I pilastri della pigrizia mentale

Non soltanto le parole possono essere abusate. Le metafore sono ancora più a rischio, perché sono fondanti del nostro modo di pensare, ma lo sono in modo sottile e insidioso. George Lakoff se ne è occupato a lungo, dal classico Metaphors We Live By del 1980 (scritto con Mark Johnson; la traduzione italiana è Metafore e vita quotidiana) al più recente ma popolarissimo Don’t Think of an Elephant (Non pensare all’elefante).

La metafora abusata di oggi è quella dei pilastri. Non so se ci avete prestato sufficiente attenzione, ma da un po’ di tempo tutto si regge sui pilastri. Potrebbero anche essere uno solo o due, ma allora la metafora non verrebbe bene. E allora sono sempre almeno 3. Mai 6 od 8 però, altrimenti la metafora perde di efficacia: e qui, come vedremo, sorgono alcuni problemi.

Se non mi ricordo male, la prima volta che questa metafora è stata utilizzata in Italia è stato a proposito della riforma delle pensioni: il primo pilastro era la previdenza pubblica obbligatoria (il messaggio era che non sarebbe stata sufficiente a campare dignitosamente, o a campare tout court), il secondo i fondi pensione gestiti collettivamente, il terzo la previdenza integrativa individuale. Non mi ricordo bene se fossero il secondo o il terzo pilastro a suscitare le preoccupazioni maggiori. Mi ricordo però che il terzo pilastro non mi faceva venire in mente un tempio greco, ma piuttosto (ma io sono notoriamente un porco, e dei più lubrichi) le battute da spogliatoio maschile sulla “terza gamba”.

Per aiutare quelli come me (suppongo) a visualizzare meglio la metafora hanno cominciato a essere onnipresenti le immagini. Ed è subito apparso chiaro che il riferimento era, per l’appunto, al tempio classico, greco o romano che fosse.

Il primo problema, e il più serio, è che usare una metafora (questa è la lezione principale dello studio di Lakoff e Johnson) serve fondamentalmente a collegare una cosa ignota a una nota, in modo da capire la prima. Se dico che in Maremma piove meno che in Lucchesia perché la Maremma è “all’ombra” delle montagne della Corsica, sto applicando metaforicamente un concetto familiare (sono all’ombra perché qualche cosa mi scherma dal sole) a una situazione meno familiare “mappando” i diversi elementi della situazione familiare con quella nuova (come un muro alto fa ombra schermando dai raggi del sole, allo stesso modo le alte montagne della Corsica riducono la piovosità schermando la Maremma dalle perturbazioni che provengono da Occidente). Attraverso questa mappatura, faccio un’operazione teorica: applico un modello noto a una situazione ignota, e la spiego. Il bello delle metafore, del ragionare per metafore e modelli, è che posso costruire una catena di spiegazioni che mi può portare a una teoria coerente: capire che la metafora che ho usato prima (l’ombra e la pioggia in Maremma) si applica a una classe di fenomeni che hanno degli elementi e una spiegazione in comune (la creazione di una spiaggia tra due promontori, la funzione di una diga foranea, il comportamento degli animali quando proteggono la prole, la falange macedone e la testuggine romana, il feudalesimo, l’invenzione dell’ombrello e dello scudo, …).

Naturalmente, quella del tempio greco è una metafora consueta e potente. Si presta a essere applicata a una situazione in cui voglio tenere una struttura sollevata da terra in un contesto in cui opera la forza di gravità: la funzione dei pilastri è quella di separare la struttura dalle fondamenta, e devono essere abbastanza forti da contrastare la forza di gravità senza cedere; le fondamenta, a loro volta, devono essere abbastanza forti da sostenere il peso del tetto e anche quello dei pilastri.

Ma l’uso sciatto e corrivo della metafora intorbida le acque invece di renderle più limpide (sì, anche questa è una metafora, e precisamente una metafora su segnale e rumore). Tanto per cominciare, nella presentazione della metafora del tempio greco che ho fatto nel capoverso precedente, ho trascurato un elemento cruciale: la funzione di tutta la struttura del tempio, che è quella di disporre di uno spazio coperto. Nelle situazioni in cui la metafora viene normalmente utilizzata, invece, lo spazio tra fondamenta e timpano non conta niente, la struttura è fine a sé stessa. Per parafrasare Lao Tzu, è come ridurre la coppa all’argilla di cui è fatta (cito a memoria):

Si plasma l’argilla per formare una coppa, ma è dal suo non-essere che dipende la sua utilità. Per fare una stanza devi tagliare via dai muri le porte e le finestre: è dal suo non-essere che dipende la sua utilità. Perciò, trasforma l’essere in vantaggio e il non-essere in utilità.

Tacerò, per non sembrarvi più pedante di quanto già mi giudichiate, sulla circostanza che l’architettura ha trovato tecniche più efficienti per creare spazi coperti tra pavimento e soffitto, a cominciare dall’arco (una bella metafora, se ci pensate, in cui non conta la forza bruta, ma il risultato netto delle spinte e controspinte, in un gioco delle parti in cui nessuna può adempiere al suo compito da sola).

Ma anche trascurando questo, in quasi tutti gli esempi che mi vengono in mente, i pilastri non hanno la funzione di tenere distanti e separate le fondamenta e il tetto, ma al contrario di connetterli. Qualche volta staticamente, ma il più delle volte dinamicamente, come nell’esempio qui sopra. Insomma, sarebbe più efficace e più adeguato a trasmettere il messaggio il caro, vecchio, diagramma a blocchi, in cui i flussi sono rappresentati da frecce.

E qui potrei finire il post. Non fosse che ho ancora qualche sassolino da togliermi dalle scarpe.

Non pretendo che abbiate fatto tutti il liceo classico e abbiate studiato storia dell’arte, né che allo scientifico o al tecnico siate sempre stati attenti nelle lezioni di disegno. Ma penso che nella vostra vita qualche tempio greco o romano l’abbiate visto, dal vivo o in fotografia. Se non il Partenone ad Atene, almeno i templi di Agrigento o di Paestum o di Metaponto. Qualcosina a Roma? Tivoli?

Provate a fare mente locale. Pronti?

Prima cosa. I templi classici non hanno i pilastri, hanno le colonne. Secondo il Vocabolario Treccani, un pilastro è [i]n architettura, [un] elemento strutturale ad asse verticale di forma per lo più prismatica; è, in genere, ripetuto ritmicamente o inserito in pareti portanti continue e costituisce la struttura predisposta al sostegno di altre membrature, consentendo la riduzione degli ingombri e la concentrazione delle sollecitazioni su una limitata zona d’appoggio: p. quadrangolare, ottagonale, cruciforme; p. marmoreo; p. monolitico, a blocchi; p. a fascio o polistilo, detto anche piliere (v.). Una colonna, invece, è un [e]lemento verticale, a sezione per lo più circolare e composto di base, fusto e capitello, atto a resistere al peso di elementi sovrastanti (muro, solaio, tetto, arco, volta) e adoperato anche in funzione decorativa: c. di pietra, di marmo, di travertino; le c. di un tempio, di un palazzo, di un portico; c. accoppiate, appaiate,binate; c. scanalata, a spirale; c. tortile (o c. tòrta, o anche a tortiglione), col fusto ritorto a spirale; c. rudentata, con scanalature riempite fino a un terzo dell’altezza da bastoncini detti rudenti; c. bugnata (o rustica), con fusto rivestito di bugne; c. a balaustra, dal fusto a profilo mosso, variamente sagomato, come avviene spesso nel balaustro; c. coclide, con scala interna a chiocciola (v. anche coclide).

Il problema, lo avrete immaginato, è il solito. La metafora è di origine anglosassone e, come spesso accade, l’abbiamo adottata un po’ alla garibaldina (su questo, al solito, incide la cialtroneria dei giornalisti), traducendo con pilastro l’inglese pillar. Le due parole condividono l’etimologia latina (pila) ma non il significato: second l’OED online, [a pillar is] a tall vertical structure of stone, wood, or metal, used as a support for a building. Per contro, [a column is] an upright pillar, typically cylindrical, supporting an arch, entablature, or other structure. Insomma, mentre in inglese una column è, per così dire, una specie cilindrica del genus pillar, in italiano pilastro e colonna appartengono a due categorie diverse, distinte dalla sezione poligonale o tonda.

Seconda cosa. Io non ho presente nemmeno un tempio classico che abbia sulla facciata un numero dispari di colonne. Certamente non nella classica tassonomia tramandataci dal De Architectura di Vitruvio.

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Confidente o fiducioso?

L’abuso di oggi è più sottile di altri di cui abbiamo parlato in questa rubrica. Infatti, a rigore, è lecito utilizzare confidente come sinonimo di fiducioso. Ciò che rende confidente abusato è la schiacciante prevalenza che ha acquisito rispetto a fiducioso, che pure era fino a poco fa il termine corrente e più comune.

The Informer

allposters.com

Ma andiamo con ordine e partiamo dalla definizione che il Vocabolario Treccani propone per fiducioso:

Pieno di fiducia: essere fiducioso in sé stesso, nelle proprie risorse; fiducioso nell’aiuto promesso, si gettò decisamente nell’avventura; con reggenza verbale: essere fiducioso di riuscire; era fiducioso che qualcuno l’avrebbe aiutato. In usi assoluti, con fiducia, con ferma speranza: si sottopose fiducioso all’intervento chirurgico; attendo fiducioso il benevolo accoglimento della mia domanda; o che mostra fiducia: volto, sguardo fiducioso.

E per confidente (come aggettivo, perché come sostantivo il confidente è una persona cui si confidano i propri segreti e soprattutto l’informatore della polizia, la spia, come nel famoso film di John Ford con Victor McLaglen, The Informer):

  1. Che confida, fiducioso; per lo più con uso assoluto: con animo confidente; la sua confidente attesa; in fronte La gioia ti splendea, splendea negli occhi Quel confidente immaginar (Leopardi); meno comunemente seguito da in: confidente nelle proprie forze; confidente nella bontà del giudice.
  2. Baldanzoso, sicuro di sé: Tempra de’ baldi giovani Il confidente ingegno (Manzoni).

Insomma, la faccenda è un po’ complicata, e tende a porsi al confine tra la “questione di lana caprina” [secondo Wikipedia: «Un detto popolare ritiene che la lana caprina non esista, dato che solitamente è la pecora ad essere tosata. Con l’espressione “questioni di lana caprina” ci si riferisce al voler indagare se le capre abbiano il pelo o la lana: quando si vuol criticare qualcuno che “frulla l’aria” su argomenti (apparentemente) futili, si dice che perde tempo intorno a “questioni di lana caprina”. In realtà, le capre diffuse in zone assai fredde spesso sono ricoperte da una soffice peluria isolante oltre ad un primo strato di lana più ruvida. Tale peluria viene utilizzata per produrre vari tipi di lana, di cui la più nota è il cashmere. Si ricorda anche il mohair.»] e il grammar nazism (a grammar nazi is «a person who believes proper grammar and spelling should be used by everyone whenever possible»). Insomma, confidente come aggettivo si può usare, ma è (primo) un termine un po’ più ambiguo di fiducioso perché ha anche altri significati, come baldanzoso e sicuro di sé; e (secondo) andrebbe adottato con uso assoluto (cioè senza un oggetto specifico: “sono confidente” è analogo a “sono fiducioso”, ma “sono fiducioso nel raggiungimento dei miei obiettivi” è da preferire a “sono confidente nel raggiungimento dei miei obiettivi”).

Capra

wikipedia.org

Ma non è questo il punto che mi interessa: non sono una persona seria e mi interrogherò piuttosto sulle ragioni che possono aver spinto a sostituire un aggettivo di uso comune con uno fino a poco tempo fa più raro e letterario. Ho in mente 4 motivi.

  1. Gli aggettivi che finiscono in -oso ci sembrano infantili, poco seri, inventati lì per lì. La responsabilità, anche se se ne ricorderanno forse in pochi, è della pubblicità della Fiat Uno, concepita negli anni Ottanta da Giorgio Forattini.

    Secondo questa accezione, fiducioso sarebbe un po’ come comodoso, sciccoso, risparmioso e scattoso.
  2. Per chi ha un approccio appena più scientifico, il problema è che gli aggettivi con desinenza in -oso sono percepiti come più deboli di quelli con desinenza in -ico. Anche chi non ricorda nulla della chimica del liceo, immagino, sa almeno vagamente che l’acido solforoso è una cosetta da signorine, buono al più a evitare che la frutta secca o il vino si guastino, mentre l’acido solforico (o vetriolo) è meglio non versarselo addosso, ma utilizzarlo semmai – in un romanzo a tinte fosche – a sfigurare una bella infedele o a punire un confidente della polizia.
    C’è poco da scherzare: le foto che si trovano in rete sono talmente truci che ho preferito non pubblicarle qui.
  3. Fiducioso in inglese si dice confident, e l’attrazione dei falsi amici è irresistibile per i parvenu nostrani. Vuoi mettere, come è provinciale uno banalmente fiducioso? Anzi, probabilmente è anche un po’ un illuso, verosimilmente la sua fiducia è infondata, la ripone a sproposito in qualcosa di irreale, come Babbo Natale o la giustizia “giusta” di Zorro. Invece, chi è confidente di certo ne ha solido fondamento razionale, ha appoggi in alto loco che gli hanno garantito il raggiungimento dell’obiettivo, ha la scienza, il potere e i mezzi economici dalla sua parte. Magari anche i poteri forti.
  4. Uso e abuso di confidente sono una tecnica di comunicazione politico-aziendale (comunicazione aziendale e comunicazione politica ormai si confondono, si sovrappongono e si fecondano a vicenda). Come è ampiamente noto ( ne abbiamo parlato anche noi a proposito del libro di Robert Trivers, The Folly of Fools: The Logic of Deceit and Self-Deception in Human Life), non c’è modo migliore di ingannare gli altri che con una menzogna (o una verità parziale o distorta) in cui noi stessi crediamo. Per questo, è assolutamente necessario, per chi ci vede e ci ascolta ma anche per noi stessi, essere convinti della sincerità delle nostre affermazioni. E dunque, anche chi afferma deve essere convinto, quanto più possibile, di dire la verità. Per questo, come abbiamo già notato, politici e imprenditori si riempiono la bocca dell’intercalare «io credo». «Essere confidenti nel successo delle nostre intraprese» è una stella della medesima costellazione.

Finalizzare

La parola abusata di oggi, finalizzare, viene utilizzata con il seguente significato, che cito come di consueto dal Vocabolario Treccani:

Condurre a compimento […]. Apportare modifiche a qualche cosa al fine di renderla più rispondente al suo scopo, o comunque di migliorarla, di affinarla: […] una macchina, un motore, uno strumento; […] un metodo, una tecnica; […] il tuo stile.

Tutto bene allora? No, perché è vero che ho trascritto, in parte, un lemma del Vocabolario Treccani, ma è quello riferito al verbo perfezionare.

Sempre a detta del Vocabolario Treccani, il significato di finalizzare è completamente diverso:

Ordinare, rivolgere a un fine determinato un’azione, un’attività o un’istituzione: finalizzare una ricerca.

E come è possibile che, disponendo di un verbo che significa esattamente quello che si intende dire, e che già i Romani utilizzavano in questa accezione (ad esempio, “Occorre perfezionare la bozza di contratto”) si preferisca dire e scrivere “Occorre finalizzare la bozza di contratto.” E badate bene che, a rigore, il rischio è quello di dire esattamente il contrario di quello che si intende: perché “Occorre perfezionare la bozza di contratto” fa riferimento a un contratto il cui oggetto e i cui contenuti sono sufficientemente definiti e vanno sistemati nella forma, nelle clausole e nel linguaggio giuridico; mentre “Occorre finalizzare la bozza di contratto” fa piuttosto pensare a un contenitore già curato sotto il profilo della forma, delle clausole e del linguaggio giuridico, ma da riempire di un oggetto e di contenuti specifici.

Come è possibile, ci chiedevamo? La tentazione è quella di dire: perché la cultura cattolica di cui siamo intrisi ci induce a pensare che la perfezione non è di questo mondo e, di conseguenza, ci ripugna anche solo l’idea di utilizzare un verbo che possa farci pensare che la perfezione esista, anche solo limitatamente al linguaggio tecnico.

Soltanto una tentazione, però. Perché temo che la verità sia più banale. Questa:

Finalize: [verb, with object] complete or agree on a finished and definitive version of: efforts intensified to finalize plans for post-war reconstruction. [Oxford English Dictionary]

Finalize: [transitive verb] 1. to put in final or finite form (soon my conclusion will be finalized — D. D. Eisenhower); 2. to give final approval to (finalizing the papers prepared by his staff — Newsweek). [Merriam-Webster]

Fatemi la cortesia, usate perfezionare. Per aiutarvi a ricordare, una canzone di Enya, Cursum perficio:

Epocale

Le parole abusate hanno due caratteristiche ricorrenti:

  1. l’essere usate fuori contesto, e spesso in un’accezione sbagliata (frequentemente si tratta di un falso amico preso in prestito da un’altra lingua, in questi tempi dall’onnipresente inglese)
  2. l’essere usate in modo enfatico, iperbolico, sopra le righe.

Un buon esempio è l’aggettivo epocale. Il Vocabolario Treccani online: ci spiega che la parola l’abbiamo presa a prestito dall’inglese (dove è peraltro recente, essendo attestata circa dal 1850).

aggettivo [dall’inglese epochal, derivato di epoch «epoca»], non comune [sic!] – Di un’epoca, relativo a un’epoca; più spesso, che segna un’epoca, che costituisce l’inizio di un periodo storico: momento epocale di una nuova era.

Non comune? Conosco persone che ne hanno fatto un intercalare: non c’è azione che abbiano compiuto, attività che abbiano avviato, risultato che abbiano conseguito, che non sia epocale. Un caso di delirio narcisistico? Può essere: ma non siamo qui a fare della psicopatologia della vita quotidiana, siamo qui a fare analisi critica del costume attraverso gli usi e i tic linguistici.

Allora, se epocale si dice di qualcosa che segna un’epoca, e specificamente l’inizio di un periodo storico, di un’era, sarà bene analizzare il significato di questi due termini, epoca ed era.

Època sostantivo femminile [dal greco ἐποχή, propriamente «sospensione, fermata», derivato di ἐπέχω «trattenere»]. –

  1. Propriamente, punto fisso nella storia, segnato da qualche avvenimento memorabile, da cui si comincia a contare una nuova serie di anni; o spazio di tempo compreso fra due di tali punti o momenti della storia. Più comunemente, periodo storico collegato a grandi avvenimenti: l’epoca delle Crociate, delle grandi scoperte geografiche; la caduta dell’Impero romano segnò l’inizio di una nuova epoca. Con senso più generico: viviamo in un’epoca di grandi trasformazioni; l’epoca precedente alla nostra generazione; e nella locuzione aggettivale dell’epoca (o d’epoca), coevo, contemporaneo, appartenente proprio a quel tempo: una commedia cinquecentesca in costumi (o con arredamento) dell’epoca; esecuzione di musica vivaldiana con strumenti originali dell’epoca (con altro significato, un palazzetto d’epoca, arredamento d’epoca, antico, tipico di tempi passati). Meno propriamente, tempo in generale, momento e simili: all’epoca del mio matrimonio; nell’epoca in cui ero studente; in quell’epoca, da quell’epoca. Appartiene al linguaggio comune la locuzione fare epoca (calco del francese faire époque), di avvenimento o fatto notevole, destinato a lasciare traccia di sé: fu una scoperta che fece epoca; è una moda che farà epoca.
  2. In astronomia, l’istante dal quale convenzionalmente si incomincia a contare il valore di una quantità variabile con il tempo, per esempio quello della longitudine celeste media di un astro del sistema solare.
  3. Nella cronologia geologica, suddivisione del periodo (a sua volta suddivisa in età): il paleogene è suddiviso nelle epoche oligocene, eocene e paleocene.
  4. Nel linguaggio commerciale, data di decorrenza di termini. In particolare, nella pratica borsistica e bancaria, epoca di godimento, la data di decorrenza degli interessi su fondi pubblici e privati; metodo ad epoca, metodo indiretto per la tenuta di un conto corrente, che fissa, agli effetti del computo degli interessi, una data comune, detta appunto epoca, che deve essere anteriore a tutte le valute delle operazioni del conto.

Esclusa la 4ª accezione, specialistica, le altre 3 non sembrano giustificare l’apposizione dell’aggettivo epocale a cambiamenti o avvenimenti forse importanti, ma non tali da essere ricordati come spartiacque tra due periodi storici differenti, e meno che mai ad accadimenti o risultati rilevanti soltanto in ambito ristretto. Eppure, tutto è ormai epocale. Ho fatto in questo istante (sono le 16 del caldo e sonnacchioso pomeriggio del 20 luglio 2012) e ho cercato su twitter le ricorrenze della parola epocale nelle ultime 24 ore. Ecco che cosa ho trovato (ho fatto appena un minimo di editing per proteggere la privacy degli autori):

  1. «siamo sulla soglia di un cambiamento epocale. torneremo al medioevo fra poco.. entro l’anno. ma tanto chi governa se ne fotte..
  2. «Nulla sarà più come prima e il Paese uscirà a pezzi, tra molti anni, da questa epocale resa dei conti»
  3. «Sul Fatto epocale […] dissacra Ibra e dichiarazioni calciatori. Tipo: “Sono pienamente d’accordo a metà col mister”»
  4. «O Microsoft s’è comprata Twitter, oppure siamo vicini ad un altro down epocale
  5. «una scoperta epocale. perché se io Lupu Ululà, lei è il vero Castellu Ululì.»
  6. «L’ho sentito, la Brambilla dice che i cani in viaggio su@LeFrecce sono “un cambiamento epocale per questo Paese”. Epocale, per il Paese.»
Brambilla

milano.repubblica.it

Non male, vero? sembra quasi che siamo di fronte a un aggettivo jolly, che si può inserire al posto di qualunque altro.

Giusto per rigore riprendo da Wikipedia la voce sulla Scala dei tempi geologici:

La scala dei tempi geologici rappresenta un modo per suddividere il tempo trascorso dalla formazione della Terra condiviso dalla comunità scientifica internazionale e in continua evoluzione. Esiste un organismo internazionale delegato alla formalizzazione (quindi alla nomenclatura) di questa scala, la Commissione Internazionale di Stratigrafia che presiede alla ratifica dei GSSP.
[…]
Concettualmente ogni suddivisione raggruppa una fase della storia della Terra caratterizzata da determinati organismi spesso estinti al termine dell’Era geologica di appartenenza. L’età della Terra è stimata in circa 4570 milioni di anni (nella nomenclatura inglese, 4570 mya o, in “Ma”, 4570 Ma). Il tempo geologico o “profondo” della Terra in passato è stato organizzato in varie unità, a seconda degli eventi che si sono succeduti in ogni periodo. Differenti livelli della scala temporale sono spesso delimitati da grandi eventi geologici o paleontologici, come le estinzioni di massa. Per esempio, il limite tra il periodo Cretacico e il periodo Paleogene è definito dall’evento della estinzione dei dinosauri e di molte specie marine. Altri periodi, precedenti le rocce contenenti fossili guida, sono definiti in maniera assoluta da età radiometriche.

Unità Geocronologiche “Corrispondenza empirica” in anni
Eone miliardi di anni
Era centinaia di milioni di anni
Periodo decine di milioni di anni
Epoca milioni di anni
Età migliaia di anni
Epocale

wikipedia.org

E come chiameremo l’epoca segnata dai viaggi dei cani sul Frecciarossa? Brambillocene? L’era dell’Airedale bianco?

Circolare

La prima delle parole abusate, senza che ve ne sia un motivo particolare, se non l’averla sentita ossessivamente oggi in una riunione, è circolare. Non l’aggettivo («avente forma o proprietà affini a quelle del cerchio o della circonferenza») o il sostantivo («linea autofilotranviaria che segue un percorso circolare e il cui capolinea d’arrivo coincide perciò con quello di partenza» oppure «lettera inviata nella stessa forma a più persone per trasmettere ordini di servizio, comunicazioni o disposizioni di carattere interno»), ma il verbo usato in senso transitivo.

Armatevi di pazienza (ve l’ho già detto che sono esercizi di pedanteria). Partiamo dal Vocabolario Treccani online:

verbo intransitivo [dal latino circulari, latino tardo circulare, derivato di circŭlus «cerchio»] (io cìrcolo, ecc.; ausiliario avere ed essere).
Propriamente, andare in giro, andare attorno: circolavo oziosamente per le strade;
più genericamente, muoversi, passare: non si poteva circolare; «circolate!» ci disse il vigile; circolare!, ordine degli agenti della Polizia di stato in caso di assembramenti.
In particolare, dell’aria, passare da un luogo all’altro: lasciate che l’aria circoli liberamente nelle vostre case;
del sangue, scorrere per le arterie e per le vene;
figuratamente: e nelle vene Tornò più lieta a circolar la vita (V. Monti);
di notizie, idee, scritti, monete e simili, passare da una persona all’altra, di mano in mano: sono circolate gravi notizie sul suo conto; pare che circolino molte banconote false; il denaro non circola più come un tempo; fate circolare il foglio perché tutti lo leggano.

Qual è il punto? Il punto è: in italiano, il verbo circolare è intransitivo (se non vi ricordate la differenza tra verbi transitivi e intransitivi potete andare a leggere su Wikipedia, ma state attenti a non farvi beccare da un figlio o nipote che va a scuola perché rischiate di farvi prendere in giro vita natural durante). Non può essere usato in senso transitivo. Punto. Peccato, forse, ma è così. Non è questione di essere o non essere grammar nazi: è così e basta. Le regole grammaticali e sintattiche sono sì il risultato di una convenzione, ma di una convenzione che si è affermata, ancor prima di essere codificata. Teniamo la destra andando in macchina su una strada a due corsie non soltanto (direi: non tanto) perché è prescritto dal codice della strada, ma perché se non ci fossimo messi d’accordo su questa regola e non la rispettassimo faremmo molti più incidenti e ci impiegheremmo molto più tempo negli spostamenti. Fateci caso, in condizioni normali (cioè se non ci sono particolari ostacoli) anche il traffico pedonale tende a rispettare la regola del tenere la destra (almeno in Italia) non appena si addensa un po’. Insomma, alla fin fine è una questione di costi e di benefici, di incentivi e disincentivi. E nella lingua? Nella lingua l’incentivo è a capirsi. Il linguaggio confuso si presta all’incomprensione, all’ambiguità, al rallentamento della comunicazione. Il primo costo lo paga chi sta (volta per volta, nel caso di una comunicazione bidirezionale) dalla parte ricevente, magari anche solo in termini di irritazione. Ma alla lunga è tutto lo scambio comunicativo a soffrirne: cioè, i costi li pagano tutti.

Ricapitolando. Si può dire: il foglio deve circolare in modo che tutti possano leggerlo (variante dell’esempio riportato dal Vocabolario Treccani). Non si può dire: circolate il foglio in modo che tutti possano leggerlo. Meno che mai si può dire (ahimè, ho dovuto leggere anche questo): circolarizzate il foglio in modo che tutti possano leggerlo.

E allora, come si fa in italiano ad attribuire un carattere transitivo al concetto? si può usare fare circolare, così:  fate circolare il foglio in modo che tutti possano leggerlo. Due sillabe in più: capisco il problema. Ma l’italiano è una lingua ricca: distribuite, diffondete, divulgate, fate girare il foglio in modo che tutti possano leggerlo.

No, non ci sono né scuse né attenuanti.

Relativity

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