Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire

– Misericordia! cos’ha, signor padrone?
– Niente, niente, – rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
– Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.
– Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.

[Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo 1]

Sabotaggio

Cito i 4 significati proposti dal De Mauro online:

  1. in diritto, reato commesso da chi in un’azienda danneggia impianti di produzione, edifici, macchinari, eccetera, destinati al normale svolgimento del lavoro o compie azioni di rappresaglia nei confronti del datore di lavoro
  2. in ambito militare, per estensione, azione di danneggiamento nei confronti di mezzi di trasporto, edifici o impianti delle forze armate, effettuata per motivi politici o militari; azione militare tesa a diminuire il potenziale bellico del nemico e a impedire il funzionamento dei servizi specialmente lungo le vie di comunicazione, effettuata generalmente da unità particolari delle forze regolari
  3. per estensione, azione compiuta da sovversivi o terroristi per ostacolare il funzionamento dei mezzi pubblici o per danneggiare impianti
  4. per estensione, qualsiasi azione che abbia lo scopo di ritardare, ostacolare o danneggiare in qualsiasi modo l’attività di qualcuno la realizzazione di qualcosa: sabotaggio di un progetto

Il nome nasce durante la rivoluzione industriale: i telai a vapore venivano danneggiati dai tessitori licenziati gettando nei loro ingranaggi zoccoli di legno (“sabots” in francese).

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Mauro Pagani

Non si può parlare di De Andrè, dell’ultimo De Andrè, senza parlare del grandissimo Mauro Pagani (per tacere il suo passato PFM).

Qui in un’intervista:

Tre canzoni. La prima, Davvero davvero, scritta (mi pare) con Massimo Bubola:

Sidùn:

Creuza de mà, sempre dal vivo a Firenze (2005) (e scusate la sciagurata presa del suono!!!):

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Amico fragile – Fabrizio De Andrè

Sentita ieri per caso: un lampo nella memoria. Parole e musica di Fabrizio De Andrè (narrano le leggende che l’abbia scritta una notte, dopo una cena tra amici borghesi, “molto più ubriaco di noi”), ma una delle canzoni più coheniane del nostro.

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d’attenzione e d’amore
troppo, “Se mi vuoi bene piangi ”
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo “Mi ricordo”:
per osservarvi affittare un chilo d’erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.

E poi sorpreso dai vostri “Come sta”
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo “Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”
“Lo sa che io ho perduto due figli”
“Signora lei è una donna piuttosto distratta.”
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell’ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.

E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.

Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a farle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedere come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.

E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.

C’è anche la versione di Vasco.

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The Stranger Song – Leonard Cohen

Non c’entra niente, lo so. Un cortocircuito mentale. Questa è una bellissima, straziante, disperata canzone d’amore…

Una canzone che ha più di 40 anni e fa ancora venire i brividi…

It’s true that all the men you knew were dealers
who said they were through with dealing
Every time you gave them shelter
I know that kind of man
It’s hard to hold the hand of anyone
who is reaching for the sky just to surrender
who is reaching for the sky just to surrender.

And then sweeping up the jokers that he left behind
you find he did not leave you very much not even laughter
Like any dealer he was watching for the card
that is so high and wild
he’ll never need to deal another
He was just some Joseph looking for a manger
He was just some Joseph looking for a manger.

And then leaning on your window sill
he’ll say one day you caused his will
to weaken with your love and warmth and shelter
And then taking from his wallet
an old schedule of trains, he’ll say
I told you when I came I was a stranger
I told you when I came I was a stranger.

But now another stranger seems
to want you to ignore his dreams
as though they were the burden of some other
O you’ve seen that man before
his golden arm dispatching cards
but now it’s rusted from the elbows to the finger
And he wants to trade the game he plays for shelter
Yes he wants to trade the game he knows for shelter.

Ah you hate to see another tired man
lay down his hand
like he was giving up the holy game of poker
And while he talks his dreams to sleep
you notice there’s a highway
that is curling up like smoke above his shoulder
It is curling just like smoke above his shoulder.

You tell him to come in sit down
but something makes you turn around
The door is open you can’t close your shelter
You try the handle of the road
It opens do not be afraid
It’s you my love, you who are the stranger
It’s you my love, you who are the stranger.

Well, I’ve been waiting, I was sure
we’d meet between the trains we’re waiting for
I think it’s time to board another
Please understand, I never had a secret chart
to get me to the heart of this
or any other matter
When he talks like this
you don’t know what he’s after
When he speaks like this,
you don’t know what he’s after.

Let’s meet tomorrow if you choose
upon the shore, beneath the bridge
that they are building on some endless river
Then he leaves the platform
for the sleeping car that’s warm
You realize, he’s only advertising one more shelter
And it comes to you, he never was a stranger
And you say ok the bridge or someplace later.

And then sweeping up the jokers that he left behind …

And leaning on your window sill …

I told you when I came I was a stranger.

[Dedicated to Togroo]

Lo straniero

Lo straniero (The stranger), 1946, di Orson Welles, con Edward G. Robinson, Orson Welles e Loretta Young.

Un film di Orson Welles considerato un po’ minore: non gli si perdona l’aver avuto un discreto successo di botteghino, di avere una così trasparente vena propagandistico-moralistica (Welles, che fa il cattivo, è un cattivo tutto d’un pezzo e viene punito in modo quasi sovrannaturale) e di essere semplice e un po’ schematico anche nelle soluzioni cinematografiche e nelle simbologie adottate. Del resto, pare non piacesse neppure a Welles stesso!

Il film è comunque pieno di idee geniali. La prima, secondo me, è affidare la parte del buono (Wilson, della Commissione per i crimini di guerra) a Edward G. Robinson. In una scena del film, Robinson proietta un documentario sui campi di sterminio: è la prima volta che vengono mostrati al grande pubblico.

Il film utilizza in modo ossessivo due metafore. La prima è quella dell’orologio: oltre a guidarci verso un finale che non può non far pensare a Vertigo di Hitchcock, l’ossessione del tempo, e forse di far tornare indietro il tempo, è molto legata al tema del nazismo. È un discorso lungo, che ci porterebbe lontano, e mi riprometto di dedicarci un post specifico.

La seconda è l’uso delle ombre, che pervade tutto il film. Il film noir è forse inseparabile dal bianco e nero (anche se mi viene subito in mente qualche eccezione che contraddice la regola) e anche da una certa semplificazione dei personaggi. La sequenza più bella è quella che vedete nel video qui sotto, a 4′ e 35″ dall’inizio.

Il film è da tempo fuori diritti. Se lo volete guardare tutto eccolo qui (se lo volete vedere meglio, il DVD è in edicola):

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@

Il segno, che si legge at,  veniva e viene utilizzato per segnalare il prezzo unitario di un bene: ad esempio, “pomodori @ 2€ al kg” oppure “pizza @ 8€ l’una”. Ma naturalmente adesso è internazionalmente noto per essere, negli indirizzi di posta elettronica, il connettore tra il nome del conto (account name) e il nome del dominio (domain name).

Dal momento che in inglese @ significava qualcosa prima dell’avvento della posta elettronica, non ha altro nome che at, corrispondente al suo significato originario, anche nella seconda e postale accezione.

Non così nelle altre lingue. La fantasia si è sbizzarrita:

Olandese: apestaart “coda di scimmia”
Tedesco: Klammeraffe “atele, scimmia ragno”
Polacco: mal’pa “scimmia”
Serbo: majmun “scimmia”
Russo: sobachka “cagnolino”
Finlandese: kissanhäntä “coda di gatto”
Portoghese e spagnolo: arroba “unità di misura pari a 15 kg”
Ceco: zavinác “filetto d’aringa arrotolato”
Svedese: kanelbulle “dolce di cannella” o snabel-A “A con proboscide”
Francese: escargot “chiocciola”, come noi.

Il buffo segno viene dalla trascrizione francese di à (con lo stesso significato originario visto sopra: à 2 euros le kilo): in corsivo l’accento grave si è allungato in modo spropositato, fino a trasformarsi in un segno grafico a sé stante. Lo stesso processo ha portato da et a &.

Samizdat

“In Unione Sovietica, dalla fine degli anni Sessanta fino alla caduta del regime, stampa e diffusione clandestina specialmente di testi politici e letterari scritti da autori dissidenti e vietati dalla censura” (De Mauro online).

Ovviamente è una parola russa (самиздат), che significa “edito in proprio”. Oltre che in Unione Sovietica, il fenomeno era diffuso in tutti i Paesi dell’Est della sua sfera d’influenza (Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Germania Est, Romania eccetera)

In pratica consisteva nella diffusione clandestina di scritti illegali, censurati, o di cui si temeva la censura (non dimentichiamo che oltre alla mancata diffusione del testo, l’autore rischiava una punizione diretta o l’ostracismo). Nato spontaneamente, il samizdat fu insieme un canale di distribuzione (artigianale ma efficace) e una forma del dissenso.

Non si riproducevano in proprio soltanto testi letterari, ma documenti di ogni genere: materiali segreti, proteste, appelli, versi, romanzi, saggi filosofici. Il meccanismo era semplice: l’autore scriveva il testo facendo alcune copie con la carta carbone, poi le distribuiva agli amici; se questi lo trovavano interessante lo distribuivano a loro volta raggiungendo così gli angoli più remoti del paese e l’Occidente. Funzionava, nonostante i guadagni fossero nulli e i rischi elevati. Un meccanismo “virale”, come quelli con cui il web oggi ci ha reso familiari, ma che la burocrazia sovietica trovò difficoltà a immaginare, prima che a combattere.

L’etimologia: è un composto di tre parole, samo- (la radice indoeuropea è quella dell’italiano “sé” e dell’inglese “self” e “same”) + iz- (“da”, “fuori”) + dat’ (“dare”). Così izdat’ (letteralmente “dar fuori” significa “pubblicare”) e samizdat “pubblicare in proprio.

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George Gershwin

Nato a Brooklyn (e dove se no?) il 26 settembre 1898, compirebbe oggi 110 anni. Invece morì giovanissimo, a meno di 40 anni, l’11 luglio 1937.

Ha scritto: “I like to think of music as an emotional science”.

Qui lo ascoltiamo al pianoforte eseguire la sua Rhapsody in blue (si tratta di un rullo per piano automatico, non di una registrazione fonografica):

Qui invece ascoltiamo Summertime (da Porgy and Bess), che se non ricordo male fu votata qualche tempo fa come la più bella canzone del XX secolo, in due interpretazioni: quella di Janis Joplin (dal vivo nel 1969, per i più rockettari)

e quella eseguita da Miles Davis in uno dei suoi ultimi concerti, a Montreaux nel 1991. L’orchestra è diretta da Quincy Jones.

In qualche modo

Ci sono frasi fatte che si diffondono come virus (virus della mente o virus del linguaggio), come un meme deteriore.

Abbiamo avuto il famigerato “attimino”, e subito dopo il “quantaltro”. Non so se in tutta Italia o soltanto nella burocrazia romana abbiamo avuto anche la “contezza”.

Adesso va molto “in qualche modo”, usato – per di più – come un intercalare.

A me da particolarmente fastidio, perché (sarò fissato) mi sembra un modo di dire particolarmente rappresentativo dell’approssimazione e della cialtroneria così diffuse in Italia, o meglio, nella sua classe dirigente. Si individua (sempre alla bell’e meglio) un problema o un ostacolo, e anche una situazione desiderabile in cui ci si vorrebbe trovare una volta che il problema sia risolto, l’ostacolo superato. Come, non si sa. “In qualche modo”, appunto. “In qualche modo” è la magica scatola nera da cui, senza spremersi le meningi, uscirà la soluzione: la trovata, la mandrakata, il genio della lampada. Sì, ma in concreto come? Questo non si sa e non importa: “supponiamo di avere un apriscatole, diceva una vecchia barzelletta…

In questi giorni sono a Bari e “in qualche modo”, nella pronuncia locale, ha un effetto comico irresistibile: “in quacche möude”, o qualcosa di simile.

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