La cena

Koch, Herman (2009). La cena (Het Diner). Vicenza: Neri Pozza. 2010.

Troppe portate, in questa cena.

L’autore ci mette praticamente tutto quello che gli passa per la testa. Io sono per l’economia del racconto (a meno che le divagazioni siano programmatiche, come in Sterne). Qui troppe cose sono evocate e alla fine non capiamo se sono rilevanti o irrilevanti per la storia narrata. E non aiuta neppure il troppo non detto (la malattia di Paul, per esempio).

Scrittori non ci si improvvisa. E dei bestseller inaspettati (Firmin docet) è meglio diffidare.

Le perfezioni provvisorie

Carofiglio, Gianrico (2010). Le perfezioni provvisorie. Palermo: Sellerio. 2010.

Le perfezioni provvisorie

ilsole24ore.com

Un po’ di stanchezza. Non so se mia o dell’autore, per la verità. Propendo per la seconda delle ipotesi: nella letteratura di genere, e soprattutto nel poliziesco in cui ritorna, di solito, l’investigatore, l’autore è costretto a qualche bieco trucchetto. Il più facile è lo stereotipo, e subito dopo viene la memoria di casi passati: un modo per imbarcare anche il lettore neofita, che non ha letto le storie precedenti, e al tempo stesso per strizzare l’occhio a quello affezionato. E così la storia della letteratura “gialla” pullula di coltivatori d’orchidee, di cellule grigie e baffi a manubrio, di soluzioni al 7%. In questo caso, Guerrieri prende a pugni il Sacco (con la S maiuscola), e beve sempre un po’ troppo (ma in questo è in buona compagnia).

In questo romanzo non si sfugge all’impressione di essere dentro un abile gioco di citazioni. È abbastanza evidente che siamo in presenza della riscrittura di un celebre racconto di Sherlock Holmes  – anche se il gioco, almeno all’inizio, non è troppo scoperto, immagino, per il lettore episodico (il richiamo al Mastino dei Baskerville è in realtà fuorviante, gioco nel gioco): purtroppo io sono stato un lettore sistematico della raccolta completa (Arthur Conan Doyle, The Penguin Complete Sherlock Holmes), e quindi a me non mi ha fuorviato, e dunque non mi sono lasciato distrarre (peggio per me, cui un po’ del divertimento insito nel fattore sorpresa è stato sottratto). Più una citazione di Auguste Dupin, in particolare quello della Lettera rubata: ma qui il gioco era leggero.

Un romanzetto post-moderno, alla fine.

Pur sempre cosparso di perle, però:

«Le amiche, sì. Premetto che io sono sempre molto cauto con le mie sensazioni sulla spontaneità o sulla sincerità dei testimoni o degli indagati. Sa qual è un buon modo per verificare se un  investigatore è un fesso?»
«No, me lo dica. Può tornare utile».
«Chiedergli se è capace di accorgersi quando qualcuno gli sta mentendo. Quelli che rispondono di sì e dicono che è impossibile raccontare loro delle bugie sono i più fessi di tutti. E sono quelli che un bugiardo bravo si mette in tasca con più facilità e maggiore gusto». [pp. 88-89]

«I manuali suggeriscono di procedere in due fasi, quando si sente un informatore. Nella prima, è meglio lasciarlo parlare liberamente, senza interruzioni e intervenendo solo per fargli percepire che stiamo seguendo il suo discorso. Quando questo racconto libero si è esaurito bisogna passare alle domande specifiche, per i chiarimenti e gli approfondimenti. E alla fine bisogna sempre lasciare una porta aperta. Bisogna dire al teste che sicuramente, dopo, nelle prossime ore o nei prossimi giorni, ricorderà qualche altro dettaglio. Magari gli sembreranno dettagli insignificanti e sarà portato a tenerseli per sé. Questo non deve accadere. Fra quei dettagli apparentemente insignificanti può nascondersi la chiave per risolvere il caso».
«E dunque?»
«E dunque bisogna dire al teste che se gli viene in mente qualche altra cosa – qualsiasi cosa – deve richiamarci. Serve a non disperdere informazioni, ma anche a rinforzare il senso di responsabilità del teste. Se si sente responsabile, si manterrà in uno stato mentale attivo, e questa è la premessa fondamentale per recuperare ulteriori dettagli». [pp. 93-94]

Carofiglio ci offre chiaramente il meglio di sé, quando ci propone il know-how specifico della sua professione.

Particolare soddisfazione – per il lettore compulsivo come me – la offre lo scoprire una citazione implicita (altro sintomo del post-moderno), come questa:

Ha detto qualcuno che gli uomini si dividono nelle categorie degli intelligenti o dei cretini, e dei pigri o degli intraprendenti. Ci sono i cretini pigri, normalmente irrilevanti e innocui, e ci sono gli intelligenti ambiziosi, cui possono essere assegnati compiti importanti, anche se le più grandi imprese, in tutti i campi, vengono quasi sempre realizzate dagli intelligenti pigri. Una cosa però va tenuta a mente: la categoria più pericolosa, da cui ci si possono aspettare i più gravi disastri e da cui bisogna guardarsi con la massima circospezione, è quella dei cretini intraprendenti. [pp. 124-125]

Bellissima parafrasi, con una scelta delle parole,  una padronanza lessicale davvero invidiabili. Magistrale e rigorosissimo l’uso di o-e-o, che ti disegna sotto gli occhi la matrice delle possibili combinazioni. E civettuolo quell’ha detto qualcuno… Ma siamo in grado di svelare l’arcano: l’ha detto Kurt Freiherr von Hammerstein-Equord, e l’ha citato Hans Magnus Enzensberger nel suo bel libro Hammerstein o dell’ostinazione. Nel mio post su quel libro avevo riportato proprio quella citazione.

Un’ultima cosa: bellissima e raffinatissima l’immagine di copertina.

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Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Gadda, Carlo Emilio (1957). Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. In: Romanzi e racconti II. Milano: Garzanti. 2007.

Non penso di doverlo dire io (molti l’avranno certo detto in modo più autorevole) ma siamo qui davanti a uno dei grandi romanzi del Novecento. Su scala mondiale, intendo dire. Ma c’è qualcosa di più, secondo me, che affratella questo romanzo agli altri grandi che vengono in mente: ed è la sensazione che la realtà sia un inestricabile garbuglio senza un discernibile senso e che la città, la grande città, sia il più ambizioso tentativo umano di mettere ordine al caos.

Gadda – bravo ingegnere oltre che grande scrittore – la sua ipotesi la illustra fin dalla seconda pagina:

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.­» sosteneva, tra l’altro, che le inopinate catatastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quannome chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.

La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». [pp. 16-17]

Va da sé che, date queste premesse, ci troviamo davanti a un poliziesco sui generis e non ci aspettiamo di trovare un colpevole, e tanto meno una causa, o causale che sia.

Prima di tornare al tema principale (il caos e la città), consentitemi una digressione sullo gnommero e sullo gliuommero. Lo “gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo” non l’ho trovato attestato altro che in questo celebre brano gaddiano, ed è dunque un hapax [in linguistica e in filologia, un hapax, dal greco ἅπαξ λεγόμενον (hàpax legòmenon, “detto una volta sola”) è una forma linguistica (parola o espressione), che compare una sola volta nell’ambito di un testo, di un autore o dell’intero sistema letterario di una lingua]. Lo gliuommero è invece attestato nel Vocabolario Treccani, sia pure nella variante gliommero.

glïòmmero s. m. [lat. glŏmusmĕris «gomitolo»]. – Voce del dialetto napoletano («gomitolo»), usata anche per indicare un componimento poetico dei secoli 15° e 16°, formato di una serie di endecasillabi con rima al mezzo, in cui si affastellano gli argomenti più varî, allusioni a fatti del giorno, ricordi di vecchie storie, proverbî, ecc.

Ma, per tornare ai grandi romanzi del Novecento, ecco la Roma fascista di Gadda gemellarsi con la Dublino di Joyce (quella di Ulysses e ancora di più quella di Finnegans Wake – che però quasi nessuno ha letto e che nemmeno io sono riuscito a finire), la Praga di Kafka (penso soprattutto a Il processo e a Il castello), la Vienna di Musil (L’uomo senza qualità; Musil non è un ingegnere, ma si laureò in filosofia sulle teorie di Mach…) e, in misura minore, la Parigi di Proust (Alla ricerca del tempo perduto).

Al “nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero”, al caos del reale si contrappone l’ordine cercato della città (e della legge), letteralmente come un meccanismo a orologeria progettato per imbrigliare il caso:

Da ritta, ove il piano s’infoltiva di abitacoli e discendeva a fiume, Roma gli apparì distesa come in una mappa o in un plastico: fumava appena, a porta San Paolo: una prossimità chiara d’infiniti penzieri e palazzi, che la tramontana avea deterso, che il tepido sopravvenire di scirocco aveva dopo qualche ora, con la cialtroneria abituale, risolto in facili imagini e dolcemente dilavato. La cupola di madreperla: cupole, torri: oscure macchie de’ pineti. Altrove cinerina, altrove tutta rosa e bianca, veli da cresima: uno zucchero in una haute pâte, in un mattutino di Scialoia. Pareva n’orloggione spiaccicato a terra, che la catena dell’acquedotto claudio legasse… congiungesse… alle misteriosi fonti del sogno. [p. 191]

E subito dopo, per me irresistibile (anche se poco ci azzecca con quanto andiamo argomentando – o forse un po’ sì, essendo un altro modo di mettere ordine ancorché morto al vitale brulicante caos) questa annotazione sui tempi della burocrazia:

Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d’una pratica s’insignisce di quella capacità di percettibile macerazione che la capitale dell’ex-regno conferisce alla carta, si commisura ad un tempo non revolutorio, ma interno alla carta e ai relativi bolli, d’incubazione e d’ammollimento romano. S’addobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de’ decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l’ovo della sospirata promulga le erompe alfine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale: e il relativo rescritto, quello che abilita il macilento petente a frullar quel cocco, vita natural durante a frullarlo, vien fulgorato a destino. In più d’un caso ci arriva insieme l’Olio Santo. Abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, a esercitar quell’arte assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio: e che d’allora in poi, de jure decreto, si studierà esercitare un po’ per volta all’inferno con tutto l’agio partecipatogli dall’eternità. [pp. 191-192]

Naturalmente, la recherche d’Ingravallo (e nostra) resta frustrata. Anche se il nostro “cercava, cercava di tirar le somme a ragione: di tirare i fili, si sarebbe detto, all’inerte burattino del probabile.” [p. 272]

Sono tentato di iscriverlo come motto o impresa dei miei propositi: “Tirare i fili all’inerte burattino del probabile”.

Del film e della canzone di Alida Chelli parleremo un’altra volta. Consentitemi invece di concludere con questo vertiginoso baccanale, in cui un topazio diventa un topaccio trasformato da Circe nella pineta di Castel Porcano/Porcino…

Avea veduto nel sonno, o sognato… che diavolo era stato capace di sognare?… uno strano essere: un pazzo: un topazzo. Aveva sognato un topazio: che cos’è, infine, un topazio? un vetro sfaccettato, una specie di fanale giallo giallo, che ingrossava, ingrandiva d’attimo in attimo fino ad essere poi subito un girasole, un disco maligno che gli sfuggiva rotolando innanzi e pressoché al di sotto della ruota della macchina, per muta magia. La marchesa lo voleva lei, il topazio, era sbronza, strillava e minacciava, pestava i piedi, la faccia stranita in un pallore diceva delle porcherie in veneziano, o in un dialetto spagnolo, più probabile. Aveva fatto una cazziata al generale Rebaudengo perché i suoi carabinieri non erano buoni a raggiungerlo su nessuna strada o stradazia, il topazio maledetto, il giallazio. Tantoché al passaggio a livello di Casal Bruciato il vetrone girasole… per fila a dest! E’ s’era involato lungo le rotaie cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo-topo-topo: e il Roma.Napoli filava filava a tutta corsa dietro al crepuscolo e pressoché già nella notte e nella tenebra circèa, diademato di lampi e scintille spettrali sul pantografo, lucanocervo saturato d’elettrico. Fintantoché avvedutosi come non gli bastava a salvezza chella rotolata pazza lungo le parallele fuggenti, il topo-topazio s’era derogato di rotaia, s’era buttato alla campagna nella notte verso le gore senza foce del Campo morto e la macchia e l’intrico del litorale pometino: le donne del casello strillavano, gridavano ch’era ammattito: lo fermassero, lo ammanettassero: il locomotore lo rincorreva in palude, coi due occhi gialli tutta perscrutava e la giuncaia e la tenebra fino laggiù, dove i nomi si diradano, appiè il monte della contessa Circia, ove luminarie e ghirlande dondolavano sopra le altane a lido, nello spiro seròtino del mare. Nereidi, ivi, appena emerse dal flutto e subito ignudàtesi della lor veste d’alghe e di spuma fra l’andirivieni dei camerieri in bianco e de’ sifoni ghiacci e delle fistule, solevano allegrare la notte fascinosa di Castel Porcano. La contessa, tra languide nenie, dimandava una fiala al sonno, all’oblio: ai ghirigori vani, agli smarrimenti del sogno. Del sogno di non essere. A Castel Porcino, sotto festoni di pere gialle da due watt e palloncini sbronzi e dolcemente obesi nell’alitare e nello smorire d’ogni mèlode, la maga dalla tabacchiera in apertura (perpetua) elicitava al fiuto gli imminenti suini, coloro che di quel filtro, e di quell’olezzo, erano per tornare in porci grifuti, dopo essersi fatti orecchiuti asini a la scuola: del manganello del machiavello. Già le alunne si divincolavano, bianchissime eccettoché il trigono cesputo, da ogni torquente veto dei padri, si storcevano in una muta profferta: che di moresca lenta e ritenuta sarabanda s’esaltava a mano a mano fino al ritmo trocàico d’una estampida, ove il bàttito risoluto del piede regalasse fiere arsi al piancito: mentre la sùbita erezione e lo scotimento e del collo e del capo ridava all’abisso i capelli, significando la indomita alterezza e della cervice e dell’animo, ribadita dal taratatà delle nàcchere. Intervenendo indi nel coro l’aggressione degli ignudi (e non per anco ebefatti) la stampita si esasperava a sicinnide, a danza simulatamente apotropàica: una frotta di spaurite mamillone facevan le viste d’aborrire un branco di satiri, di farsi schermo e ricovero e delle mani e della fuga verso i rubescenti e fumiganti lor tirsi: di già mezzo imbecillati, per vero, delle trasmodate officiature: del naso. Piombatogli in quel punto tra le gambe come la nera fólgore d’ogni solletico e d’ogni nero evenire, il topaccio pazzo aveva impaurato a un tratto le belle. Schegge d’un cuore esploso, erano chizzate via in ogni direzione in ogni canto, dimesso d’un subito, alla sola vista di quella spiritata pantegana, il loro ancheggiante e mamillato sacerdozio. Ed erano gridi ed acuti da non dire, mentre saettava qua e là il baffone come cocca di balestra, nera acuminata polpetta. Molte, smemoratesi d’essere ignude, avevano fatto il gesto d’abbassare la gonna ai ginocchi, a proteggere una delicatezza indifesa: ma la gonna se la sognaveno. E la delicatezza artrettanto.

Così, nel delirio, avevano domandato scampo alla fuga, agli specchi del padùle, alle ombre dei giunchi, alla notte, all’argentata macchia dei lecci, dei pini a lido, alle risciacquature libere del lido, signoreggiato da bullicante maretta: altre, poetesse ed oceanine precipiti da le scogliere lunari del circèo, s’erano buttate a le spume del frangente. Ma la contessa Circia ebriaca arrovesciava il capo all’indietro, ricadendole i capelli zuppi (mentre palloncini gialli ridevano e dondolavano in cinese) nella torpida benignità della notte: zuppi d’uno shampo di white label: la fenditura della bocca, quale in un salvadanaio di coccio, s’inarcava sguaiata fino a potersi appuntare agli orecchi, le spaccava il volto come il cocomero dopo la prima incisione, in due batti batti, in due sottosuole di ciabatte: e dagli occhioni strabuzzati, che gli si vede il bianco di sotto a l’iridi come d’una Teresa riposseduta dal demonio, le gocciolavano giù per il volto lacrime etiliche, stille azzurrine>: opalescenti perle d’un contrabbandato pernod. Invocava la fiasca del ratafià, chiamava le sovvenzioni del Papà, del Papè, del grande Aleppo; dell’invisibile Onnipresente, ch’era, tutt’al contrario dell’Onnivisibile fetente salutato salvatore d’Italia, onnipotente nel praticare il solletico, ogni maniera di solletico: quanto era quello impotente a combinare checchefosse, e men che meno le sue verbose bravazzate. Stillava perle azzurrine, lacrime di àloe, di terebinto e di wodka: arrovesciato il capo, smarriti nella notte i capelli, coi due diti pollice indice con un topazio giallo cadauno aveva sollevato la gonna, sul davanti, palesato a tutti che ciaveva le mutanne. Ce l’aveva, la santa donne, le mutanne: sì sì ce l’aveva ce l’aveva. Lo spiritato ratto aveva infilato quella via, ch’era la via del dovere per lui e per l’annasante sua fifa, le rampicava ora le cosce come un’edera, grasso e nel suo terrore fremente, la faceva ridere e ridere a cascatella grulla, smaniare dal solletico: ecco là: ce l’aveva di cartone e di gesso, le mutanne, quella volta. Perché una volta in vita le avevano ingessato la trappola. [pp. 192-194]

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Oressìgeno

Non mi capita tanto di frequente di incontrare un vocabolo che non conosco: non tanto perché sono colto (anche se statisticamente, senza falsa modestia, lo sono), quanto perché sono in là con gli anni e da quando ne avevo 4 leggo (o, meglio, divoro libri).

Secondo il Vocabolario Treccani online, nel linguaggio medico l’aggettivo oressigeno si riferisce a ciò “che genera appetito.”

È composto della parola greca ὄρεξις «appetito» e del suffisso –geno «che genera, che produce». Naturalmente, ὄρεξις è anche all’origine di anoressia, dove la a- privativa ci spedisce dritti dritti alla mancanza di appetito e addirittura al disgusto per il cibo.

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Tara

Il Vocabolario Treccani online offre più accezioni:

1. a. Quanto deve detrarsi dal peso lordo di una merce per avere il peso netto: spesso è il peso dell’imballaggio, a volte è il peso delle impurezze, delle sostanze estranee che accompagnano un prodotto (come per le bietole o le patate che vengono portate agli stabilimenti di lavorazione sporche di terra, frammiste a foglie, sassi, ecc.). Si distinguono: tara effettiva (o reale o netta), quando la pesatura effettiva dell’imballaggio viene effettuata prima della confezione o dopo estratta la merce; tara legale, quella la cui misura è fissata dalla legge; tara naturale, quella in cui si tiene conto della riduzione convenzionale di peso per certe merci (animali, cacciagione, ecc.) al fine di determinare il peso netto cui è riferito il prezzo; tara convenzionale o presunta, quando il peso dell’imballaggio è attribuito per convenzione, senza bisogno di procedere alla sua effettiva constatazione; tara scritta (o di origine), quando sia determinata dal primo venditore e impressa sull’imballaggio, rimanendo ferma in tutte le successive rivendite; tara (per) merce, quando la tara, nella vendita, non è detratta ma è fatta pagare all’acquirente come se fosse merce.

1. b. Insieme di piccoli oggetti di varia natura (bulloncini, viti, ecc.) che, nel metodo di pesata detto metodo della tara di sostituzione, si mette sul piatto della bilancia per equilibrare il peso del corpo da pesare e che viene successivamente confrontato con la massa campione.

1. c. Anticamente, la somma defalcata da un conto; sconto, detrazione.

2. Figuratamente: Fare la tara, sminuire le asserzioni altrui, quando appaiono esagerate, in modo da ridurle alle giuste proporzioni: tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti (Manzoni); sono notizie, o sono dati, che non possono accogliersi senza farci la tara.

3. Figuratamente: Malattia, anomalia o deformazione ereditaria, o altro difetto che comunque comprometta l’integrità fisica o psichica di un individuo (nell’uso popolare: magagna): tare ereditarie; sembra sano, ma ha o c’è qualche tara.

Il termine deriva dall’arabo ar “detrazione”, “ciò che si toglie e si mette in disparte. Sempre in arabo, araḥ significa “lontano” e araḥa “lanciare, allontanare, gettare via”. Dall’arabo, probabilmente con il diffondersi della connessa pratica mercantile, la parola si è diffusa pressoché invariata in tutte le lingue europee (tare in francese e inglese, atara in spagnolo, tara in portoghese e così via).

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Proverbi pessimisti (9)

Non tutto il bene vien per giovare.

Eurìstico

eurìstico aggettivo [derivato del greco εὑρίσκω «trovare, scoprire»] (pl. m. –ci). – Nel linguaggio scientifico, detto di ipotesi che viene assunta precipuamente come idea direttrice nella ricerca dei fatti, e del metodo stesso di ricerca così condotta: mezzo euristico, in senso lato, mezzo di ricerca. In particolare, in matematica, procedimento euristico, qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa. [Vocabolario Treccani online]

eurìstica s. f. [dall’agg. euristico]. – Parte di una scienza che ha per oggetto la scoperta di fatti o di verità (per es., nella storiografia, è il metodo di ricerca e di raccolta dei documenti). [Vocabolario Treccani online]

εὑρίσκω è il verbo greco che alla 1ª persona singolare dell’indicativo perfetto fa εὕρηκα, la celebre esclamazione di Archimede.

La storia la racconta Vitruvio. Gerone 2°, tiranno di Siracusa, sospettava che un orefice infedele – nella realizzazione di una corona votiva – avesse sostituito l’oro puro che il tiranno gli aveva dato all’uopo con una massa eguale d’argento placcato, e incaricò Archimede di scoprirlo. Poiché la corona era già stata dedicata agli dei, nessuno poteva più violarla, ad esempio saggiandola. Narra Vitruvio che Archimede trovò la soluzione mentre faceva il bagno alle terme: notò che più s’immergeva nella vasca, più acqua traboccava. Eccitato dalla scoperta della “legge di Archimede”, saltò fuori dalla vasca e corse a casa nudo gridando, appunto, “εὕρηκα! εὕρηκα!”

Scena di comicità irresistibile, soprattutto per chi si figura piuttosto le candide piume di Archimede Pitagorico.

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Antonio Giolitti – Obituary

Sono stato abbastanza fortunato, nella mia vita, ad avere incontrato, anche se di rado e fuggevolmente, Antonio Giolitti. Un maestro di serietà, di impegno, di conciliazione della teoria e della prassi al di fuori di ogni schematismo leninista. Il simbolo di un Paese che, per pochi anni, sembrava potesse e volesse cambiare davvero.

Come si sarà sentito a vivere i decenni di disillusione seguiti alle speranze del primo centrosinistra?

Non so se si trova ancora, in libreria, ma leggetele e fatele leggere ai vostri figli e nipoti, le Lettere a Marta che Giolitti scrisse quasi 10 anni fa, se le trovate ancora in libreria (Antonio Giolitti. Lettere a Marta. Ricordi e riflessioni. Bologna: Il Mulino. 1992). Riprendiamoci la memoria e la speranza. Altro che Bettino!

Giorgio Ruffolo, che fu suo allievo, beniamino e collaboratore, lo ricorda così (il manifesto, 9 febbraio 2010):

IL RICORDO

Antonio Giolitti, i sorci e le riforme

Giorgio Ruffolo

Sono stato legato ad Antonio Giolitti da una lunga fraterna amicizia. Ricordo ancora con emozione il giorno che lessi una sua recensione di un mio articolo sulla disoccupazione pubblicato su Moneta e Credito, ero un giovanotto, e ne fui molto fiero. Cominciò così, a partire da un successivo incontro alla Casa Einaudi, dove lui lavorava, e poi nel partito socialista dove lui era entrato dopo i fatti d’Ungheria, nella corrente della sinistra nella quale i «giolittiani» costituivano un gruppo particolare, si chiamava Impegno Socialista, tra il 2 e il 4 per cento degli iscritti al partito: più 2 che 4, se ricordo bene. E poi nell’esperienza di programmazione. Anni di impegno vero, tormentato ed esaltante al tempo stesso. Anni di grandi riforme, lo si può dire oggi che di riformismo non si fa che parlare, allora non se ne poteva neppure parlare, a sinistra, perché il riformismo era considerato poco meno di un cedimento al nemico, si doveva dire, per carità: riformatori, non riformisti.
Però le riforme, in quella stagione di centro sinistra, si fecero davvero. In quegli anni cambiò la scuola, cambiò il sistema pensionistico, si introdusse il sistema sanitario, si fece lo statuto dei lavoratori, si completò la grande rete autostradale, si costituirono le regioni. Gli uffici della programmazione si installarono in un grande corridoio dove enormi sorci inseguivano timidi gattini. Era il tentativo di inserire una strategia di progresso sociale e di equilibrio territoriale in uno sviluppo economico poderoso ma tumultuoso disordinato, iniquo. Erano sogni? Forse: diventarono incubi, quando le contraddizioni che si erano inserite nel contesto politico italiano, non corrette da una politica di programma, esplosero, in una congiuntura sempre più difficile. La sinistra, che è immemore, dovrebbe riflettere su quella esperienza: e soprattutto su quale dovrebbe essere il contributo di una cultura aggiornata a una progettazione politica che oggi brilla per assenza.
Giolitti era il rappresentante di una classe politica di cui si sono molto affievolite le tracce: quando politica e cultura diventavano parte di un solo messaggio. Con lui si poteva parlare di politica, naturalmente: ma anche di musica, della quale era particolarmente esperto, e di arte e di letteratura, e ci si poteva divertire scherzando, lasciandosi guidare dal suo stile ironico e arguto. In compenso, non ricordo di avergli sentito raccontare una sola barzelletta.
Egli resterà con me e per me, per il resto della mia vita, un modello di professione politica, nel senso weberiano, non del mestiere, ma della vocazione; prima che quella vocazione si identificasse, in modo così desolante, con il nudo potere, con il denaro, con la volgarità.

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Squallido

Un aggettivo che quando ero adolescente si usava molto, e adesso mi sembra invece piuttosto in disuso.

Con 3 significati, secondo il Vocabolario Treccani online:

Che, per la mancanza di ogni caratteristica positiva, e per la presenza di aspetti negativi diversi, è in sé misero e triste e fonte di tristezza, desolante e deprimente.
1. a. Riferito a edifici e ambienti, zone e località: una casa, una stanza squallida, e una squallida camera d’albergo d’infimo ordine, trascurata, priva di comodità e tutt’altro che accogliente, triste e desolante a starvi; una squallida corsia d’ospedale, una squallida prigione, uno squallido casolare abbandonato; cercavo … i luoghi più tristi per i nostri convegni: i più desolati giardini pubblici, le più squallide latterie (N. Ginzburg); regioni squallide., una squallida landa, brulle e incolte, senza case e vegetazione, e comunque desolate; in usi lettererari: Alle squalide ripe d’Acheronte … Bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa (Ariosto); indarno Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade Dalla squallida notte (Foscolo).
1. b. Riferito a persone, al loro aspetto, a situazioni, a condizioni di vita: uno squallido mendicante, mal ridotto; vivere nella più s. miseria, senza poter soddisfare neppure le più elementari esigenze materiali; fare una vita squallida, povera e triste, grigia e monotona, priva di attese, di speranze, di soddisfazioni; in usi letterari, è spesso accentuata, in modo oggettivo o con tono di commiserazione, la miseria, l’abbandono, la trasandatezza o anche la macilenza della persona: capelli squallidi, incolti e spettinati; Con chiome irsute e con la barba squalida (Sannazzaro); Con la squallida prole e con la nuda Consorte a lato (Parini); quell’aspetto [di Lucia] reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dal digiuno (Manzoni).
2.
Con connotazione più chiaramente spregiativa, riferito a persone, manifestazioni e comportamenti, equivale spesso a spregevole, sordido, abietto, giudizî in cui la condanna morale è però attenuata talvolta da un senso di umano compatimento: uno squallido individuo che vive facendo prostituire la moglie; una squallida figura di ricattatore; uno squallido ambiente di pedofili; una squallida vicenda di sfruttamento di minori.

Dal lat. squalĭdus, derivato di squalere «essere aspro, squamoso; essere squallido». O forse no. Come sempre sulle questioni di etimologia gli studiosi si scannano per secoli (a me piace pensare che talora si sfidassero a duello per una di queste questioni). Secondo il Georges (quello del mio vecchio vocabolario di latino, suppongo), i romani lo usavano con riferimento alle caratteristiche del terreno: un suolo squamoso era chiaramente poco fertile, trascurato e dunque improduttivo. Se avesse ragione Georges, deriverebbe dai vocaboli greci skleròs (duro) e skèllein (disseccare), da cui ci viene anche scheletro. Ma secondo una folta schiera di altri studiosi (trovo citati Kuhn, Curtius e Micklosich) deriverebbe dalla radice proto-indoeuropea KAL- che in sanscrito ci ha dato kâla (nero), kalankas (macchia) e khalug (tenebre); in antico slavo kalu (fango) e kaljati (inquinare); in greco kelainòs (nero) e kêlis (macchia); in latino càligo (caligine): “onde i latini dissero squalida la veste del lutto.”

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