Tempi duri per i maiali

Cito una notizia di agenzia (Asca):

29-04-09
FEBBRE SUINA: EGITTO ORDINA MACELLAZIONE TUTTI I MAIALI DEL PAESE

(ASCA-AFP) – Il Cairo, 29 apr – L’Egitto ha ordinato la macellazione ‘immediata’ di tutti i suini del Paese come misura preventiva per evitare la diffusione del virus H1N1.

Ad annunciarlo il ministro della Salute, Hatem al-Gabali.

”E’ stato ordinato l’immediato abbattimento di tutti gli allevamenti di maiali in Egitto”, ha spiegato Gabali ai giornalisti al termine di un incontro con il presidente Hosni Mubarak.

Il ministero dell’agricoltura egiziano ha fatto sapere che ci sono 250 mila suini nel Paese che appartengono e vengono mangiati dalla minoranza cristiana copta.

In arrivo mezzo milione di prosciutti: il prosciutto copto.

La partenza del crociato (Il prode Anselmo)

LA PARTENZA DEL CROCIATO

Passa un giorno, passa l’altro
Mai non torna il prode Anselmo,
Perché egli era molto scaltro
Andò in guerra e mise l’elmo…

Mise l’elmo sulla testa
Per non farsi troppo mal
E partì la lancia in resta
A cavallo d’un caval.

La sua bella che abbracciollo
Gli dié un bacio e disse: Va’!
E poneagli ad armacollo
La fiaschetta del mistrà.

Poi, donatogli un anello
Sacro pegno di sua fe’,
Gli metteva nel fardello
Fin le pezze per i piè.

Fu alle nove di mattina
Che l’Anselmo uscìa bel, bel,
Per andare in Palestina
A conquidere l’Avel.

Né per vie ferrate andava
Come in oggi col vapor,
A quei tempi si ferrava
Non la via ma il viaggiator.

La cravatta in fer battuto
E in ottone avea il gilé,
Ei viaggiava, è ver, seduto
Ma il cavallo andava a piè.

Da quel dì non fe’ che andare,
Andar sempre, andare andar…
Quando a piè d’un casolare
Vide un lago, ed era il mar!

Sospettollo… e impensierito
Saviamente si fermò
Poi chinossi, e con un dito
A buon conto l’assaggiò.

Come fu sul bastimento,
Ben gli venne il mal di mar
Ma l’Anselmo in un momento
Mise fuori il desinar.

[La città di Costantino
nello scorgerlo tremò
brandir volle il bicchierino
ma il Corano lo vietò.

Il Sultano in tal frangente
Mandò il palo ad aguzzar,
Ma l’Anselmo previdente
Fin le brache avea d’acciar.]

Pipe, sciabole, tappeti,
Mezze lune, jatagan,
Odalische, minareti,
Già imballati avea il Sultan.

Quando presso ai Salamini
Sete ria incominciò,
E l’Anselmo coi più fini
Prese l’elmo, e a bere andò.

Ma nell’elmo, il crederete?
C’era in fondo un forellin
E in tre dì morì di sete
Senza accorgersi il tapin.

Passa un giorno, passa l’altro,
Mai non torna il guerrier
Perch’egli era molto scaltro
Andò in guerra col cimier.

Col cimiero sulla testa,
Ma sul fondo non guardò
E così gli avvenne questa
Che mai più non ritornò.

La nota poesia (ma non se ne ricorda più nessuno, e nemmeno io me ne sarei ricordato, se qualcuno non mi avesse smosso la memoria stamattina, complice Tullio De Mauro) è stata scritta da Giovanni Visconti Venosta (Milano 1831-1906), fratello del marchese Emilio, patriota milanese alle Cinque Giornate.

Giovanni Visconti Venosta era originario della Valtellina e, dopo Giulio Tremonti, ne rimane il principale umorista.

Governare è asfaltare?

“Governare non è asfaltare”, amava ripetere Bettino Craxi. “Governare è asfaltare”, pare abbia detto – recentemente – Giulio Tremonti.

Allora?

Se guardiamo all’etimologia, in prima battuta ha ragione Bettino: “governare” viene dal greco Κυβερνήτης attraverso il latino gubernare (“reggere il timone”). La radice è la stessa di “cibernetica” e include il riferimento a Κυβε (“testa”, da cui deriva l’italiano “capo”). Tutto si tiene, dunque? Stiamo parlando di sistemi di controllo, in senso un po’ tecnocratico, e la nobile arte di asfaltare non c’entra nulla. Craxi-Tremonti 1-0.

Un momento. Parliamo di strategia. Governare non è asfaltare, è avere una strategia. O no?

Lo stratega, nell’antica Grecia, era il comandante militare (στρατός + ηγούμαι, cioè il comandante dell’accampamento – ηγούμαι è il verbo da cui viene “egemonia”). L’accampamento è στρατός perché era “disteso”, “dispiegato” sul terreno. Noi conserviamo la stessa radice, pressoché uguale, nella parola “strato”. In inglese, dalla medesima radice deriva street, “strada” (eh già, anche l’italiano strada deriva da στρατός).

E quindi, Tremonti pareggia. Anzi, con i tempi che corrono, mi sa che vince.

Capito lo stratagemma?

Non maledire – 25 aprile 2009

Finalmente la canzone (di cui avevo già parlato in un post di quasi un anno fa)  è ora disponibile su YouTube:

Il testo è di L. Lunari e la musica del maestro Gino Negri.

Non maledire questo nostro tempo
Non invidiare chi nascerà domani,
chi potrà vivere in un mondo felice
senza sporcarsi l’anima e le mani.
Noi siam vissuti come abbiam’ voluto
negli anni oscuri senza libertà.
Siamo passati tra le forche e i cannoni
chiudendo gli occhi e il cuore alla pietà.

Ma anche dopo il più duro degli inverni
ritorna sempre la dolce primavera,
la nuova vita che comincia stamattina,
di queste mani sporche a una bandiera.
Non siamo più né carne da cannone
né voci vuote che dicono di sì.
A chi è caduto per la strada noi giuriamo
pei loro figli non sarà così.

Vogliamo un mondo fatto per la gente
di cui ciascuno possa dire “è mio”,
dove sia bello lavorare e far l’amore,
dove il morire sia volontà di dio.
Vogliamo un mondo senza patrie in armi,
senza confini tracciati coi coltelli.
L’uomo ha due patrie, una è la sua casa,
e l’altro è il mondo, e tutti siam’ fratelli.

Vogliamo un mondo senza ingiusti sprechi,
quando c’è ancora chi di fame muore.
Vogliamo un mondo in cui chi ruba va in galera,
anche se ruba in nome del signore.
Vogliamo un mondo senza più crociate
contro chi vive come più gli piace.
Vogliamo un mondo in cui chi uccide è un assassino,
anche se uccide in nome della pace.

Il testo richiama quello di una poesia di Bertolt Brecht, An die Nachgeborenen (A quelli nati dopo di noi), che la scrisse in esilio durante la dittatura hitleriana. Qui la potete sentire letta da lui (emozionantissimo!).

Fu musicata da Hanns Eisler: qui la canta Dietrich Fischer.Dieskau:

Dopo il testo in tedesco, ho messo la traduzione italiana di Roberto Fertonani (Bertolt Brecht. Poesie scelte. Milano: Mondadori. 1971).

AN DIE NACHGEBORENEN

1.

Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten!
Das arglose Wort ist töricht. Eine glatte Stirn
Deutet auf Unempfindlichkeit hin. Der Lachende
Hat die furchtbare Nachricht
Nur noch nicht empfangen.

Was sind das für Zeiten, wo
Ein Gespräch über Bäume fast ein Verbrechen ist.
Weil es ein Schweigen über so viele Untaten einschließt!
Der dort ruhig über die Straße geht
Ist wohl nicht mehr erreichbar für seine Freunde
Die in Not sind?

Es ist wahr: ich verdiene noch meinen Unterhalt.
Aber glaubt mir: das ist nur ein Zufall. Nichts
Von dem, was ich tue, berechtigt mich dazu, mich sattzuessen.
Zufällig bin ich verschont. (Wenn mein Glück aussetzt
Bin ich verloren.)
Man sagt mir: Iß und trink du! Sei froh, daß du hast!

Aber wie kann ich essen und trinken, wenn
Ich dem Hungernden entreiße, was ich esse, und
Mein Glas VVasser einem Verdurstenden fehlt?
Und doch esse und trinke ich.

Ich wäre gern auch weise.
In den alten Büchern steht, was weise ist:
Sich aus dem Streit der Welt halten und die kurze Zeit
Ohne Furcht verbringen.

Aber ohne Gewalt auskommen
Böses mit Gutem vergelten
Seine Wünsche nicht erfüllen, sondern vergessen
Gilt für weise.
Alles das kann ich nicht:
Wirklich ich lebe in finsteren Zeiten!

2.

In die Städte kam ich zur Zeit der Unordnung
Als da Hunger herrschte.
Unter die Menschen kam ich zur Zeit des Aufruhrs
Und ich empörte mich mit ihnen.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.

Mein Essen aß ich zwischen den Schlachten.
Schlafen legte ich mich unter die Mörder.
Der Liebe pflegte ich achtlos
Und die Natur sah ich ohne Geduld.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.

Die Straßen führten in den Sumpf zu meiner Zeit.
Die Sprache verriet mich dem Schlächter.
Ich vermochte nur wenig. Aber die Herrschenden
Saßen ohne mich sicherer, das hoffte ich.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.

Die Kräfte waren gering. Das Ziel
Lag in großer Ferne.
Es war deutlich sichtbar, wenn auch für mich
Kaum zu erreichen. So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.

3.

Ihr, die ihr auftauchen werdet aus der Flut
In der wir untergegangen sind
Gedenkt
Wenn ihr von unseren Schwächen sprecht
Auch der finsteren Zeit
Der ihr entronnen seid.

Gingen wir doch, öfter als die Schuhe die Länder wechselnd
Durch die Kriege der Klassen, verzweifelt
Wenn da nur Unrecht war und keine Empörung.

Dabei wissen wir doch:
Auch der Haß gegen die Niedrigkeit
Verzerrt die Züge.
Auch der Zorn über das Unrecht
Macht die Stimme heiser. Ach, wir
Die wir den Boden bereiten wollten für Freundlichkeit
Konnten selber nicht freundlich sein.
Ihr aber, wenn es soweit sein wird
Daß der Mensch dem Menschen ein Helfer ist
Gedenkt unsrer
Mit Nachsicht.

Traduzione di Roberto Fertonani:

A COLORO CHE VERRANNO

1.

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.

Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perchè su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’affanno?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che fo m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
e sono perduto).

“Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!

2.

Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

3.

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si potè essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

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Povertà assoluta

Oggi (22 aprile 2009) l’Istat ha pubblicato le stime della povertà assoluta nel 2007. La Repubblica riporta la notizia così:

Istat, 2,5 milioni in povertà
Al Sud una famiglia ogni 5

ROMA – Quasi 2 milioni e mezzo di persone, il 4% dell’intera popolazione, vive in Italia in condizioni di povertà assoluta. Lo rileva l’Istat nel rapporto 2007 sulla povertà, in epoca lontana dall’attuale crisi economica mondiale. Nulla è cambiato fra il 2005 e il 2007. L’incidenza di povertà assoluta è rimasta stabile, e immutate sono anche le caratteristiche delle 975 mila famiglie più povere: quelle numerose, con tre o più figli, dove il capofamiglia è disoccupato o pensionato, ha abbandonato la scuola dopo la licenza media, oppure è un anziano che vive solo.

Peggio tra tutte le Regioni, il Sud e le isole dove l’incidenza di povertà assoluta (5,8%) è quasi doppia rispetto a quella osservata nel Nord (3,5%) o al Centro Italia (2,9%). “Sono i più poveri tra i poveri – ha spiegato Linda Laura Sabbadini che ha curato la statistica – che non vivono una vita minimamente accettabile”. Coloro che sono costretti a spendere meno di 700 euro al mese. E sono tante le famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà: circa una famiglia ogni sei in Italia, più di una ogni cinque nel Sud.

Un momento: se le famiglie che vivono in povertà assoluta sono il 4,1% delle famiglie italiane, sono 1 su 24, non 1 su 6. E nel Mezzogiorno (dove sono il 5,8%) sono 1 su 17, non 1 su 5. Il solito analfabetismo aritmetico dei nostri giornalisti.

(Mi viene il sospetto che i giornalisti abbiano frainteso il concetto di intensità della povertà, ma qui ci inoltreremmo in un discorso troppo complesso per svilupparlo qui).

Consoliamoci pensando alla povertà assolata di Mappatella Beach.

Compleanni infausti

120 anni fa, il 20 aprile 1889, nasceva Adolf Hitler.

Le teste di cazzo di tutto il mondo festeggiano.

Qui sopra una delle tante celebrazioni dello scorso anno, con la presenza di un personaggio di spicco dei Repubblicani dell’Indiana (amici stretti dei nazisti dell’Illinois dei Blues Brothers).

Arte topiaria

L’arte topiaria è l’arte di potare alberi e arbusti al fine di dare loro, a scopo ornamentale, una forma definita e diversa da quella naturalmente assunta dalla pianta. La forma può essere geometrica (il caso più semplice è la siepe) oppure riprodurre animali, oggetti, persone.

Io ne ho visto con i miei occhi dei begli esempi al Parco Sigurtà di Valeggio sul Mincio e, in Francia, un brontosauro in Normandia e una pipa davanti alla cattedrale di St. Claude nel Giura. Qui un’immagine dal web.

Il topiarius era l’apposito giardiniere (come molte cose inutili e costose, questa pratica è di origine romana e adornava le ville patrizie: ne parla Plinio nella sua Historia Naturalis, xii.6) e il nome viene a sua volta dal greco τόπος (“luogo”, quello della topografia, ma per estensione “paesaggio”).

I topi, quale che ne sia il sesso, non c’entrano nulla. O forse sì…

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Traffic: Why We Drive the Way We Do (and What it Says About Us)

Vanderbilt, Tom (2008). Traffic: Why We Drive the Way We Do (and What it Says About Us). London: Allen Lane. 2008.

Ho la tentazione di scrivere che questo libro è un esempio pressoché perfetto di come non si dovrebbe fare divulgazione scientifica. È un libro documentatissimo: delle sue 400 e passa pagine, 110 sono di note. Ma, forse proprio per questo l’autore si disperde in una miriade di argomenti senza approfondirne nessuno, presenta decine di teorie e ci racconta dozzine di incontri con esperti di ogni materia e nazionalità. Un sacco di aneddoti, ma nessuna presa di posizione convincente. Troppa carne al fuoco e nemmeno cucinata troppo bene. Per di più, l’aneddotica è infarcita di luoghi comuni: basta vedere quello che si dice del traffico romano. E allora come fidarsi delle altre “evidenze aneddotiche” che ci presenta?

Bene. Fine della stroncatura. Passiamo ai lati positivi, che non possono non esserci in un libro così ricco e documentato. Alcune illustrazioni di teorie mi sono sembrate ben riuscite: ma si trattava in genere di cose che conoscevo già, e la mia ammirazione va soltanto a qualche esempio o spiegazione illuminante. Ad esempio, che il traffico non va modellato sul comportamento di un fluido, ma di una sostanza granulosa: versate in un imbuto alternativamente dell’acqua o del riso e capirete subito la differenza. E anche la storia del traffico a Pompei, ricostruito a partire dai solchi sul basolato, non è male.

Forse avrei imparato qualcosa di più se guidassi: ma non ho la patente. La cosa più divertente che ho imparato è che, contrariamente a quanto pensavo, è più razionale chi – di fronte a un cartello che segnala una riduzione di carreggiata in autostrada – non rientra subito ma aspetta l’ultimo momento. Questo comportamento non è vantaggioso soltanto per lui, ma anche per la fluidità del traffico nel suo insieme.

Ma forse sono troppo severo. fatevi un’idea da soli seguendo questo lungo intervento dell’autore alla “scuola” di Google a Mountain View.

Rufus Thomas – The Funky Chicken

Che cosa c’è di meglio, per scacciare l’abulia di un grigio e freddo pomeriggio romano di lavoro (è sabato!), che l’irresistibile hit del 1969 (in Italia lo trasmetteva ossessivamente Renzo Arbore a Per voi giovani).

Se volete imparare anche voi, si fa così:

You may have heard of THE FUNKY CHICKEN – the craziest dance ever. Now it is possible for you to learn this dance in the privacy of your own home. With these careful instructions, you should be able to master this fine art within days.

Look cool and relax, concentrating on the thumping beat of the bass drum. Tapping toes or nodding the head helps. Beginners are advised to count from 1 to 4. Do not move lips.

Stand with feet slightly apart. Both hands are tucked under the armpits to make wings. Flap down on every beat, and back up in time for the next. Practice for ten minutes.

Kick one foot out and back a little on 1, placing it back on 2. The other foor is kicked out on 3, to be back on 4.

Combine the two basic moves. After a while, you should be able to do this without much thought.

Both arms are held up across the face. Wiggle knees as if they are made of rubber.

Imagine you are a crazy chicken. Scratch the floor while making clucking sounds.

E se non bastasse, un’informazione veramente inutile: Rufus Thomas è (ma è morto a 84 anni nel 2001) il papà di Carla Thomas (Queen of Memphis soul e interprete di storici duetti con Otis Redding)

Cause naturali [2]

Un aggiornamento (tardivo, e me ne scuso). Il manifestante morto per cause naturali durante il G20 di Londra il 1° aprile “Non è morto per un attacco di cuore, ma per un’emorragia interna”. Ce lo rivela la Repubblica.it.

Anche se non capite l’inglese del commento, le immagini pubblicate dl Guardian sono piuttosto chiare.

In questo servizio di SkyNews si vede, più tardi, la sequenza della sua morte e il percorso che aveva fatto quella mattina. So benissimo che post hoc non implica propter hoc, ma penso che ci siano molte domande cui la polizia inglese deve dare risposte convincenti.

Quello che certo è che anche la “mano poliziotta” è una causa naturale.