire «che guarda in basso ». Cuvier stimò che fosse stato ispirato agli antichi dallo gnu (contaminato col basilisco e con le gorgoni). In una delle ultime pagine della Tentazione di Sant’Antonio [di Gustave Flaubert; nota mia] si legge:
Il catoblepa (bufalo nero, con una testa di maiale che gli ciondola fino a terra, attaccata com’è alle spalle mediante un collo sottile, lungo e floscio come un budello vuoto. Sta appiattato nel fango, le zampe appena visibili sotto la gran criniera di peli duri che gli copre il muso):
– Grosso, melanconico, fosco, me ne sto sempre così: a sentire sotto il ventre il tepore del fango. Ho la testa così pesante che m’è impossibile tenerla alzata. La muovo lentamente attorno, e, a mascelle socchiuse, strappo con la lingua le erbe velenose inumidite dal mio fiato. Una volta, mi sono divorato le zampe senza accorgermene.
– Nessuno, Antonio, m’ha visto mai gli occhi; o chi li ha visti è morto. Se alzassi le palpebre, queste mie palpebre rosate e gonfie, tu moriresti all’istante.