Stonehenge e i maiali

Un articolo di Eva Frederick (“Ancient people may have used pig fat to build Stonehenge“), pubblicato su Science il 15 luglio 2019, presenta l’ipotesi che i costruttori del monumento megalitico di Stonehenge abbiano utilizzato grasso di maiale per lubrificare le slitte utilizzate per spostare gli enormi blocchi di pietra. L’autrice fa a sua volta riferimento a un articolo di Lisa-Marie Shillito pubblicato online lo stesso giorno dalla Cambridge University Press (“Building Stonehenge? An alternative interpretation of lipid residues in Neolithic Grooved Ware from Durrington Walls“).

Insomma, per farla breve. Gli archeologi hanno rinvenuto lì vicino vasellame della stessa epoca, sporco di strutto all’interno. L’ipotesi prevalente finora era che i recipienti fossero serviti a cuocere il cibo per le affamate maestranze impiegate nell’opera titanica. Se non che le condizioni delle ossa di maiale trovate nel sito non sono compatibili con la cottura in pentola di uno spezzatino, ma con la cottura alla brace su uno spiedo. Il vasellame sarebbe servito a raccogliere il grasso che colava dalle bestie arrostite, in modo da poterlo utilizzare per lubrificare le slitte di legno con cui i monoliti venivano trascinati sul cantiere di costruzione.

A me, originario della bassa padana, la scena commuove. Me li vedo, gli antichi abitanti del luogo, intenti a macellare e mangiare i maiali dopo una giornata di lavoro verosimilmente duro. E rinunciare allo strutto (sottratto al destino di generare lo gnocco fritto) per rendere quel lavoro un po’ meno duro. Del maiale non si butta niente…

Il maiale, negli antichi culti della dea, non aveva la brutta fama che ha ora (non solo tra ebrei e musulmani, dove è animale immondo, ma anche tra i cristiani, dove associarne il nome con dio è blasfemo). Era l’animale sacro della dea della vegetazione: Marija Gimbutas, in The Goddesses and Gods of Old Europe: 6500-3500 BC Myths and Cult Images, gli dedica un capitolo intero, “The pig, the sacred animal of the Goddess of Vegetation”:

The curious connection between the Vegetation Goddess and pigs as known from Classical Greek times goes back to the Neolithic era. Sculptures of pigs are known from all parts of Old Europe and date from every period. In number they equal the representations of dogs, bulls and he-goats. The fast-growing body of a pig will have impressed early agriculturists; its fattening must have been compared to corn growing and ripening, so that its soft fats apparently came to symbolize the earth itself, causing the pig to become a sacred animal probably no later than 6000 BC.
All early Vinča Pregnant Vegetation Goddess wears a pig’s mask, while the sacredness of the pig’s body is indicated by the Cucuteni pig sculptures which have traces of grain impression on them. Grain was impressed on the body of the pig as it was impressed on the body of the Vegetation Goddess. These figurines and the pig masks imply that the pig was a double of the Pregnant Vegetation Goddess and was her sacrificial animal. [p. 211]

Risultati immagini per pig-masked Goddess of vegetation
[ibid. p. 212]
Risultati immagini per pig-masked Goddess of vegetation
[ibid. p. 212]

Sapiens e Neanderthal, un aggiornamento

Un articolo di Ed Yong pubblicato ieri su The Atlantic (Yong, Ed. Apidima 1 Is the Oldest Human Fossil Outside Africa – The Atlantic. 10 luglio 2019) – che a sua volta fa riferimento a un articolo pubblicato con la stessa data su Nature (Katerina Harvati, Carolin Röding, Abel M. Bosman, Fotios A. Karakostis, Rainer Grün, Chris Stringer, Panagiotis Karkanas, Nicholas C. Thompson, Vassilis Koutoulidis, Lia A. Moulopoulos, Vassilis G. Gorgoulis & Mirsini Kouloukoussa. Apidima Cave fossils provide earliest evidence of Homo sapiens in Eurasia) – ci permette qualche aggiornamento sull’argomento della coesistenza, in territorio europeo, dell’Homo sapiens e dell’Homo neanderthalensis, di cui abbiamo parlato di recente a proposito del libro di David Reich Who We Are and How We Got Here: Ancient DNA and the New Science of the Human Past).

Apidima 1 (left) is a modern human; Apidima 2 (right) is a Neanderthal.
Apidima 1 (left) is a modern human; Apidima 2 (right) is a Neanderthal.
[KATERINA HARVATI / EBERHARD KARLS UNIVERSITY OF TÜBINGEN]

Nel 1978, in una grotta chiamata Apidima all’estremità meridionale della Grecia (sul dito medio del Peloponneso), un gruppo di antropologi ha trovato una coppia di crani umani. Per anni si è creduto fossero entrambi Neanderthal. Ma in realtà appartengono a due epoche e a due specie diverse. Trascurato per anni e soltanto da poco analizzato con tecniche aggiornate, Apidima 1 è risultato essere era uno di noi, un Homo sapiens, un umano moderno di 210.000 anni fa: si tratterebbe dunque dell’esemplare più antico di Homo sapiens fuori dall’Africa. La scoperta ha tre conseguenze importanti:

  1. Pre-data di circa 30.000 anni la presenza nota di esseri umani moderni al di fuori dell’Africa.
  2. Tutti gli altri fossili di Homo sapiens trovati in Europa risalgono a 40.000 anni fa o meno.
  3. Apidima 1 è più vecchio del cranio di Neanderthal trovato nello stesso sito.

Messi insieme, questi elementi fanno scricchiolare le teorie finora prevalenti, secondo le quali i Neanderthal si sarebbero evoluti in Europa lentamente e relativamente isolati. Quando gli umani moderni si sono espansi fuori dall’Africa, la loro migrazione verso l’Europa – ostacolata dalla diffusa presenza dei Neanderthal – si sarebbe arrestata in Medio Oriente e poi spostata verso l’Asia, senza lasciare fossili europei fino a circa 40.000 anni fa.

“The idea of Europe as ‘fortress Neanderthal’ has been gaining ground,” – commenta Rebecca Wragg Sykes dell’Università di Bordeaux – but identifying a 210,000-year-old Homo sapiens skull from Europe “really undermines that.”

E aggiunge: “Obviously everyone is going to want to see DNA out of that skull”.

Anch’io, per quello che conta. La saga continua…

Arcivescovo organizza esorcismo di massa aspergendo di acqua santa dall’elicottero una città colombiana

Curiosa notizia pubblicata da The Guardian ieri (10 luglio 2019).

Stilt houses, known as palafitos, with modern buildings in downtown Buenaventura in the distance
Stilt houses, known as palafitos, in Buenaventura, Colombia’s main Pacific port. Photograph: Bloomberg/Getty

Il Monsignor Rubén Darío Jaramillo Montoya, vescovo di Buenaventura, pregherà per eliminare l’infestazione demoniaca del territorio. La decisione è stata assunta dopo che una bambina di 10 anni era stata torturata e uccisa. La città è da tempo assediata dalla violenza, dal contrabbando di droga e dalla povertà.

Fonte: Bishop will take to the skies to exorcise entire Colombian city | World news | The Guardian

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Giornate torride e assolate: vestirsi di bianco o di nero?

Se lo chiede Wired in un articolo pubblicato ieri (Hett Allain. “Should you wear white or black on hot days? Here’s the data“. 9 luglio 2019).

Domanda peregrina, direte voi. Chiaramente di bianco.

Risposta sostanzialmente corretta, ma non così immediata.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bedouin_Riyadh,_Saudi_Arabia,_1964
Wilhelm von Schreeb, Sweden [Public domain], via Wikimedia Commons

Perché allora i beduini si vestono spesso di nero?

E perché una rivista autorevole come Nature si pone seriamente la domanda (Shkolnik, Amiram; C. Richard Taylor; Virginia Finch & Arieh Borut. ” Why do Bedouins wear black robes in hot deserts?“. 24 gennaio 1980).

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Un nuovo partito in Bosnia si avvale della scienza della complessità, delle simulazioni e dell’intelligenza artificiale per formulare il suo programma

Un articolo pubblicato su Quartz racconta di come in Bosnia-Erzegovina il nuovo partito Platforma za progres (Piattaforma per il progresso) si proponga di usare la scienza della complessità per affrontare i gravi problemi che il paese fronteggia, dalla disoccupazione, al declino demografico, alla corruzione. Sono perfettamente consapevole dei rischi che comporta un approccio come questo, tecnocratico e soltanto apparentemente neutro. Eppre sono da sempre affascinato da questa prospettiva tecnocratica (già dai tempi in cui negli anni Sessanta a Milano si presentò alle elezioni, o almeno tappezzò la città di manifesti, un Partito T-tecnica, fantomatico nel senso che non ne ho trovato traccia neppure sul web: qualcuno se ne ricorda?).

Qui l’articolo nell’originale da Quartz: A new party wants computer science to break Bosnia’s political deadlock — Quartz

Traduco qualche stralcio dell’articolo utilizzando DeepL:

[…] Platforma za progres è alla ricerca di soluzioni che utilizzano la scienza della complessità, un ramo di ricerca che sfrutta la tecnologia informatica per cercare di capire come interagiscono i sistemi, al fine di prevedere i processi sociali e far progredire le politiche.

[…]

Ma applicare l’informatica per cercare di risolvere alcuni dei problemi sociali più persistenti e pressanti del paese richiederà di rispondere prima ad alcune domande etiche e pratiche.

[…]

Uno dei principali metodi con cui Hadžikadić [il leader del partito] ha lavorato è la modellazione basata sugli agenti, che comporta l’esecuzione di interazioni simulate al computer tra i cosiddetti “agenti”, unità nello spazio simulato, dotate di caratteristiche diverse e progettate per agire e interagire come gli esseri umani. I loro ambienti virtuali sono attentamente sviluppati da scienziati sociali, psicologi e ricercatori per testare le potenziali reazioni al cambiamento.

La modellazione basata su agenti è come guardare i pesci in uno stagno. Si può vedere come i pesci interagiscono, ma anche le increspature sulla superficie dell’acqua create da tale interazione, e come queste azioni secondarie influenzano l’ambiente. Gli analisti possono usare questi risultati per chiedersi: quali leve del mondo reale possono essere utilizzate per influenzare la politica verso la pace? In che modo le parti costitutive di una città – dalle infrastrutture, alle istituzioni, alle persone – interagiscono e si influenzano a vicenda?

Ad esempio, l’Institute for New Economic Thinking dell’Università di Oxford e la Bank of England hanno utilizzato la modellazione basata sugli agenti per condurre ricerche sul mercato immobiliare britannico. I risultati sono usati dalla Banca d’Inghilterra per analizzare “scenari what-if e per prevedere l’effetto più probabile di possibili politiche macroprudenziali”, scrivono i ricercatori.

Visualizzazioni come queste, supportate da dati, offrono approfondimenti sul funzionamento dei processi sistemici e forniscono un modo per prevedere gli sviluppi e guidare le politiche verso risultati positivi. Tali modelli partono da un microlivello, che riflette gli individui che compongono un sistema. Il comportamento di ogni “agente” conta.

Elizabeth von Briesen, una delle studentesse di dottorato di Hadžikadić dell’UNC Charlotte, guarda alle dinamiche del genocidio nel tentativo di anticipare meglio le pressioni sociali che portano a risultati così disastrosi. Con la modellazione basata sugli agenti, “possiamo attivare e disattivare diverse caratteristiche, mappare le emozioni e le crescenti tensioni, e monitorare il cambiamento delle dimensioni della popolazione. Quello che facciamo è cercare soglie che rendano più probabile la pace”, dice von Briesen.

Stefan Thurner, presidente del Complexity Science Hub Vienna, un istituto di ricerca pionieristico che utilizza la scienza della complessità per affrontare questioni che vanno dal cambiamento climatico, all’urbanizzazione, all’energia, ritiene che questo tipo di modellizzazione sarà sempre più comunemente usato dai decisori mondiali. “È molto probabile che in un futuro non così lontano, tutte le decisioni politiche saranno almeno in qualche modo supportate da modelli basati su agenti”, dice Thurner.

[…]

Oltre alla modellazione basata sugli agenti, ci si baserà sulle statistiche e sull’apprendimento automatico. L’intelligenza artificiale sarà utilizzata per comprendere i modelli di comportamento e rilevare le regolarità all’interno dei dati, spiega Hadžikadić. Il team di analisi spera di fornire informazioni dettagliate su altre questioni della società bosniaca, come l’instabilità dell’economia, gli sconvolgimenti nazionalistici, il declino della popolazione e l’alto grado di corruzione.

[…]

Tuttavia, la raccolta di dati per prevedere i processi sociali può essere pericolosa, soprattutto in considerazione del modo opaco in cui è stata utilizzata in altre elezioni in tutto il mondo. Quando si fanno queste simulazioni, ci sono centinaia, a volte migliaia di decisioni da prendere, spiega Thurner. Se una delle ipotesi è sbagliata, il risultato potrebbe essere completamente fuorviante. Quindi i risultati devono essere considerati con grande cautela.

Per migliorare l’applicabilità dei loro modelli, i ricercatori cercano di sostituire tutte le ipotesi con dati solidi – un approccio che Platforma za progres afferma di seguire.

Hadžikadić dice che il suo gruppo sta lavorando solo con un piccolo numero di analisti selezionati, cifrando i dati per proteggerli dall’intrusione e usandoli solo per rispondere a domande specifiche. Dato il grado di abuso dei dati da parte delle aziende e dei governi di tutto il mondo, potrebbe essere necessario affrontare anche lo scetticismo dei critici.

[Tradotto con DeepL]

Terry Pratchett e Neil Gaiman – Good Omens: The Nice and Accurate Prophecies of Agnes Nutter, Witch

Pratchett, Terry & Neil Gaiman (1990). Good Omens: The Nice and Accurate Prophecies of Agnes Nutter, Witch. New York (NY): William Morrow. 2019. ISBN: 9780061991127. Pagine 383. 5,19€

amazon.it

Un altro Neil Gaiman, questa volta con Terry Pratchett. Forse perché non sono (ancora?) un cultore di Terry Pratchett ho aspettato tanto a leggerlo. E devo anche (vergognosamente) confessare che se l’ho letto adesso è anche perché è in uscita la serie tv su Amazon Video.

Gaiman era giovane e alle prime armi quando ha scritto questo libro, Pratchett un autore già affermato. I due si sono divertiti come pazzi a scriverlo: ce lo raccontano nelle appendici del romanzo, ma si capisce benissimo anche soltanto a leggerlo. Un libro effervescente d’intelligenza, che a tratti fa venire in mente The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy.

Assolutamente raccomandato.

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Un esposto alla Corte penale internazionale sulle morti in mare contro Ue Italia Francia e Germania

People in the U.S. Are Moving Homes Less Than Ever – CityLab

Molto interessante, soprattutto perché molte considerazioni sono interessanti anche per il caso italiano.

A new study identifies powerful psychological factors that connect people to places, and that mean more to them than money.
— Leggi su http://www.citylab.com/life/2019/05/moving-location-new-city-how-much-cost-mobile-rooted-stuck/590521/

Sacchetti di plastica o borsine di cotone?

Si è sviluppato un vivace dibattito sui meriti e i demeriti ecologici delle borsine di cotone, a fronte di una campagna diffusa per il bando dei sacchetti di plastica.

Quartz ci ha fatto un’analisi che a me pare definitiva (“Your cotton tote is pretty much the worst replacement for a plastic bag“, di Zoë Schlanger, pubblicato il 1° aprile 2019 – ma non è un pesce d’aprile), a partire da uno studio dell’Agenzia di protezione ambientale del governo danese [Ministry of Environment and Food – Environmental Protection Agency. Bisinella, Valentina; Paola Federica Albizzati; Thomas Fruergaard Astrup e Anders Damgaard (a cura di). Life Cycle Assessment of grocery carrier bags. Environmental Project no. 1985. February 2018), che potete leggere e scaricare qui. Incidentalmente, fa piacere vedere che due delle quattro persone che curano il rapporto sono italiane o di origine italiana.

Insomma, meglio il sacchetto di plastica o la borsina di cotone? Come spesso nella vita, la risposta non è univoca.

Prima risposta, quella facile: i comuni sacchetti di plastica (con l’eccezione di quelli di MaterBi, ad esempio, che è un biopolimero) non sono biodegradabili, inquinano i mari, finiscono nel tubo digerente degli animali marini e alla fine anche nel nostro con i cibi che mangiamo. Questa risposta vale per tutti i sacchetti, anche se il polimero di cui sono fatti, il peso e spessore influiscono sui tempi e le modalità di smaltimento e sulle possibilità di recupero e riciclo (qui sotto vedete diverse tipologie e materiali, che lo studio danese analizza). Ma la rispoista è sempre la stessa: non sono biodegradabili.

Ministry of Environment and Food of Denmark, 2018

Il male assoluto, quindi? No perché – seconda risposta – se si tiene conto dell’insieme degli impatti ambientali al di là di quello dello smaltimento, cioè dell’impatto ambientale della produzione della materia prima (il cotone) e di tutto il resto (filatura, tessitura, confezione, tintura, trasporto, e così via), la borsina di cotone ha un impatto maggiore. Anzi, molto maggiore.

Ministry of Environment and Food of Denmark, 2018

Lo studio danese analizza questi aspetti, oltre a diverse modalità di riuso e riciclo, e si conclude con consigli di uso e smaltimento delle diverse tipologie di sacchetti e borse.

Rielaborazione da Ministry of Environment and Food of Denmark, 2018

Impressionante, vero? Sorprendente, no? I sacchetti di cotone devono essere riutilizzati migliaia di volte prima di soddisfare le prestazioni ambientali dei sacchetti di plastica e – scrivono i ricercatori danesi – il cotone biologico è peggiore del cotone convenzionale quando si tratta di impatto ambientale complessivo. Infatti, il cotone biologico ha un tasso di resa inferiore del 30% in media rispetto al cotone convenzionale, e quindi richieda il 30% in più di risorse, come l’acqua, per crescere nella stessa quantità, anche tenuto conto del minor ricorso a fertilizzanti e pesticidi (e quindi di un impatto minore in termini di eutrofizzazione e contaminazione).

Che fare allora? Il rapporto si conclude con alcuni consigli pratici sulla destinazione finale al termine della loro vita utile:

  1. LDPE base: riusare almeno una volta per la spesa, poi come sacchetto per i rifiuti.
  2. LDPE con manico rigido: si può riusare direttamente come sacchetto per rifiuti.
  3. LDPE riciclato: riusare almeno due volte per la spesa, poi come sacchetto per i rifiuti.
  4. Polipropilene non tessuto: riusare almeno 52 volte per la spesa; poi smaltire con materiali riciclabili, oppure riutilizzare come sacchetto per la spazzatura; infine destinare all’inceneritore.
  5. Polipropilene tessuto: riusare almeno 45 volte per la spesa; poi smaltire con materiali riciclabili, oppure riutilizzare come sacchetto per la spazzatura; infine destinare all’inceneritore.
  6. PET: riusare almeno 84 volte per la spesa; poi smaltire con materiali riciclabili, oppure riutilizzare come sacchetto per la spazzatura; infine destinare all’inceneritore.
  7. Poliestere: riusare almeno 35 volte per la spesa; poi smaltire con materiali riciclabili, oppure riutilizzare come sacchetto per la spazzatura; infine destinare all’inceneritore.
  8. Biopolimeri: attenzione! per i cambimenti climatici può essere utilizzato direttamente come sacchetto per i rifiuti, ma per l’impatto complessivo va usato almeno 42 volte per la spesa.
  9. Carta non sbiancata o sbiancata: riusare almeno 43 volte per la spesa; poi riutilizzare come sacchetto per la spazzatura; infine destinare all’inceneritore.
  10. Sacchetti di cotone convenzionali: riusare per la spesa almeno 52 volte per i cambiamenti climatici, almeno 7.100 volte considerando tutti gli indicatori; se possibile, riutilizzare come sacco per la spazzatura, altrimenti incenerire.
  11. Sacchetti di cotone biologico: riusare per la spesa almeno 149 volte per i cambiamenti climatici, almeno 20.000 volte considerando tutti gli indicatori; se possibile, riutilizzare come sacco per la spazzatura, altrimenti incenerire.

Perché le zebre sono bianche e nere?

Non certo perché juventine: per esserlo dovrebbero essere anche gobbe, e dunque un incrocio tra zebre e gnu. In questa foto si vede bene la differenza.

File:Gnu zebre.jpg
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gnu_zebre.jpg
Attribution: Esculapio [CC BY-SA 3.0]

La risposta che viene sùbito in mente è che le strisce rendono più facile sfuggire ai predatori: un carattere di sopravvivenza differenziale che si consolida evoluzionisticamente. L’ha scritto lo stesso Darwin: “The zebra is conspicuously striped”. Osservazione acuta! E anche un po’ idiota: le strisce bianche e nere possono forse avere una funzione mimetica nella taiga artica o nei pioppeti in riva al Po, ma le zebre vivono nella savana o nel bush, dove di alberi ce ne sono pochini (si vede bene nella foto qui sopra). Quindi le strisce bianche e nere, in quell’ambiente, rendono le zebre particolarmente cospicue, ai turisti dei safari come ai predatori. D’altro canto, se dipingiamo le strisce pedonali in bianco e nero è perché sono ben visibili, no?

Inoltre, per fortuna delle zebre pare che leoni e iene le percepiscano essenzialmente come grigie, a meno che non siano molto vicine. Secondo Amanda Malin dell’Università di Calgary [Melin AD, Kline DW, Hiramatsu C, Caro T (2016) Zebra Stripes through the Eyes of Their Predators, Zebras, and Humans. PLoS ONE 11(1): e0145679. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0145679%5D, gli esseri umani con una acuità visiva perfetta (10 decimi) possono distinguere le strisce dei fianchi delle zebre da circa 180 metri di distanza. Al contrario, i leoni possono farlo solo a 80 metri e le iene a 48. Questo in pieno giorno e in condizioni di visibilità favorevole. La dimensione delle strisce influisce su questi risultati: le strisce più sottili (come quelle sulle zampe o quelle della zebra di Grevy) sono meno visibili. Quando c’è poca luce, all’alba e al tramonto, leoni e iene possono distinguere le striature solo a 46 metri e 26 metri, rispettivamente.

Un’altra ipotesi è che le zone nere si scaldino più rapidamente delle fasce bianche, e quindi creino una microcircolazione d’aria che rinfresca l’animale. Aria condizionata per zebre: mica male.

Figure 1
https://www.nature.com/articles/s41598-018-27637-1/figures/1

Però nemmeno questo è vero, secondo le ingegnose misurazioni sperimentali effettuate da Horváth e dai suoi colleghi [Horváth, Gábor, Ádám Pereszlényi, Dénes Száz, András Barta, Imre M Jánosi, Balázs Gerics, and Susanne Åkesson. 2018. “Experimental Evidence That Stripes Do Not Cool Zebras.” Scientific Reports8 (1): 9351. doi:10.1038/s41598-018-27637-1].

Avrete capito che ci siamo addentrati su un terreno scientifico poco noto ma affascinante e dibattuto. Secondo Horváth sono state proposte almeno 18 possibili spiegazioni del perché le zebre abbiano le strisce, che possono essere ricondotte a quattro gruppi:

  1. disorientare i predatori attraverso il mimetismo
  2. regolare la temperatura corporea
  3. facilitare le relazioni sociali
  4. ostacolare l’attacco degli insetti.

Scartate le prime due ipotesi, valeva la pena di esplorare la quarta, apparentemente la più bizzarra. Lo ha fatto Tim Caro (uno degli autori del primo articolo che abbiamo citato). Le zebre sono particolarmente esposte al morso dei tafani e delle mosche tse-tse: hanno il pelo corto – più corto di quello delle antilopi, ad esempio – il che le lascia esposte al morso degli insetti, che riescono a penetrarne la pelliccia per raggiungere la pelle e i vasi sanguigni sottostanti. Per di più, tafani e mosche tse-tse sono vettori di malattie gravi e potenzialmente mortali: la tripanosomiasi (o malattia del sonno, la peste equina africana e l’influenza equina.

Allora, Tim Caro è andato in Inghilterra, a Hill Livery, dove ci sono numerose cavalli e zebre in cattività. Osservando e filmando questi animali, ha constatato che i tafani avevano maggiori difficoltà a posarsi sulle zebre. Non avevano problemi a trovare le zebre e ad avvicinarsi, ma non riuscivano ad atterrare. “Un quarto degli atterraggi rispetto ai cavalli”, secondo Caro. Come ulteriore esperimento, Caro ha provato a mettere ai cavalli una coperta zebrata: anche in questo caso gli insetti – confusi – non riuscivano a posarsi sulle parti coperte, a differenza che sulla testa o le zampe. Le riprese video mostrano che le mosche “mancano” l’atterraggio, andando a sbattere sui fianchi degli animali o sorvolandoli senza fermarsi [la mia fonte è un articolo di Ed Yong, The Surprising Reason Zebras Have Stripes, pubblicato su The Atlantic il 20 febbraio 2019].

The Surprising Reason Zebras Have Stripes, cit. La foto è di Tim Caro

Insomma, le mosche subirebbero lo stesso effetti di disorientamento di cui abbiamo parlato di recente, su questo blog, a proposito delle lucertole, delle vetture di Formula 1 e delle navi militari.