Concita De Gregorio – Nella notte

De Gregorio, Concita (2019). Nella notte. Milano: Feltrinelli. 2019. ISBN: 9788858835906. Pagine 202. 9,99€

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Concita De Gregorio scrive molto bene e, spesso, i suoi articoli dicono cose intelligenti, non scontate. Insomma: non mi ritengo un suo fan sfegatato, ma la seguo sempre con interesse, negli articoli che scrive e quando mi capita di sentirla alla radio o di vederla in televisione. Quando, all’annuncio di questo suo romanzo, ho saputo che la notte del titolo era quella della mancata elezione a presidente della repubblica di Franco Marini prima, e di Romano Prodi poi, nell’aprile del 2013, ho deciso di leggerlo subito, nella speranza di imparare qualche cosa di nuovo su un momento particolarmente oscuro della storia recente.

Sono rimasto deluso, sia sotto il profilo storico, sia sotto quello più strettamente narrativo.

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Chris Pavone – The Paris Diversion

Pavone, Chris (2019). The Paris Diversion. New York: Crown. 2019. ISBN: 9781524761523. Pagine 374. 8,60€

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Del medesimo autore avevo letto The Expats, che mi era piaciuto soprattutto per l’ambientazione al Lussemburgo, città che conosco molto bene per motivi professionali. Comprensibile, quindi che una volta appreso che era in uscita una specie di sequel del primo romanzo, con la stessa protagonista, Kate Moore, non abbia resistito alla tentazione di gettarmi sulla sua nuova avventura.

Peccato che – a parte l’ambientazione – del precedente romanzo ricordassi ben poco, se non che la protagonista (e, per la verità, quasi tutti gli altri personaggi) non sono quello che sembrano essere a prima vista. Purtroppo, la recensione che avevo fatto di The Expats (che trovate qui) non si è rivelata di molto aiuto: preoccupato di non dire troppo per non rovinare il gusto della lettura di un thriller ai miei lettori, ero stato fin troppo reticente.

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Che fare quando il mondo è in fiamme?

Che fare quando il mondo è in fiamme? (What You Gonna Do When the World’s on Fire?), 2018, di Roberto Minervini, con Kevin Goodman, Dorothy Hill e Judy Hill.

What You Gonna Do When the World's on Fire? (2018)
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Non mi va proprio di scrivere una recensione negativa di un film di un giovane regista italiano (oddio, giovane: l’anno prossimo ne fa 50). Però a me il film non è piaciuto. Peggio: non ci ho capito nulla.

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Steven Pinker – Enlightenment Now: The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress

Pinker, Steven (2018). Enlightenment Now: The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress. New York: Viking. ISBN: 9780698177888. Pagine 576. 11,99€.

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Non so se posso definire un pamphlet un libro di oltre 500 pagine.

A rigore no, perche secondo il Vocabolario Treccani il pamphlet (“dall’inglese pamphlet «opuscolo», a sua volta dall’antico francese Pamphilet, titolo popolare della commedia latina in versi Pamphilus seu de amore, del secolo XII, che acquistò, in Francia, il significato odierno nel secolo XVIII”) è un “libello, breve scritto di carattere polemico o satirico”. Questo carattere polemico, però, è nell’esplicito intento dell’autore, che afferma di avere scritto questo libro dopo essersi reso conto che il principio illuminista secondo cui si può applicare la ragione per promuovere il progresso umano può sembrare ovvio, banale e antiquato ma non lo è affatto, e che – oggi più che mai – gli ideali della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso hanno bisogno di una difesa incondizionata.

È dunque un pamphlet nei contenuti, e anche nella forma, se si considera la passione e la veemenza con cui Pinker – che è uno scienziato per formazione – inanella le sue considerazioni, sempre sostenute da una mole ampia e accurata di dati, grafici e tabelle. È l’attenzione maniacale all’accuratezza delle argomentazioni, alla volontà di farci capire ogni passaggio, alla completezza della documentazione che giustificano la lunghezza del testo, che però si legge senza fatica.

Il libro ha moltissimo meriti e consiglio vivamente di leggerlo.

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Le vespe sono più intelligenti delle api

Ho molta paura delle vespe, e per questo mi interessano (ne ho parlato brevemente qui), e anch’io interesso a loro (mi hanno punto molte volte). Immaginavo fosse perché attratte dall’odore della mia paura, come accade per i cani. Invece, la spiegazione potrebbe essere diversa: potrebbe essere l’effetto di una loro inattesa capacità logica.

edition.cnn.com

La notizia è stata diffusa dalla CNN in un articolo di Jack Guy pubblicato l’8 maggio 2019 (“Never underestimate a wasp – new study shows they’re smarter than we thought“), che a sua volta cita uno studio di Elizabeth Tibbetts e colleghi dell’Università del Michigan (“Paper wasps capable of behavior that resembles logical reasoning“)

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1° maggio 1971 (riproposto)

Ripropongo (perché mi sembra ancora attuale) un provocatorio quanto attuale editoriale comparso su il manifesto – che era allora un neonato di pochi giorni – il 1° maggio 1971.

CONTRO IL LAVORO
il manifesto

Il primo maggio non è la festa del lavoro, come dice e vuole la liturgia del movimento operaio riformista o clericale. È la festa contro il lavoro: contro il lavoro per ciò che esso è e sarà sempre in una società capitalistica, in una società divisa in classi, in una società mercantile.
Questo i proletari non ci mettono molto a capirlo. E infatti, il solo modo che hanno di celebrare la loro giornata è quello di non lavorare. Il primo maggio è nato ed è vissuto per lunghi anni come uno sciopero, come uno scontro.
Non è una distinzione formale, una sottigliezza ideologica. Il problema del lavoro e dell’atteggiamento verso di esso è sempre stato il nodo profondo del marxismo: la vera discriminazione tra marxismo rivoluzionario e revisionismo.
Qual è il problema per i revisionisti? Quello di dare al lavoro la giusta remunerazione e di fondare una nuova civiltà del lavoro: chi non lavora non mangia. Qual è il problema per i rivoluzionari? Quello di abolire il lavoro salariato, cioè, oggi, il lavoro stesso, per costruire una civiltà fondata sulla libera e collettiva attività creatrice e su rapporti non mercificati fra gli uomini: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità. Qui sta tutta la differenza tra socialismo come società capitalistica meno diseguale e più opulenta, e socialismo come rovesciamento del capitalismo dalle fondamenta.
Non si tratta, per il marxismo, di una ingenuità anarchica, del mito del buon selvaggio. Nessuno più di Marx ha fatto del lavoro il centro motore della storia, l’uomo stesso è il prodotto del suo lavoro. Ma proprio col suo lavoro l’uomo ha dominato la natura, ne ha decifrato le leggi, ha trasformato se stesso fino al punto in cui può rovesciare la storia e liberarsi dal lavoro come prima e ultima schiavitù, come qualcosa di estraneo a lui, di accettato per la necessità della sopravvivenza.
Il capitalismo è il momento storico in cui questa contraddizione e la possibilità di superarla maturano insieme. Da un lato il lavoro diventa, come lavoro salariato, fino in fondo e per tutti una realtà esterna, senza senso e contenuti, una alienazione insopportabile; dall’altro esso ha ormai prodotto un livello di forze produttive, prima fra tutte la capacità razionale dell’uomo, che consente il salto ad un ordine sociale in cui il lavoro, per ciò che è stato fin qui, sia soppresso. Soppresso non per lasciar posto ad un ozio stupido e al faticoso `tempo libero’ — che è solo l’altra faccia del lavoro alienato — ma ad un complesso di libera attività collettiva e di riposo creativo di una nuova capacità. Di tale attività, la produzione materiale dei mezzi di sussistenza può diventare un sottoprodotto naturale, progressivamente affidato alle macchine, che non giustifica assolutamente più né lo sfruttamento economico né la dominazione politica. Questa è l’essenza della rivoluzione comunista, della soppressione della proprietà privata, delle classi e dello stato. Ribellione alla condanna biblica: tu lavorerai con fatica.
Non è un caso che questo nucleo radicale del marxismo sia stato dimenticato o sia rimasto minoritario nel movimento operaio. Gli operai, come tutti gli uomini, possono porsi solo i problemi che sono effettivamente in grado di risolvere. Solo nella nostra epoca, della piena maturità del capitalismo e della sua degenerazione imperialistica, le grandi masse dell’occidente che hanno avuto dallo sviluppo capitalistico tutto ciò che potevano avere pagandolo con lo sfruttamento, e le grandi masse dell’oriente che dal capitalismo potrebbero avere solo fame e guerra, possono porsi realmente il problema del comunismo. Cioè il problema non solo di maggiore consumo e di lavoro sicuro, ma di un diverso significato del lavoro e del consumo. Qual è, se non questo, il senso profondo delle lotte di massa di operai, studenti, intellettuali degli ultimi anni? Qual’è, se non questo, il significato universale della rivoluzione culturale cinese?
Certo, tutto ciò può anche alimentare spinte ingenuamente neoanarchiche, l’illusione che si possa abolire il capitalismo d’un colpo; ribellarsi alla logica della produzione e ‘rifiutare il lavoro’ con un atto di ribellione soggettivistica e distruttiva; o usare delle macchine e degli uomini così come sono per una organizzazione comunista della società, senza una lunga e faticosa trasformazione delle une e degli altri, senza una società di transizione, e dunque senza organizzazione, violenza, sacrificio, invenzione, educazione. Ma ciò che oggi importa, come importava per Lenin, è cogliere in queste spinte ‘ingenue’ il nucleo di verità che oggi è maggiore di ieri, e senza del quale non è più possibile sfuggire all’egemonia ideale del capitalismo.
Questo vogliamo ricordare il primo maggio: per riscoprirne fino in fondo il significato di festa politica, di festa rivoluzionaria.

Cafarnao – Caos e miracoli

Cafarnao – Caos e miracoli(Capharnaüm), 2018, di Nadine Labaki, con Zain Al Rafeea, Yordanos Shiferaw e Boluwatife Treasure Bankole.

Capharnaüm (2018)
imdb.com

Un pugno nello stomaco, ma anche un melodramma curato e ben riuscito (ma perché melodramma ha ormai sempre una connotazione negativa? non ci sono capolavori anche tra i melodrammi?). Un film che ha vinto molti premi (come si vede nella locandina qui sopra), ma che ha anche ricevuto critiche negative, o quanto meno perplesse. Gioca sui sentimenti, si dice. Probabile, ma le situazioni rappresentate sono reali. Siamo noi che non vogliamo vederle, ci giriamo dall’altra parte o semplicemente le ignoriamo. Non compaiono mai nelle bolle informative e cognitive in cui viviamo.

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Notre-Dame, la bibbia di pietra e lo stormo d’uccelli

Dopo l’incendio della cattedrale di Notre-Dame a Parigi sono state dette e scritte molte cose, spesso irrilevanti o stupide. Non voglio aggiungermi al coro.

Però vorrei dire che – nella mia modesta opinione – un punto centrale delle riflessioni che la distruzione della cattedrale già sta suscitando è quello dell’identità. Non tanto del rapporto tra il monumento e l’identità francese, che pure esiste ed è rilevante, ma della stessa identità della cattedrale stessa. L’identità di cui parliamo qui non è l’identità nella sua accezione logico-matematica di perfetta eguaglianza, ma in quella propria del linguaggio comune quando si fa riferimento all’identità di una persona come “entità distinta dalle altre e continua nel tempo”, come la definisce il Vocabolario Treccani. Non c’è dubbio che ognuno di noi ha il senso della propria identità, “il senso e la consapevolezza di sé” (è sempre i Vocabolario Treccani che ci soccorre), anche se in “un essere umano adulto ogni giorno muoiono dai 50 ai 100 miliardi di cellule” e in “un anno la massa delle cellule ricambiate è pari alla massa del corpo stesso” (lo afferma qui il prof. Paolo Pinton). E anche a fronte di un evento traumatico, come l’amputazione di un arto, non smettiamo neppure per un secondo di pensare che, nonostante quella perdita, siamo rimasti noi stessi.

Lo stesso – è quello che voglio dire – accade per le città e per gli edifici. L’identità di una città, nel senso che ho cercato di argomentare, non cambia al mutare delle vicende demografiche o dell’estensione dell’abitato. L’identità di una cattedrale non cambia per effetto dei periodici interventi di manutenzione cui è sottoposta. E, secondo me, non cambia neppure quali che siano le travagliate vicende che attraversa nella sua vita: dalla fantasia neogotica di Viollet-le-Duc nella seconda metà del XIX secolo a quella che sarà la ricostruzione da intraprendere ora.

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Ezio Sinigaglia – Il pantarèi

Sinigaglia, Ezio (2019). Il pantarèi. Alberobello: TerraRossa Edizioni. ISBN: 9788894845075. Pagine 312. 14,00 €.

Anche questa lettura ha una storia, che parte da lontano.

Paolo Natale ha frequentato il mio stesso liceo. Di un paio d’anni più piccolo di me, e quindi due anni indietro. Uno dei piccoli, secondo le categorie impietose che si usavano allora (e forse si usano ancora). Per di più faceva lo scientifico, e io il classico. Però si faceva notare, perché era molto vivace, brillante, ironico (anzi sarcastico). Poi, nel 1971 ho fatto la maturità e ho seguito strade diverse. Però Paolo Natale ha assunto di recente una sua visibilità che me lo ha fatto incontrare di nuovo, anche se solo virtualmente: è un professore di scienze politiche a Milano, politologo e metodologo della ricerca sociale, esperto di elezioni e flussi elettorali. Scrive su Gli stati generali e io leggo sistematicamente i suoi interventi, sempre puntuali e stimolanti. Ricordo con piacere e con orgoglio di averlo incrociato da ragazzo.

Mi ha dunque stupito, poco più di un mese fa (il 5 febbraio 2019, per l’esattezza) leggere una sua recensione di un libro, entusiastica fin dal titolo: Un libro indimenticabile. Fidandomi del giudizio di Paolo Natale ed essendo un lettore vorace e compulsivo, mi sono affettato a ordinarlo (su carta: non c’è, per quanto ne so io, un’edizione digitale) e leggerlo. Sono forse un po’ meno entusiasta dell’inaspettato recensore, ma è un bel romanzo.

La tentazione di riprodurre qui per intero la recensione di Natale è forte, ma resisterò (almeno in parte). Chi è interessato se la vada a leggere al link che ho messo sopra. A me serve però riportarne almeno una parte, per mettere meglio in luce le sensazioni e le differenze che la lettura ha provocato in me. Allora, cominciamo da Natale (anche se oggi è il mercoledì delle ceneri: immagino che queste battute gliele facessero dai tempi dell’asilo, ma non so resistere).

Era il lontano 1985. Coltivavo tiepide velleità letterarie, a quei tempi, ipotizzando l’idea che il moribondo romanzo dovesse venir sostituito con racconti di una o due paginette, unica forma di scrittura adatta ai tempi brevi del secolo breve. Vedete?, dicevo, tutti i grandi romanzi sono già stati scritti, nella forma tradizionale ottocentesca e poi in quella più rivoluzionaria del Novecento, da Proust a Joyce, da Kafka a Musil. Che senso ha riproporne altri, che non raggiungeranno mai le vette di quei capolavori? Se qualcuno vuole leggersi un bel libro, vada a riprendersi quelli: non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Un amico, sentendomi puntualizzare spesso queste mie apodittiche argomentazioni giovanili, si presentò un bel giorno con un romanzo fresco di stampa, uscito da una piccola casa editrice, di un suo vecchio compagno di scuola. […] Leggilo, mi disse, forse ti farà cambiare idea sulla morte del romanzo.
Iniziai, un po’ scettico per la verità. Ma quell’iniziale scetticismo durò esattamente una pagina e mezzo, dopo le quali mi resi conto di star leggendo un piccolo capolavoro. Il racconto intenso e ironico delle avventure del suo protagonista, Daniele Stern, nella Milano degli anni Ottanta, interagiva con i brevi ma azzeccati intermezzi saggistici, che descrivevano l’opera fondamentale dei più rilevanti scrittori del Novecento, protagonisti della destrutturazione del romanzo classico.

[…]

Ma il romanzo, oh, il romanzo era un piccolo gioiello, scritto da un trentenne che pareva avere la maturità di un cinquantenne, di un consumato scrittore che riesca ad indovinare tutte le parole giuste al momento giusto, con ritmi e cadenze degne di un consumato forgiatore dell’anima, come ciò che voleva diventare il Dedalus di Joyce.

[…]

E oggi, rileggendolo per la terza o quarta volta, in questa nuova ri-edizione, il piacere della lettura si rinnova a distanza di quasi 35 anni, immutato. Di cosa parla questo libro quasi-inedito? Parla di noi, parla della scrittura, parla dell’evoluzione del romanzo, parla della nostra storia, del nostro rapporto con la vita, con l’amore, con se stessi e con chi gravita intorno a noi, della società e dei tristi o gioiosi protagonisti della nostra vita quotidiana, delle cadute e delle risalite, del coinvolgimento e del distacco, dell’ironia con cui vivere la nostra esistenza, e delle nostre paure di essere all’altezza di noi stessi, senza arretramenti e ignavie.
Non si può raccontare, non è possibile farne un breve riassunto. Bisogna leggerlo, immergersi nelle sue parole, nel racconto di una settimana che cambia la vita del suo protagonista e della storia del romanzo, della sua rinascita, proprio quando tutto pareva in via di estinzione. Il Pantarei è il più bel libro scritto negli ultimi 40 anni in Italia, e leggerlo è obbligatorio.
In my opinion.

Vabbè, alla fine l’ho riportata quasi tutta. Sono d’accordo su quasi tutto, fuorché su alcuni punti.

Il primo è che, secondo me, “i brevi ma azzeccati intermezzi saggistici” sono tutt’altro che intermezzi. Non lo dico io. Lo dice l’autore nella prefazione alla nuova edizione:

Il progetto nacque con una sua sorprendente unità da una meravigliosa notte d’insonnia durante la quale, disteso nella camera in penombra accanto alla mia sposa addormentata, vidi due ascensori percorrere quasi simultaneamente, dal basso verso l’alto, le due trombe delle scale parallele di un palazzone di sette o otto piani che si ergeva al di là del piccolo giardino di casa nostra. Ciascuna delle due gabbie illuminate degli ascensori rischiarava via via il finestrone di vetro smerigliato di un pianerottolo e, mentre a sinistra si accendeva per esempio quello del quarto, del quinto, del sesto piano, a destra splendeva quello del terzo, del quarto, del quinto, in una sequenza ordinata della quale nessuno oltre a me poteva avere coscienza.

Uno spettacolo messo in scena per me soltanto, per illuminare la scaletta del mio romanzo, rivelandomi che le scalette, in realtà, erano due.

Così il mio progetto nacque già equipaggiato di uno schema pressoché completo e fornito di un titolo che riproduceva fedelmente la struttura binaria dell’insieme: I romanzi e i giorni.

I romanzi stavano sull’ascensore di sinistra, i giorni su quello di destra. I romanzi erano la scala saggistica, i giorni quella narrativa.

Semplicissimo, come sono quasi sempre i buoni progetti. (pp. 7-8)

Aggiungo io: i saggi non sono per niente banali e svolgono una funzione strutturale, come spiega lo stesso Sinigaglia. Inoltre, gli autori di cui si analizza l’opera (Proust, Joyce, Musil, Svevo, Kafka, Céline, Faulkner e Robbe-Grillet) influenzano il protagonista Daniele Stern sia in quello che è (e questo lo scrive anche Sinigaglia, sempre nella prefazione: “Se è vero che II pantarèi mette in scena nella sua metà narrativa la stessa storia raccontata nella metà saggistica, cioè la storia del romanzo del Novecento, è logico dedurne che Stern debba essere un personaggio emblematico, capace di incarnare un po’ Marcel e un po’ Dedalus, un po’ Ulrich e un po’ Bloom, un po’ Zeno e un po’ K. Personaggi certo assai diversi l’uno dall’altro, ma accomunati dalla loro natura di anti-eroi. Uomini senza qualità, per parafrasare Musil […] – p. 10), sia nella scrittura stessa della parte romanzesca, che mima via via lo stile degli autori citati, anche se non in una corrispondenza uno-a-uno tra capitolo del saggio e parte della vicenda narrata. Questo è a volte un punto di forza, ma altre un punto di debolezza, perché spesso, e soprattutto nella parte finale, la mimesi stilistica mi sembra prendere il sopravvento sulla storia, che a questo punto ci ha catturato. My humble opinion, va da sé. Chissà se qualcuno l’ha scritto anche a proposito dell’Ulysses…

Questo poi è il mio secondo punto, tutto sommato. Perché la mia impressione è che il romanzo inizi magnificamente (anch’io – come Natale – non riuscivo a metterlo giù, e per di più tormentavo la mia compagna infliggendoli brani più o meno lunghi letti ad alta voce), ma finisca in modo deludente. Desinit in piscem, come diceva Orazio.

Però, in conclusione, leggetelo e scopritelo, questo piccolo gioiello.

Mulholland Drive

Mulholland Drive (Mulholland Dr.), 2001, di David Lynch, con Naomi Watts, Laura Harring e Justin Theroux.

Naomi Watts in Mulholland Dr. (2001)
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Visto quando uscì (a Parigi, ricordo) e rivisto pochi giorni fa.

La prima volta mi era sembrato molto più incomprensibile che in questa seconda visione. Ero uscito dalla sala affascinato dalle immagini, dalla maestria del regista, dalla bellezza delle scene e della musica, dalla bravura delle attrici (e soprattutto di Naomi Watts). Ma ero confuso: che cosa avevo visto? che storia mi avevano raccontato? Mi ero rifugiato in poche certezze impressionistiche: il rinvio a un film di culto (almeno per me: Eva contro Eva di Mankiewitz), il cinema sul cinema (troppi esempi e riferimenti per citarli tutti), Hollywood come bosco sacro, La tempesta di Shakespeare (“We are such stuff / As dreams are made on, and our little life / Is rounded with a sleep.”). Poco più. D’altra parte, come raccomanda lo stesso Lynch: Silencio!

C’era poi un fondo d’irritazione: la suspension of disbelief può tutto. Ci fa credere a Biancaneve e i sette nani, a Babbo natale e alla Befana, all’intero pantheon delle divinità, alla “favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude”. E può tanto più, quanto più si mettono al suo servizio le tecnologie (in senso lato): la voce ipnotizzante di Omero che racconta la guerra di Troia, la scrittura romanzesca, il cinema (lo specifico filmico di Pudovkin). E adesso la realtà virtuale. Epperò – mi dicevo e mi dico ancora – al di là di un certo limite non vale. Il narratore, lo scrittore, il regista si prende gioco di noi. Non è facile stabilire la linea di confine, eppure c’è. Per il romanzo poliziesco ce n’è più d’una (ne ho parlato in questo blog, in un post chiamato proprio Regole del buon romanzo poliziesco)

In quasi vent’anni, a me e al mendo sono successe tante cose.