Usare e utilizzare

Usàre: “Adoperare, impiegare qualcosa: usare l’automobile” (Il Sabatini-Coletti online).

Utilizzàre: “Usare qualcosa; renderlo utile o metterlo a profitto: utilizzare gli avanzi del pranzo per preparare la cena“.

Il Sabatini-Coletti propone utilizzare come sinonimo di usare, ma mi permetto di dissentire.

Intanto, utilizzare è chiaramente un derivato di usare, ed è molto più giovane (usare è attestato dal secolo XIV, utilizzare dal 1802).

La comune radice (attraverso l’italiano uso e il latino usus) è dal verbo latino uti (servirsi), che a sua volta viene dal sanscrito utis (aiuto, soccorso) e al più antico verbo av-ati (godere, saziarsi, favorire).

Ma la cosa più importante è che i due verbi presentano un lieve scarto semantico: usare significa “impiegare qualcosa (o qualcuno) come un mezzo per fare qualcos’altro”; utilizzare significa piuttosto “usare qualcosa in modo appropriato, efficace, traendone pieno vantaggio”.

Due esempi mi aiuteranno (spero):

Se dico che Caio non ha usato il cacciavite per aprire la bottiglia, vuol dire che non ce l’aveva oppure che disponeva di uno strumento migliore. Ma se dico che non ha utilizzato il cacciavite, vuol dire che non ha trovato nessun modo per applicarlo a qualche compito e trarne vantaggio.

Succo del pippone: spesso usiamo “utilizzare” quando dovremmo usare “usare”. Augh!

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Grandiosa boiata

L’uomo è un laboratorio biochimico che produce anima (Rita Parsi su Odeon Sport, mentre l’Inter perde 2-0)

L’albero della vita

Oggi ricorre il 150° anniversario della pubblicazione di On the Origin of Species by Means of Natural Selection di Charles Darwin.

Lo ricordiamo invitandovi a visitare questo bel sito.

Françoise Sagan – That Mad Ache / Douglas Hofstadter – Translator, Trader

Sagan, Françoise (1965). That Mad Ache (La Chamade) / Hofstadter, Douglas R.  (2009). Translator, Trader. New York: Basic Books. 2009.

Devo confessare subito di non avere letto il romanzo di Françoise Sagan nella traduzione di Hofstadter, ma soltanto il saggio di quest’ultimo che compare sul libro se lo si capovolge. Mi sembrava (e mi sembra tuttora) assurdo, per uno la cui lingua madre è l’italiano, leggere in inglese un romanzo originariamente scritto in francese. Forse ho sbagliato, ma mi assumo tutte le responsabilità.

Il saggio di Hofstadter, dunque. Sempre godibile, naturalmente. Ma.

Da giovane – altra confessione – sono stato marxista (e molti della mia generazione lo sono stati), ma anche marxiano e marxologo. Mi compravo i volumi delle Opere complete di Marx ed Engels degli Editori riuniti, e li leggevo pure, comprese le quasi quotidiane lettere che i due si scambiavano quasi quotidianamente.

Uno dei miei testi preferiti era l’Introduzione (Einleitung) del 1857 a Per la critica dell’economia politica, pubblicata poi nel 1859. A un certo punto, nel 3° capitolo dell’Introduzione, Marx si perde in una puntigliosa discussione se sia più corretto muovere dall’astratto verso il concreto, o dal concreto verso l’astratto. Una di quelle discussioni teoriche sulle quali, nel movimento operaio sono scorsi fiumi d’inchiostro e, ahimè, anche più d’un fiotto di sangue.

Se esaminiamo dal punto di vista politico-economico un Paese dato, cominciamo con la sua popolazione, la sua divisione in classi, la città, la campagna, il mare, i differenti rami della produzione, l’export-import, la produzione e il consumo annuali, i prezzi delle merci, ecc.
Sembra corretto cominciare con il reale e concreto, con il presupposto effettivo e, dunque, nell’economia, per es., con la popolazione, che è il fondamento e il soggetto dell’intera attività produttiva sociale. Ma, ad una considerazione più attenta, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione se, per es., trascuro le classi, di cui consiste. Queste classi, a loro volta, sono una vuota espressione, se non conosco gli elementi su cui si basano. Per es., lavoro salariato, capitale, ecc. Questi sottendono scambio, divisione del lavoro, prezzi, ecc. Capitale, ad es., senza lavoro salariato è nulla,[ed anche è nulla] senza valore, denaro, prezzo, ecc. Se, dunque, cominciassi con la popolazione, comincerei con una rappresentazione caotica del tutto e, mediante un’ulteriore determinazione, dovrei pervenire analiticamente a concetti sempre più semplici; dal concreto rappresentato (vorgestelltes Konkretum) ad astrazioni sempre più fini, finché non fossi arrivato alle determinazioni più semplici. Da quel punto, il percorso sarebbe da ricominciare all’indietro, finché non ritornassi alla popolazione, ma questa volta non come la rappresentazione caotica di un Tutto, ma sì piuttosto come una totalità ricca di molte determinazioni e rapporti (Beziehung). La prima via è quella che, storicamente, l’economia ha preso al suo nascere. Gli economisti del XVIII secolo ad es. cominciano sempre con il Tutto vivente (lebendiges Ganze), con la popolazione, la nazione, lo Stato, molti Stati, ecc.; ma finisce sempre che essi trovano, analiticamente, alcuni determinanti rapporti (Beziehung) astratti, generali – come divisione del lavoro, denaro, valore, ecc.. Non appena questi singoli momenti furono più o meno fissati e astratti, cominciarono i sistemi economici, che dal semplice –come il lavoro, la divisione del lavoro, il bisogno, il valore di scambio – risalirono fino allo Stato, alla scambio fra le nazioni e al mercato mondiale. Quest’ultimo chiaramente è il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto, perché è sintesi (Zusammenfassung) di molte determinazioni, dunque, perché è unità della molteplicità. Nel pensare, il concreto si presenta, dunque, come processo della sintesi, come risultato, non come punto di partenza, pur se effettivamente proprio il concreto è il punto di partenza e, quindi, è tale anche per l’intuizione e la rappresentazione. Con la prima via, la densa rappresentazione illanguidisce fino a divenire un’astratta determinazione; con la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto secondo il modo di procedere del pensare. È così che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensare che si raccoglie, si approfondisce in sé e si muove a partire da se stesso, mentre il metodo di risalire dall’astratto al concreto è, solo, il modo del pensare per appropriarsi il concreto, per riprodurlo come un concreto dello spirito (geistiges Konkrete). Ma non è, certo, il modo del processo di generazione del concreto. Per es., la categoria economica più semplice, diciamo il valore di scambio, presuppone la popolazione, ed esattamente una popolazione che produca in determinati rapporti (Verhältnis); come anche un certo tipo di famiglia, di comunità, di Stato ecc. Quella categoria non può esistere, se non come astratto, unilaterale rapporto (Beziehung) di un Tutto vivente, concreto e già dato. In quanto categoria, invece, il valore di scambio ha un’esistenza antidiluviana. Per la coscienza, dunque, – e quella filosofica è, appunto, coscienza –, a cui il pensare concettualizzante (das begreifende Denken) si presenta come l’uomo reale e il mondo concettualizzato come il mondo effettivo –, il movimento delle categorie appare essere l‘effettivo atto della produzione – il quale purtroppo riceve un semplice impulso dall’esterno – , che ha come risultato il mondo; ed è giusto – ma di nuovo una tautologia – che la concreta totalità in quanto totalità del pensiero (Gedankentotalität), in quanto concreto del pensiero (Gedankenkonkretum), sia, di fatto, un prodotto del pensare, del pensare concettualizzante (begreifen); in nessun modo, però, è un prodotto del concetto, che pensa a prescindere ed al di sopra della rappresentazione e dell’intuizione, generandosi così da se stesso. Piuttosto è un risultato dell’elaborazione in concetto dell’intuizione e della rappresentazione. Il Tutto – che nella testa si presenta come un Tutto del pensiero – è un prodotto delle testa pensante, che si appropria il mondo nell’unico modo che le è possibile, modo che è diverso da quello dell’appropriazione artistica, religiosa e pratico-spirituale di questo stesso mondo. Il soggetto effettivo resta, prima e dopo, al di fuori della testa nella propria autonomia; fin tanto che la testa si comporta in modo solo speculativo, solo teoretico. Anche nel caso, dunque, del metodo teoretico, il soggetto – la società – deve continuare a stagliarsi come un presupposto di fronte alla rappresentazione. [la traduzione, che non so se è quella canonica, ma non mi va di arrampicarmi sui polverosi scaffali, l’ho trovata in rete qui]

Insomma, anche se con un po’ di fatica si riesce a dipanare il ragionamento marxiano, il nostro Karl si è cacciato in un bel ginepraio: Insomma, viene da chiedersi alla fine, prima di gettarsi in un’ennesima rilettura, meglio dall’astratto al concreto o dal concreto all’astratto? Al postutto, come scriverebbe Scalfari? At the end of the day, come banalizzerebbe un americano? In una parola sola, un rigo appena?

Marx sembra cogliere il problema e si chiede e ci chiede:

Ma queste categorie semplici non hanno, anche, un’esistenza storica e naturale indipendente rispetto a quelle più concrete?

E la sua risposta si riassume in 2 parole:

Ça dépend.

Giuro. E poi via di nuovo, per pagine, dalla Filosofia del diritto di Hegel al lavoro come categoria astratta ad Adam Smith …

E che cosa c’entra tutto questo con il saggio di Hofstadter? Hofstadter si interroga se la traduzione sia anche tradimento e conclude di no, che è piuttosto trading, commercio, intermediazione tra due lingue e due culture. E già a pagina 8 individua 4 paradossi da evitare quanto la peste. Peccato che poi impieghi gran parte delle restanti 92 pagine del saggio a spiegare come e perché abbia ritenuto lecito, anzi opportuno, anzi doveroso, violarne ora l’uno ora l’altro, fino a non rispettare l’articolazione in capitoli e parti del romanzo originario.

Appunto, ça dépend.


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L’ascensore: una questione di pari opportunità

Quella che segue è una storia scabrosa: innocenti e anime belle si astengano dal proseguire nella lettura.

L’ascensore è per sua essenza il locus della claustrofobia. Tutti temiamo che si possa fermare e che, per quanto gridiamo, nessuno ci venga a salvare. O peggio, che la corda si rompa e precipitiamo fino allo schianto finale, in cantina, tra topi, scarafaggi e generazioni di mozziconi di sigaretta.

E a questi brividi se ne aggiunge, come spesso accade, un altro, vagamente sexy. La speranza che nell’ascensore bloccato ci restiamo con un/a partner del sesso che più e meglio scatena le nostre fantasie.

Il cinema, che dell’inconscio collettivo è spesso il miglior interprete, ha visitato tutta la gamma: dai goccioloni di sangue che piovono dal tetto della cabina in una famosa sequenza de Il silenzio degli innocenti

… alla confessione di Alberto Sordi a Stefania Sandrelli in Quelle strane occasioni.

Nella nostra esperienza, di solito, il peggio che può capitare è una flatulenza rilasciata alla traditora in un ascensore affollato.

Così pensavamo, almeno, fino a quando uno spot ci ha rivelato, all’improvviso, quanto può essere imbarazzante un altro odore, quello delle piccole perdite urinarie o mestruali. Rigorosamente al femminile. Ma niente paura. Individuato il problema, trovata la soluzione: un sottilissimo e pressoché invisibile salvaslip, impregnato di un efficace antibatterico. Al costo di una piccola, ma sopportabile, perdita di afrori feromonici, il rischio di puzzare in ascensore è neutralizzato.

Pare che il ministro Tremonti avesse anche proposto un nome, bocciato però dai pubblicitari: lo scudo ficale.

E noi maschietti? Esclusa  la componente mestruale, anche il maschio di una certa età, magari con problemi di prostata, può soffrire di piccole perdite urinarie. E puzzare in ascensore. E l’industria per noi non ha ancora inventato nulla? Un po’ di creatività, per favore. Un piccolo e discreto dispositivo anche per noi.

Il nome ce l’ho già: il cazzoletto.

Sillabario dei tempi tristi

Diamanti, Ilvo (2009). Sillabario dei tempi tristi. Milano: Feltrinelli. 2009.

Ci sono cascato un’altra volta. Ho comprato il libro di un collaboratore di un giornale (quotidiano o settimanale non importa) e ho preso la consueta fregatura: il libro non è altro che la raccolta degli articoli già pubblicati. Non importa che io non li avessi letti, in questo o in altri casi (in particolare, come ho già raccontato, non compro più repubblica da quando, il 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli vi pubblicò l’articolo “Don Milani, che mascalzone”). Il punto è che il quotidiano e il periodico sono mezzi diversi dal libro, e che l’articolo è un genere letterario diverso dal capitolo.

Ci sono cascato perché Ilvo Diamanti è bravo e mi piace. Ma nemmeno lui può sfuggire alla regola. Il suo libro si legge, ma alla fine ti lascia con un sapore vagamente di cenere in bocca. In questo caso, in particolare, apprezzi le intuizioni, in genere molto acute, di Diamanti; ma vorresti che poi ci fosse un approfondimento, che invece non c’è perché non poteva esserci nell’articolo originale; nel libro, invece, avrebbe potuto esserci: ma Diamanti non ha scritto un (nuovo) libro, ha soltanto pubblicato una raccolta.

Aggiungo soltanto – gliel’hanno detto in molti e Diamanti mette le mani avanti nella Premessa – che sì, anch’io trovo irritante e brutto lo stile sincopato della sua scrittura “giornalistica”. E anche sinceramente manieristico in senso deteriore.

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How does it feel?

Sabato sera sono stato rifiutato da un ristorante.

Non che fosse pieno, o che i tavoli liberi fossero stati prenotati. No. Un ragazzo sulla porta, un cameriere o un buttafuori, ha chiesto a me e ai due amici con cui ero: “Do you speak Korean?”

E alla nostra prevedibile risposta negativa ci ha cacciati con un gesto eloquente della mano. E poi, perché fosse più chiaro, ci ha sbarrato l’ingresso con il corpo.

Per la verità non era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere. Anni fa mi era successo a Tokyo: ci sono dei locali (ristoranti e bar) in cui l’accesso è riservato ai giapponesi, che si considerano tradizionalmente una “razza” eletta. Che capitasse, era scritto anche sulle guide. [Il ristorante coreano, invece, era addirittura segnalato dalla guida che avevo con me, la Rough Guide.]

Ma chiaramente non è questo il punto. Il punto è che, a volte, è bene essere dalla parte dei discriminati, invece che dei razzisti, giusto per sapere “how does it feel?”.

Once upon a time you dressed so fine
You threw the bums a dime in your prime, didn’t you?
People’d call, say, “Beware doll, you’re bound to fall”
You thought they were all kiddin’ you
You used to laugh about
Everybody that was hangin’ out
Now you don’t talk so loud
Now you don’t seem so proud
About having to be scrounging for your next meal.

How does it feel
How does it feel
To be without a home
Like a complete unknown
Like a rolling stone?

You’ve gone to the finest school all right, Miss Lonely
But you know you only used to get juiced in it
Nobody has ever taught you how to live out on the street
And now you’re gonna have to get used to it
You said you’d never compromise
With the mystery tramp, but now you realize
He’s not selling any alibis
As you stare into the vacuum of his eyes
And say do you want to make a deal?

How does it feel
How does it feel
To be on your own
With no direction home
A complete unknown
Like a rolling stone?

You never turned around to see the frowns on the jugglers and the clowns
When they all did tricks for you
You never understood that it ain’t no good
You shouldn’t let other people get your kicks for you
You used to ride on the chrome horse with your diplomat
Who carried on his shoulder a Siamese cat
Ain’t it hard when you discover that
He really wasn’t where it’s at
After he took from you everything he could steal.

How does it feel
How does it feel
To be on your own
With no direction home
Like a complete unknown
Like a rolling stone?

Princess on the steeple and all the pretty people
They’re all drinkin’, thinkin’ that they got it made
Exchanging all precious gifts
But you’d better take your diamond ring, you’d better pawn it babe
You used to be so amused
At Napoleon in rags and the language that he used
Go to him now, he calls you, you can’t refuse
When you ain’t got nothing, you got nothing to lose
You’re invisible now, you got no secrets to conceal.

How does it feel
How does it feel
To be on your own
With no direction home
Like a complete unknown
Like a rolling stone?