The Moral Animal

Wright, Robert (1994). The Moral Animal: Why We Are the Way We Are: The New Science of Evolutionary Psychology. London: Abacus. 2008.

The Moral Animal

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Il libro è stato scritto 15 anni fa, e mostra qualche crepa. Va detto, però, che Wright è un bravo divulgatore, che scrive in modo semplice e diretto, senza sfuggire (in genere) alla controversia.

Avevo letto, qualche anno fa, Nonzero: The Logic of Human Destiny, un libro che – partendo dal concetto di “giochi non a somma zero”, un concetto della teoria dei giochi – ha avuto il merito, a mio parere, di reintrodurre il concetto di “progresso” nel dibattito scientifico e culturale.

Questo saggio, letto oggi, è meno sorprendente e meno controverso e, tutto considerato, meno riuscito. L’obiettivo di Wright è quello di rendere conto di quanto il neo-darwinismo ha da dire su argomenti quali la sessualità umana, la famiglia, la società, l’altruismo e la religione. Nel leggerlo, occorre tenere presente la virulenza con cui le idee neo-darwiniste e la socio-biologia furono avversate, soprattutto negli Stati Uniti e soprattutto dall’opinione pubblica e accademica di sinistra. All’epoca (adesso le cose sono un po’ cambiate, negli Stati Uniti e anche un po’ da noi) il campo era chiaramente definito: a sinistra, l’ideologia prevalente era quella del “modello standard delle scienze sociali”, secondo il quale non esiste una “natura umana” e gli individui e la società sono infinitamente malleabili dalla “cultura”; il darwinismo, applicato alla psicologia e alla sociologia, era immediatamente assimilato al “darwinismo sociale” della fine dell’Ottocento e bollato come ideologia di destra.

Wright, uomo della sinistra liberale statunitense (è un giornalista di The New Republic), vuol mostrare come il neo-darwinismo non sia uno strumento ideologico della conservazione e come sia necessario fare i conti, senza negarli a priori, con i risultati dei progressi della scienza nella comprensione dei meccanismi psicologici, sociali e morali che guidano il comportamento umano.

Il libro è molto ambizioso, e ha pretese di esaustività, il che non gli giova. Dove (all’epoca) le ricerche scientifiche avevano fatto più progressi (ad esempio, nella spiegazione della sessualità umana), le argomentazioni di Wright sono più convincenti. Dove invece, come nei campi della morale e della religione, il dibattito scientifico era all’epoca meno progredito, l’argomentare di Wright si fa più speculativo e meno convincente.

Anche l’espediente utilizzato da Wright come collante del libro – seguire le vicende della biografia di Darwin come esempio dello sviluppo del pensiero evoluzionistico, come ontogenesi che ripercorre la filogenesi – non è sempre riuscito. Alla fine, si resta con la sensazione che a volte la materia del libro, per un’esigenza di completezza, sia “spalmata” in modo troppo superficiale sulle 400 pagine del testo.

Una lettura che vale comunque la pena, anche se oggi sono disponibili sintesi più aggiornate e più godibili (ad esempio, The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature di Steven Pinker).

Attualmente, Wright è attivo in due avventure molto interessanti, che vi suggerisco di andarvi a vedere:

  • Bloggingheads.tv, un video blog che si occupa di politica, filosofia e scienza, in cui si presenta il dialogo registrato su webcam di due persone che discutono.
  • Meaningoflife.tv,  un sito di interviste di Wright a pensatori e autori contemporanei su temi filosofici e religiosi.
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Ara pacis

Secondo le puntigliose cronache dell’epoca, l’Ara pacis Augustæ fu inaugurata esattamente 2000 anni fa, il 30 gennaio dell’anno 9.

Se non fosse per le polemiche che hanno accompagnato l’intervento dell’architetto Meier, non ne parlerei neppure.

L’Ara pacis non è un grande monumento dell’arte romana. È un monumento “politico” e propagandistico al successo conseguito da Augusto, voluto da lui stesso, decretato “spintaneamente” dal Senato (“Quando tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia […] compiute felicemente le imprese in quelle province, il Senato decretò che per il mio ritorno si dovesse consacrare l’ara della Pace Augusta presso il Campo Marzio e dispose che in essa i magistrati, i sacerdoti e le vergini vestali celebrassero un sacrificio annuale”) e inaugurato nel giorno del compleanno della moglie di Augusto, Livia (tanto perché fosse chiaro che era un “affare di famiglia”).

Il monumento che il fascismo volle conservare in una teca realizzata ad hoc e inaugurata il 23 settembre 1938 (data del supposto bimillenario augusteo) è sostanzialmente un falso: non si sa bene che aspetto avesse l’originale, recuperato a pezzi e frammenti in epoche diverse, e gran parte delle sculture non sono quelle autentiche (ad esempio, la Saturnia tellus è agli Uffizi a Firenze).

Nel 1937 si decise di ricostruire l’altare, per gli stessi motivi politico-propagandistici che ne avevano motivato la prima erezione. Impossibile farlo sul luogo originario (si sarebbe dovuto distruggere un palazzo antico). Allora si propose di farlo in qualche museo o sulla via dell’Impero. Ma Mussolini stesso scelse i pressi del Mausoleo di Augusto, “sotto un porticato” tra via di Ripetta e il Lungotevere. La ricostruzione fu fatta di corsa, in meno di un anno e mezzo. Il progetto non fu rispettato in fase esecutiva, per il ritardo accumulato (doveva essere finito per il 23 settembre 1938 ) e la mancanza di fondi (al posto dei marmi pregiati e del travertino previsti si usarono cemento e finto porfido). Il risultato fu una schifezza, come potete vedere da soli.

La sistemazione proposta da Richard Meier è il primo intervento architettonico-urbanistico monumentale realizzato nel centro di Roma dopo il fascismo: questo è l’unico e principale motivo per cui le destre, e i fascisti in particolare, l’avversano. Nell’aprile del 2008, in una delle sue prime dichiarazioni dopo l’elezione a sindaco di Roma, Gianni Alemanno ha annunciato la sua intenzione di abbattere il museo di Meier. Per fortuna, è una delle tante promesse elettorali che non ha mantenuto.

In questo sito trovate una documentata scheda, ricca di belle fotografie.

Libertà d’opinione

Registro molti segnali di insofferenza. Sempre più spesso, chi non condivide un’opinione non si limita a dirlo e a spiegare i motivi o le radici del suo dissenso, ma chiede a gran voce che sia tappata la bocca a chi ha espresso l’opinione non condivisa. Lo fanno gli “opinionisti” dei quotidiani e gli “amici” di Facebook. Io la chiamo censura e non mi piace. E mi tocca persino essere d’accordo con Fabrizio Rondolino (La Stampa del 30 gennaio 2009)!

L’allarmante caso Di Pietro

FABRIZIO RONDOLINO

L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere. Mezzo Pd ha chiesto di rompere ogni rapporto con l’Italia dei Valori, tutti i senatori della Repubblica sono scattati in piedi per applaudire la loro «convinta solidarietà» a Napolitano, il presidente emerito Scalfaro ha segnalato l’esistenza di un reato. E lo stesso Quirinale, con un comunicato che ha pochi precedenti, ha giudicato «pretestuose» e «offensive» le parole di Di Pietro. Quelle parole sono probabilmente sbagliate, ma non sono né arbitrarie né insultanti: appartengono al dibattito politico. Ci sono molto buoni argomenti e una notevole documentazione per sostenere che il presidente Napolitano sulle questioni della giustizia non è venuto meno al suo ruolo costituzionale di arbitro, e che il suo presunto «silenzio» non è affatto assimilabile a un comportamento mafioso. Le opinioni sollecitano controargomentazioni: non comunicati di solidarietà, ritorsioni politiche o denunce alla magistratura.

Il caso Di Pietro è tanto più allarmante, in quanto non è isolato. Il capitano della Nazionale, Fabio Cannavaro, per aver detto che Gomorra (il film) «non gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo, abbiamo già tante etichette negative», è stato accusato di colludere con la camorra, e più d’uno ha chiesto che gli sia tolta la fascia di capitano. Su Facebook, il network sociale più popolare di Internet, è in corso una campagna per cancellare quei gruppi di discussione che si proclamano fan dei mafiosi e, più recentemente, quelli che inneggiano allo stupro di gruppo. Sono opinioni abominevoli, ma sono opinioni. Questo confine non va mai cancellato. Un conto è sostenere cha la Shoah non è mai esistita, e un conto è bruciare una sinagoga. Un conto è chiedere che i rom siano cacciati, e un conto è assaltare i loro campi. È evidente che c’è un nesso fra le parole e le azioni: altrimenti, perché mai dovremmo parlare o scrivere? Il concetto stesso di educazione si basa sulla convinzione che le parole producano risultati. Ma spetta singolarmente a ciascuno di noi compiere o meno un’azione, e assumersene la responsabilità. Alle parole si può rispondere soltanto con altre parole.

Se ci pensiamo, l’unica vera libertà che ci appartiene come diritto naturale, e che definisce il nostro orizzonte nel mondo, è la libertà di esprimerci: è cioè la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di religione, di ricerca scientifica… Tutte le nostre attività, che sia scrivere una canzone o andare in chiesa, votare alle elezioni o comprare un giornale, trovare un rimedio all’Alzheimer o scegliere una compagnia telefonica, hanno a che fare in un modo o nell’altro con la libertà di espressione. Poter dire la nostra, senza costrizioni né vincoli, è dunque il bene più prezioso. Se introduciamo un qualsiasi criterio per giudicare quali opinioni si possono esprimere e quali no, in quello stesso momento deleghiamo ad altri, fosse pure una maggioranza democraticamente eletta, la nostra personale libertà di espressione, che è invece inalienabile perché è soltanto nostra, come la vita. Chi può decidere che cosa è lecito dire e che cosa non lo è? Mentre è evidente che ammazzare un uomo per strada è un reato, è molto meno evidente la linea che separa un fan club dei Soprano da un fan club di Riina: in realtà, se ci pensiamo bene, questa differenza non c’è. Sta alla responsabilità di ciascuno capire che una cosa è un telefilm, una cosa è scrivere corbellerie su un capomafia pluriomicida, e un’altra cosa ancora è sparare.

La libertà di espressione è indivisibile. Tutti dovrebbero poter esprimere liberamente le loro opinioni. Soprattutto le più ributtanti. Mentre infatti la censura nasconde il problema e in questo modo sceglie di non risolverlo, un dibattito libero e aperto non esclude la possibilità di convincere chi non la pensa come noi.

The Economic Naturalist

Frank, Robert H. (2007). The Economic Naturalist. Why Economics Explain Almost Everything. London: Virgin. 2008.

Il libro è accattivante, e si legge che è un piacere. Per questo lo raccomando soprattutto a quelli che non amano l’economia, o la trovano ostica, o trovano che offre spiegazioni semplicistiche a problemi complessi. Questo libro, come alcuni altri che hanno avuto successo in questi ultimi anni (penso a Freakonomics di Steven Levitt, ma anche ai libri e alla rubrica di Tim Harford), ha il merito di avvicinarci alla forma mentis, al modo di pensare dell’economista, che è poi quello che mi ha attratto dell’economia quasi 40 anni fa.

Purtroppo, come tutti i libri che consistono in una raccolta di esempi molto brevi, leggerlo d’un fiato è noioso; perfetto, invece, per leggerne qualche pagina ogni giorno in autobus o in metropolitana.

A me, però, il libro è interessato soprattutto per motivi professionali. Gli esempi riportati nel libro, infatti, non sono farina del sacco dell’autore. Sono una selezione dei “temi” che l’autore propone ai suoi studenti nel suo corso introduttivo di economia. Frank fa così: propone ai suoi studenti di formulare una domanda, su un evento o un comportamento che lo studente ha osservato o sperimentato personalmente, e di offrire una spiegazione, basata su un principio “economico” di quelli appresi nel corso, in un saggio di 500 parole al massimo. Non è neppure essenziale che la risposta sia quella giusta: a volte non lo è, altre volte non è facile decidere se è quella giusta o se esiste una risposta più giusta delle altre. Quello che conta è l’argomentazione, e i principi applicati nell’argomentazione. È un’idea fondamentale nell’alfabetizzazione scientifica, e se ne discute molto anche tra statistici (statistical story-telling).

Learning economics [or statistics – my comment] is like learning to speak a new language. It’s important to start slowly and see each idea in multiple contexts. [p. xii]

Trovo qui l’ispirazione di due maestri: uno è Thomas Schelling, e Frank giustamente gli dedica il libro, riconoscendolo come il più grande naturalista economico vivente, mosso da inesauribile curiosità intellettuale (e sapete che anch’io l’adoro); l’altro è Marvin Minsky (“You don’t understand anything until you learn it more than one way”).

Tutta l’argomentazione economica illustrata nel libro è fondata su pochi principi di base (apparentemente astratti, ma presto resi semplici dall’accumularsi degli esempi): quello di costo-opportunità; quello di confronto tra costi e benefici; quello che, di norma, non si trovano “soldi sul tavolo”.

Naturalmente non tutti gli esempi sono riusciti (anche se alcuni sono veramente divertenti, e sprizzano intelligenza e divertimento). Alcuni sono cervellotici e, probabilmente del tutto sballati (chi ha raccontato a Frank o a un suo studente che a Roma si è multati se si attraversa fuori dalle strisce? e che Roma è piena di biciclette? da quanto tempo Frank non va al cinema?). Ma il libro è comunque di piacevole lettura, e lo raccomando soprattutto ai non-addetti-ai-lavori.

The White Tiger

Adiga, Aravind ( 2008). The White Tiger. London: Atlantic. 2008.

Un’altra puntata nel mio viaggio a tappe nella letteratura anglo-indiana.

Nonostante abbia vinto il Booker Prize, il premio britannico assegnato annualmente al miglior romanzo scritto in lingua inglese da un autore del Commonwealth (o della repubblica irlandese), questo romanzo è una delusione. All’inizio, le idee sono scoppiettanti e la verve comico-satirica notevole, ma poi il romanzo si siede come un soufflé. La nuova India ruggente promessa nelle prime pagine è un po’ sfocata, e passa in secondo piano rispetto alla “vecchia” India delle caste e dell’oscurità: tra sdegno e humour nero, la satira non graffia abbastanza. L’amalgama tra perdita dell’innocenza e accumulazione originaria non è ben riuscito, e comunque Balram Halwai non mi sembra convincente come “eroe” di questo cammino dalle Tenebre del Gange alla Luce di Bangalore.

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Pernicioso

Che provoca effetti o danni estremamente gravi, ostacolando il raggiungimento di determinati scopi, il compimento di un’azione, l’attuazione di un progetto e simili: consiglio pernicioso, comportamento pernicioso, impresa perniciosa (De Mauro online).

Pernicioso viene dal latino, perniciosus, aggettivo a sua volta derivato da pernicies, “rovina, perdita”. Pernicies non ha nulla a che fare con la pernice, ma deriva da per- (prefisso di intensità) e dalla radice *nec- (da cui necare, uccidere, e in italiano, ad esempio, “necrosi”).

La pernice, invece, in latino si chiama perdix (e deriverebbe dal latino pedo e dal greco perdo, entrambi con significato di “spetezzo”, “spernacchio”, per il verso non particolarmente melodioso!). La sostituzione della -n- alla -d- è piuttosto comune, e si può osservare anche nel passaggio dal latino mercedarius all’italiano mercenario (detto di colui che agisce o combatte per un compenso monetario).

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La notte che Pinelli

Sofri, Adriano (2009). La notte che Pinelli. Palermo: Sellerio. 2009.

La notte che Pinelli

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Ho sempre nutrito nei confronti di Sofri sentimenti ambivalenti. Sofri fu per me, negli anni della militanza, il leader di un gruppo diverso dal mio, ma l’unico che per cultura e dialettica sapeva tenere testa a Rossana Rossanda, in un panorama in cui spesso la rozzezza era esibita. Fu per me più che un “maestro” di politica un modello di scrittura: Sofri scriveva e scrive bene, con una retorica sopra le righe ma soltanto di poco. Una scrittura tutto sommato invidiabile e da me anche invidiata, anche per la capacità di piegare sottilmente l’argomentazione a proprio vantaggio, sotto l’apparenza della ragionevolezza e dell’oggettività. E lo si vedrà agevolmente dagli esempi che riporto sotto.

Dico subito che sono convinto che Sofri non sia il mandante del delitto Calabresi, nell’accezione penalmente rilevante del termine. È stato condannato per questo reato con una sentenza passata in giudicato, e la rispetto da bravo cittadino di uno Stato di diritto, ma conservo le mie personali convinzioni, che sono un’altra cosa.

In questo libro, Sofri usa – con riferimento all’omicidio Calabresi – la parola “corresponsabilità”, e naturalmente i giornali ne hanno parlato:

Io ho questo concetto della corresponsabilità: che se qualcuno traduce in atto quello che anch’io ho proclamato a voce alta non posso considerarmene innocente e tanto meno tradito. Ne sono corresponsabile. Solo di questo, del resto, e non di altro. Di nessun atto terroristico degli anni ’70 mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, “Calabresi sarai suicidato”. [pp. 213-214]

Qui Sofri sembra dimenticare un dettaglio: anch’io forse ho gridato in qualche corteo “Calabresi sarai suicidato” insieme a qualche altra frase cruenta sui fascisti e i celerini, ma io non ero il leader carismatico di un gruppo importante e questo cambia quanto meno il peso della nostra comune corresponsabilità. Sofri se ne avvede qualche pagina dopo e dice che “la campagna condotta da Lotta Continua contro Calabresi tra il 1970 e il 1972 (non mi importa dei molti altri concorrenti) fu un linciaggio moralmente responsabile, benché nient’affatto penalmente, della morte di Calabresi.” [pp. 215-216]

Al di là di questo punto, che tutti i giornali hanno ripreso, il libro è interessante per alcune altre considerazioni e ricostruzioni storiche (che non condivido del tutto, ma che contengono pezzi importanti di verità).

La prima riguarda la pratica e la grammatica della violenza:

Il vizio d’origine della nostra iniziazione rivoluzionaria – nostra, cioè di quelli della mia generazione che si sentirono rivoluzionari – derivò dal trovarci di fron­te un vasto schieramento politico e sindacale che agi­va di fatto all’interno dei rapporti sociali e della de­mocrazia politica «borghesi», ma continuando a par­lare un linguaggio sovversivo. C’era una sproporzione scandalosa fra le parole e i fatti di quella sinistra «uf­ficiale». Non solo: ma poiché gli uomini tengono più alle parole che ai fatti, e a quelle restano più tenace­mente fedeli, e dal tradimento di quelle si sentono più intimamente feriti, quando voci autorevoli dentro la sinistra ufficiale azzardavano sortite verbali che pro­vassero a ridurre la distanza fra l’ideologia e la prati­ca, il loro isolamento si faceva più forte. Era così per la «destra» del Pci, o prima ancora per il Psi e la sua aspirazione governativa, o per il sindacalismo più «riformista» (più riformista che riformatore, del resto). Le burocrazie dirigenti della sinistra storica e i loro ca­pi tenevano in ostaggio la «base» con la continuità di un linguaggio, ed erano a loro volta ostaggi dell’irri­ducibilità di quella base a nuove musiche e nuove pa­role. Questo reciproco sequestro era l’ortodossia. Quan­do arrivò per una buona parte della nostra generazio­ne il turno di entrare in scena, sospinta da una con­giuntura internazionale senza precedenti, lo scandalo morale per la «doppiezza» della sinistra ufficiale, la scis­sione plateale fra teoria e pratica, si tradusse in una ten­sione urgente a colmare quel divario dal lato della pra­tica, dell’azione. Il volontarismo attivistico fu la carat­teristica saliente di quel nuovo estremismo giovanile, quando non si lasciò irrigidire dal dogmatismo ideolo­gico. La distanza fra le parole e i fatti – il binario dop­pio, la simulazione rivoluzionaria e la pratica del quieto convivere – volemmo sanarla rieducando i fatti a cor­rispondere alle parole, cercando nell’azione la coeren­za rinnegata. Questo valeva anche, e anzi a maggior ragione, per la questione della violenza. Il retaggio del­la violenza popolare, creduta necessaria, perché con­trapposta alla violenza di tiranni padroni e sfruttato­ri, e giusta, perché emancipatrice da una abitudine al­la servitù e al gregarismo, della violenza difensiva e del­la violenza levatrice di una storia nuova e di un uomo nuovo, questo retaggio era ben più antico e radicato del movimento operaio e del marxismo, c scendeva dal tronco della rivoluzione francese e dai rami del patriot­tismo risorgimentale e, fin nello stesso Sessantotto, del­la ribellione cattolica al privilegio e al potere. Piutto­sto che rimettere in discussione le parole, noi le ripren­demmo e le rincarammo, come si raccoglie e si agita più fieramente una bandiera abbandonata nella fuga, e ci addestrammo a corrisponder loro nell’azione. Per molto tempo la nostra verità di rivoluzionari di fron­te alla moneta falsa di chi continuava a scrivere la pa­rola rivoluzione sulla targhetta del suo ufficio ma guar­dandosi bene dal perseguirla nella vita, consistette an­che in una mezzo comica mezzo patetica gara all’oltran­za delle parole: e se gli altri gridavano Vietnam libero noi gridavamo Vietnam rosso, e se chiedevano il Di­sarmo della polizia in servizio di ordine pubblico (po­tresti immaginare che alla vigilia della strage di piazza Fontana si stava per votare questa misura?) noi chie­devamo il Fucile agli operai. Era un gioco di quelli che prendono la mano. Le parole sono indulgenti, permet­tono un’oltranza infinita, al riparo dal passaggio al fatto. Le parole non sono pietre. Ma sono anche esi­genti, e perfino esose, e a furia di sentirsi pronuncia­re e scandire e gridare presentano un loro conto. Le pietre non sono parole – ti rinfacciano a quel punto. E da lì in poi qualcuno non resta più al di qua del ri­paro, passa la linea che le separa dai loro fatti. «Segui­le, le tue parole, fino al punto in cui trapassano nei lo­ro fatti». E chi oltrepassa quella linea, può essere sem­plicemente uno manesco, uno che ha avuto un’infanzia cupa, uno più frustrato o più fanatico; ma può an­che essere uno dei migliori, uno che si costringe a fa­re quello che tutti proclamano doveroso fare, tenendosene al di qua, per viltà o pusillanimità o qualche al­tra debolezza. Di queste due genie di uomini (e di don­ne), e della gamma di sfumature che conduce dall’una all’altra, sono fatte le minoranze che nei tempi tem­pestosi prendono il primo piano, e possono trovarsi dal­la parte giusta e dalla parte sbagliata, e diventare eroi popolari o terroristi messi al bando, e naturalmente la differenza fra la parte giusta e sbagliata è molto im­portante, e ancora di più la differenza fra la stagione della guerra vera e la stagione della guerra inventata, ma differenze così importanti non cancellano del tut­to l’affinità. [pp. 210-213; questo è il brano che precede immediatamente quello sulla corresponsabilità, che ho citato sopra]

La seconda riguarda il rapporto tra il contesto e il senno di poi:

Quando pensiamo di essere diventati più saggi e se­reni, forse abbiamo solo sostituito un pregiudizio con un altro pregiudizio. Senno di poi. Ma io non disprez­zo affatto il senno di poi: ne viviamo.
Le bugie scoperte tali e le contraddizioni grosso­lane di quei giorni conservano intero il loro effetto. Allora, che cosa c’è di diverso oggi che mi fa pro­pendere per una risposta diversa? Molto poco, o moltissimo. Una migliore e più distante conoscenza delle carte, certo: nel mio caso, la conoscenza tout court, che ho cercato ora di rendere scrupolosa, mentre allora non mi occupavo di questo, e non le lessi affatto. Ma soprattutto la differenza fra il no­stro modo di pensare di allora e quello di oggi. Una febbre da cui siamo sfebbrati: ci faceva vedere co­se che non vediamo più. A un prezzo, anche: di non riuscire più a ricordare e trasmettere la nostra com­mozione di allora.
Però non è vero che il venire dopo, e il sapere – o credere di sapere – sia solo un vantaggio. C’è sempre un conflitto fra il contesto e il senno di poi. Fra gli at­tori e i testimoni diretti, e quelli che vengono dopo, fra la memoria e la storia. Il contesto è il rifugio dei farabutti, che lo invocano a giustificazione delle male­fatte. Ma è anche il criterio irrinunciabile all’intelligen­za delle cose. Il senno di poi può permettersi una più serena e compiuta conoscenza, ma gli piace dimenticar­lo, il contesto, e giudicare da maramaldo. È questo squi­librio a tenere aperta la lacerazione del dopoguerra e della cosiddetta guerra civile, a distanza di sessant’an­ni e passa. E a tenere altrettanto aperte, se non addi­rittura a esacerbare, le ferite intitolate agli anni ’70 ­e già questo è strano, quando si parla di una strage del 1969. [pp. 189-190]

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Infingardo

Chi rifugge la fatica per pigrizia o svogliatezza: un ragazzo infingardo. Chi è falso, simulatore: un amico infingardo, stai attento, è un infingardo. Che denota infingardaggine, subdolo: un sorriso infingardo (De Mauro online).

La parola, secondo i più, deriva dal latino fingĕre (in-fingĕre): chi, potendo e sapendo fare una cosa, finge di non poter o non sapere farla, appunto per non farla. e quindi: pigro, lento nell’operare per avversione al lavoro; ma anche, simulatore, subdolo.

Curiosa anche la desinenza -ardo, che fa pensare a una contaminazione germanica (bastardo, codardo, testardo, …)

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Avercelo lungo

Proviamo a procedere per approssimazioni successive. La notizia è di un paio di giorni fa, anche se io (che non leggo i giornali) l’ho appresa soltanto oggi:

Ricerca: lunghezza dita predice abilità nel guadagnare soldi

Roma, 13 gen. (Adnkronos Salute) – Non c’è laurea o master, sfrontatezza né coraggio che tengano. È la lunghezza delle dita a indicare se nella vita si diventerà abili a guadagnare soldi. Ne sono convinti gli scienziati dell’università di Cambridge (GB), secondo cui i broker di maggior successo sono quelli che hanno l’anulare più lungo dell’indice.

Sulla rivista ‘Proceedings of the National Academy of Sciences’, i ricercatori britannici spiegano che il fenomeno potrebbe essere dovuto a una super-esposizione al testosterone nell’utero materno: questo ormone è infatti in grado di migliorare la capacità di prendere decisioni e di assumere atteggiamenti aggressivi al momento giusto, oltre che di donare la proporzione ‘vincente’ delle dita delle mani, con l’anulare più lungo dell’indice. Studi precedenti avevano già messo in collegamento questo fenomeno con un maggior successo negli sport competitivi.

John Coates e il suo team all’ateneo di Cambridge avevano inoltre pubblicato lo scorso anno uno studio, secondo cui il testosterone amplifica il successo finanziario a breve termine, dopo aver rilevato che gli operatori della City londinese con più alti livelli di ormone maschile nel sangue di mattina avevano più possibilità di concludere affari particolarmente proficui durante quel giorno.

Ora, gli scienziati hanno effettuato altre indagini basandosi sull’analisi di 44 broker, alcuni dei quali hanno guadagnato oltre quattro milioni di euro l’anno. Effettivamente, quelli con l’anulare più lungo dell’indice sono riusciti, in un periodo di 20 mesi, ad accumulare una fortuna 11 volte superiore rispetto a quella conquistata da uomini con anulare più corto dell’indice. Un risultato simile a quello che si ottiene dopo anni e anni di esperienza di lavoro, con i broker più anziani che guadagnano nove volte tanto i ‘novellini’.

E, anche considerando solamente gli operatori di borsa più esperti, quelli con l’accoppiata anulare-indice vincente si sono confermati i più brillanti, con un guadagno in media di oltre 800 mila euro contro i 150 mila di quelli senza un super-anulare.

“Naturalmente” (nel senso che la cosa ci deve scandalizzare, ma non sorprendere) i giornalisti delle agenzie di stampa non hanno letto (e meno che mai hanno gli strumenti per comprendere, nella stragrande maggioranza dei casi) l’articolo originale. E – tanto per essere chiari – i giornalisti che firmano la notizia sui quotidiani e sugli altri mezzi di comunicazione, inclusi i più titolati, si sono poi limitati a riprendere la notizia dai lanci di agenzia. Si fa così, ne abbiamo parlato altre volte, io non cesso di esserne schifato, ma per adesso non ne parliamo più.

Alla radice di tutto questo, se le mie deduzioni sono corrette, c’è un articolo di The Economist (The Communist, per i berlusconiani):

Testosterone and traders

Goldfingers

Jan 15th 2009
From Economist.com

How traders’ testosterone levels affect their income

FINANCIAL traders are usually young, male and must have a good grasp of probability. But those who make most money may be born to it, according to a new study led by John Coates at the University of Cambridge and published in the Proceedings of the National Academy of Sciences. This suggests that male traders who were exposed to higher levels of testosterone before birth go on to make the most money. High levels of the hormone during pregnancy causes the ring (or fourth) finger to grow longer than the index (or second) finger, both of which were measured on the right hand of 44 traders. The researchers also recorded the profit and loss statements for 20 months of these “high frequency” futures traders, who held positions of up to £1 billion ($2 billion, at the time of the study) for as little as a few seconds. Even accounting for experience, men with the longest ring fingers earned far more than those with more evenly matched fingers. They also stayed in the business for longer.

E – approfondendo un po’ di più (cioè passando dall’edizione online al giornale stampato, a disposizione degli abbonati) – si poteva fare un piccolo passo avanti:

Neuroeconomics

Digitally enhanced

Jan 15th 2009
From The Economist print edition

Successful financial traders are born as well as made

MAKING money comes naturally to some people-specifically, to men exposed to high levels of testosterone before they were born. That, at least, is the conclusion of a study published this week by John Coates of the University of Cambridge and his colleagues.

Testosterone levels normally surge during the middle of a pregnancy. This not only shapes the brain and sex organs of the child, but also affects the way its fingers grow. High levels of the stuff extend the ring fingers, making them longer than the index fingers. In general, men have relatively longer fourth fingers than women. Previous research has shown that men with significantly elongated ring fingers excel at competitive sports. Dr Coates wanted to know whether such men also did well at financial trading.

To find out, he recruited 44 men from a trading floor of about 200, all but three of whom were male, in the City of London. The people on this floor specialise in “high-frequency” or “noise” trading, in which traders buy securities, specifically futures contracts, in sums of up to £1 billion-but who hold their positions for only a few minutes, and sometimes just seconds, before selling. This rapid style of trading is particularly demanding. Traders must be vigilant as they search for small price discrepancies both within and between markets, and they must be quick to react to changes in these prices.

Dr Coates and his team measured the ratio of the length of the men’s index and ring fingers from photocopies of their right hands. They then examined the profit and loss statements for each trader recorded over 20 months. Unsurprisingly they found that nurture, in the form of experience, counted for a lot. But they also discovered that nature was important. Those men whose ring fingers were significantly longer than their index fingers made more money. As they report in the Proceedings of the National Academy of Sciences, among people who had worked in the City for more than two years, those with skewed hands earned more than five times as much as their more even-fingered brethren. Such men also remained in the business for longer.

Last year, Dr Coates reported a different experiment in which he found that traders who had high levels of testosterone in their bodies in the morning went on to make the most money during the day. Next, he plans to try to establish whether asset managers, who seek to make gains over years rather than minutes, are helped by a lack of testosterone-and thus to discover whether, when it comes to making money, there is more than one way of prospering naturally.

Ok. Qui cominciamo a essere un po’ più convincenti. Almeno si dice per la prima volta una cosa molto rilevante: la maggior parte dei maschi (stiamo parlando di umani) ha l’anulare più lungo dell’indice. Anche molte donne, ma meno degli uomini. Anche la causa è nota da tempo. Sappiamo ormai tutti che i maschi hanno una coppia XY all’ultimo cromosoma, e le femmine XX. Nello sviluppo dell’embrione, la differenziazione dei caratteri sessuali (il dimorfismo sessuale) dipende dall’esposizione al testosterone, prodotto dall’embrione stesso. Tra gli aspetti del dimorfismo sessuale (gli uomini sono in genere più grossi delle donne, hanno meno tette, hanno i genitali sviluppati in un modo diverso: non ditemi che non lo sapevate!) c’è la lunghezza relativa delle dita.

Dimorfismo sessuale: Madonna (qui sotto – i minorenni si astengano).

Cito da Wikipedia:

The digit ratio is the ratio of the lengths of different digits, fingers or toes, typically as measured from the bottom crease where the finger joins the hand to the tip of the finger. It has been suggested by some scientists that the ratio of two digits in particular, the 2nd (index finger) and 4th (ring finger), is affected by exposure to androgens such as testosterone while in the uterus and that this 2D:4D ratio can be used as a crude measure for prenatal androgen exposure, with lower 2D:4D ratios pointing to higher androgen exposure.

2D:4D is sexually dimorphic: in men, the second digit tends to be shorter than the fourth, and in females the second tends to be the same size or slightly longer than the fourth. This trait may be better described as ‘sexually differentiated’ rather than ‘sexually dimorphic’ in recognition of the fact that the effect size is fairly small (2D:4D distributions of the two sexes overlap to a great degree), especially as compared to other sexually dimorphic traits such as height.

[…]

That a greater proportion of men have shorter index fingers than ring fingers than do women has been noted in the scientific literature several times through the 1800s. In 1983 Dr Glenn Wilson of King’s College, London published a study examining the correlation between assertiveness in women and their digit ratio. This was the first study to examine the correlation between digit ratio and a psychological trait within members of the same sex.

[…]

Some authors suggest that digit ratio correlated to health, behavior, and even sexuality, in later life. What follows is a non-exhaustive list of some traits which have been either demonstrated or suggested to correlate with digit ratio.

Physiology and disease

* Sperm counts (Manning et al 1998 )
* Heart disease (Manning & Bundred 2001)
* Obesity & Metabolic syndrome (Fink, Manning, Neave 2005)

Psychological disorders

* Autism (Manning et al 2001)
* Depression (Bailey & Hurd 2005b)
* Schizophrenia (Arato et al 2004)

Physical and competitive ability

* Skiing (Manning 2002b)
* Soccer ability (Manning & Taylor 2001)
* Sporting ability in females (Paul et al 2006)

Cognition and personality

* Assertiveness in women (Wilson 1983)
* Spatial ability (van Anders & Hampson 2005)
* Aggression (Benderlioglu & Nelson 2004 , Bailey & Hurd 2005a)
* Masculinity of Handwriting (Beech and Macintosh 2004)
* Perceived ‘dominance’ and masculinity of man’s face (Neave et al 2003; Burriss et al 2006)
* Personality (Austin et al 2002, Fink et al 2004, Luxen & Buunk 2005)
* Musical ability (Sluming et al 2000)

Sexual orientation

* Bem sex role score in women (Csatho et al 2003), erotic role preference in men (McIntyre 2003)
* Lesbians vs. straight women, butch vs. femme lesbians (Brown et al 2002)
* Gay vs straight men and the very odd Europe vs. North American straight man effect (reviewed in McFadden et al 2005).
* Difference in digit ratio between identical female twins discordant for sexual orientation (Hall & Love 2003)
* Fraternal birth order effect on digit ratio (Williams et al 2000).

Confido che ormai abbiate capito l’antifona. Che la lunghezza relativa dell’anulare rispetto all’indice sia maggiore nei maschi che nelle femmine è un fatto stranoto. Che sia studiato in relazione a una serie pressoché infinita di differenti comportamenti e prestazioni tra (between) e all’interno (within) i sessi è altrettanto noto evidente.

Dov’è la notizia allora? Che questo possa essere una (non la) spiegazione del successo dei trader. L’articolo originale (qui ci porta alla fine il nostro percorso) è piuttosto onesto. E d’altronde la PNAS (dove è comparso) è una rivista serissima.

Finalmente, eccoci alla fonte:

pnas-2009-coates-623-82

Abbastanza serio, direi.

Eppure il mio modulo anti-bubbole non è convinto. Solo 44 casi. Tutti maschi. L’esperienza conta più del rapporto indice/anulare. Qualcuno bravo in statistica può aiutarmi a capire meglio?

Jan Palach

Quarant’anni fa esatti, nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969, Jan Palach, studente dell’Università Carlo di Praga, si recò , e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale in piazza San Venceslao, in pieno centro, si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante i tre giorni di agonia.

Io all’epoca, pieno di dubbi ma accecato dall’ideologia, non compresi fino in fondo. Qualche mese dopo, Francesco Guccini mi fece capire con la canzone che compare su Due anni dopo (1970).

Di antichi fasti la piazza vestita
grigia guardava la nuova sua vita,
come ogni giorno la notte arrivava,
frasi consuete sui muri di Praga,
ma poi la piazza fermò la sua vita
e breve ebbe un grido la folla smarrita
quando la fiamma violenta ed atroce
spezzò gridando ogni suono di voce…

Son come falchi quei carri appostati,
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all’orizzonte del cielo di Praga…

Dimmi chi sono quegli uomini lenti
coi pugni stretti e con l’odio fra i denti,
dimmi chi sono quegli uomini stanchi
di chinar la testa e di tirare avanti,
dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava,
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga,

dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava,
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga,
una speranza nel cielo di Praga,
una speranza nel cielo di Praga…

Ancora più bella, mi pare, la versione dal vivo:

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