Autunno

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

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Profondo nero

Lo Bianco, Giuseppe e Sandra Rizza (2009). Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista all’origine della stragi di Stato. Milano: Chiarelettere. 2009.

Il tema mi appassiona, ma (o forse proprio per questo) il libro mi ha deluso.

La tesi è abbastanza semplice e, per la verità, non del tutto nuova. Con il contagocce, inchiesta dopo inchiesta, pentito dopo pentito, rivelazione dopo rivelazione, abbiamo avuto una ragionevole certezza politico-culturale (per parafrasare Pasolini), anche se non giudiziaria, che Mattei è stato ucciso dalla mafia su incarico dei poteri forti del nostro Paese (non senza qualche aiutino degli amerikani) perché dava fastidio, e poi De Mauro è stato ucciso (stessi esecutori, stessi mandanti) perché aveva scoperto di Mattei (di questo la famiglia De Mauro e Boris Giuliano furono convinti dall’inizio), e poi Pasolini fu ucciso (come sopra) perché aveva capito tutto. Aleggiano su tutto e tutti le ombre inquietanti di Vito Guarrasi ed Eugenio Cefis.

Il problema è tutto qui: tutti quelli che avevano capito e sospettato avevano visto giusto, ma non avevano le prove. Le prove, ahimè, non le hanno neppure gli autori di questo libro e le fonti che citano. Il risultato, temo, è che le loro argomentazioni risultano convincenti per chi già la pensava così, e irrilevanti per gli altri. Un problema frequente, tra gli autori di Chiarelettere.

Alcune osservazioni:

  • trovo irritante costruire il libro sulla parafrasi degli atti giudiziari o di altre fonti giornalistiche, e poi citarle in nota per esteso, facendo capire al lettore che non si è nemmeno fatto lo sforzo o la scelta di cambiare le parole;
  • ho trovato anche molto fastidioso il tentativo di introdurre una suspense che non c’è, come se dovessimo scoprire il ruolo di Cefis soltanto nelle ultime pagine (Razza padrona è del 1974): troppi emuli di Lucarelli;
  • non è vero che Petrolio di Pasolini sia stato letto soltanto come un’opera letteraria e non di denuncia: io l’ho letto quando uscì (anche) come opera di denuncia, non perché sono particolarmente sveglio, ma perché non lo si può leggere altrimenti;
  • che uno che si chiama Lo Bianco intitoli il suo libro Profondo nero mi pare cromaticamente inappropriato e calcisticamente troppo juventino.

Bigotto

Chi dimostra una religiosità eccessiva e puramente esteriore: lo pensavo sincero credente, ma è solo un bigotto [De Mauro online].

Etimologia controversa. Secondo alcuni è di origine francese (bigot) e affine a cagot, “falso devoto”.

Secondo altri (e a me pare verosimile) deriverebbe dal tedesco Bei Gott, “per dio, in nome di dio” che pare fosse spesso sulla bocca dei devoti, un po’ come noi diciamo “mamma mia!”. A questa ipotesi è collegata una storia carina, anche se non del tutto verosimile: Rollo il Camminatore (era così grasso che non poteva montare a cavallo), invasore vichingo della Normandia, l’ebbe concessa dal legittimo sovrano, Carlo III il Semplice, a patto che gli altri vichinghi fossero tenuti fuori dal regno. Per suggellare il patto, Rollo dovette baciare il piede calzato di Carlo, ma poiché non intendeva mantenere l’impegno bofonchiò, in una lingua composita e incerta, “Ne se, bi got” (“Non so, per dio”). Mah.

Altra ipotesi. Deriverebbe per contrazione da visigoto (i visigoti erano eretici ariani, i francesi cattolici): anche cagot, di cui abbiamo detto sopra, avrebbe origine simile (ca got = “cane di un goto”, in provenzale). Allo stesso modo, pare, i Merovingi chiamavano i musulmani e gli eretici, arabi o goti che fossero, che nei Pirenei si fingevano devoti cristiani per sfuggire alla persecuzioni, e per estensione il nome fu applicato genericamente alle popolazioni del bearnese e dai paesi baschi.

Ma secondo altri, cagot deriverebbe dal bretone (cacadd significa “lebbroso”) e avrebbe attratto bigot nella sua orbita.

Altra ipotesi: da bigio, che era il colore dell’abito delle persone dedicate a pratiche di penitenza religiosa, deriverebbero, oltre che bigotto, anche beghina, bizzoco e pinzochero.

Ultime 3 proposte: dall’italiano baco, nella variante beco/bico, usato in senso spregiativo (come in bighellone); dal francese bigote, “borsa portata alla cintola”; dallo spagnolo bigote, “baffone”.

Fate voi: a me piace Rollo il Camminatore!

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Quodlibet

“Nel Medioevo, questione discussa pubblicamente nelle università intorno ad argomenti proposti dagli ascoltatori. In musica, composizione a carattere scherzoso in uso dal XII al XVIII secolo, consistente nella contrapposizione di melodie, sacre o profane, diverse sia per il tono del testo sia per la musica.” [De Mauro online]

Dal latino, quod libet, “ciò che ti pare e piace”.

Il più famoso quodlibet della storia della musica è quello che Johann Sebastian Bach piazza come 30ª variazione delle celeberrime Variazioni Goldberg (BWV 988). Come era abitudine di Bach, le Variazioni Goldberg hanno una struttura musical-matematica rigidissima. Sono 10 gruppi di 3 variazioni, di cui la terza è sempre un canone, secondo una sequenza ascendente: la variazione 3 è un canone all’unisono, la 6 un canone alla seconda, la 9 un canone alla terza e così via (non è necessario sapere che cos’è un canone all’unisono eccetera per apprezzare quanto segue, ma se siete curiosi potete leggere su Wikipedia).

Arrivato alla 30ª variazione, che dovrebbe essere un canone alla decima secondo le regole che lo stesso Bach si è dato, sorpresa!, Bach ci schiaffa un quodlibet basato su due canzoni popolari tedesche, Ich bin solang nicht bei dir g’west, ruck her, ruck her (“Per troppo tempo sono stato lontano da te, vieni qua, vieni qua”) e Kraut und Rüben haben mich vertrieben, hätt mein’ Mutter Fleisch gekocht, wär ich länger blieben (“Crauti e rape mi hanno fatto andar via, se mia madre avesse fatto la carne sarei restato”).

Penso di non dover aggiungere altro. Buon divertimento (suona il grande Grigorij Sokolov).

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Cimosa

Riassumo da Wikipedia:

La cimosa (o cimossa) è il bordo non tagliato di una pezza di tessuto, il lato destro e sinistro quando esce dal telaio. Si viene a creare sui bordi laterali di un ordito quando la navetta, dopo aver posto il filo di trama nel passo, ritorna sull’altro lato. La distanza tra una cimossa e l’altra si chiama altezza e corrisponde alla larghezza effettiva della pezza di tessuto.

La cimosa può essere molto differente dal tessuto:

L’armatura della cimosa può essere diversa da quella del tessuto, sempre per motivi di resistenza: su un tessuto operato sovente è a tela. In alcuni casi è anche di colore differente, e se il tessuto viene stampato viene lasciata bianca.

I fili d’ordito nei pressi del bordo esterno vengono raddoppiati per lo spazio di pochi centimetri per rendere la cimossa più resistente.

Quando risulta bucherellata da minuscoli fori, significa che è stato usato un tempiale per mantenere costante la larghezza del tessuto.

Quando riporta scritte, sigle, marchi di fabbrica o altri segni convenzionali viene chiamata cimosa parlante; i segni possono essere tessuti o stampati con colore contrastante.

Per tutti questi motivi la cimosa non può essere utilizzata in un lavoro di sartoria ma deve essere nascosta o tagliata.

Questo ci porta al secondo significato di cimosa:

“striscia di panno arrotolata per cancellare le scritte di gesso sulla lavagna [De Mauro online]

A me risulta che questo secondo uso del termine “cimosa” sia diffuso soltanto in Toscana. Quando andavo a scuola io, a Milano, chiamavamo l’oggetto “cancellino” (o più spesso “scancellino”). Mi risulta che al Sud lo chiamino “cassino”. Quello che abbiamo in mente tutti, peraltro, è di feltro e non di cimosa!

lnx.edsdidact.it

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Nisida e la soluzione 30%

Il 14 settembre 2009, il ministro Mariastella Gelmini ha inaugurato il nuovo anno scolastico all’istituto penitenziario per minori di Nisida.

Cito da Il Giornale (giusto per farmi male):

«Abbiamo annunciato un provvedimento di cui stiamo studiando gli aspetti tecnici che prevederà un tetto del 30 per cento per favorire le condizioni migliori per un’integrazione anche degli alunni stranieri», ha spiegato il ministro dell’Istruzione nel corso di un’intervista su Canale 5.
«In alcune classi – ha aggiunto – la presenza degli immigrati sfiora il 100%: queste non sono le condizioni adatte per favorire l’integrazione». Un chiaro riferimento alla «Carlo Pisacane», la scuola elementare romana con l’82% di iscritti stranieri […]

Già, “gli aspetti tecnici”. Certo non si può pretendere che il ministro sappia fare 4 conti, e quindi sarà necessario che qualche esperto, magari una commissione istituita all’uopo, studi gli aspetti tecnici.

Ma proviamo a farli noi, questi 4 conti, sul retro di una busta, giusto per ribadire il tormentone che è la “cultura quantitativa” che ci manca. Quanti sono, in Italia, i bambini che frequentano la scuola dell’obbligo? Tra i 550.000 e i 560.000 all’anno, per ogni singola classe d’età (questo dato, e tutti gli altri che cito, li ho presi dal sito dell’Istat). Poiché gli italiani (i residenti in Italia, per essere più precisi) sono 60.000.000, in media i bambini di ogni classe della scuola dell’obbligo sono poco meno dell’1% della popolazione totale. Diciamo l’1% per non complicarci troppo la vita.

La prima conclusione è questa: per fare una classe di 25 alunni ci vuole, mediamente, un bacino di popolazione di 2.500 abitanti. Con meno di 2.500 abitanti o si fanno classi più piccole o, superato un certo limite, si fanno le cosiddette pluriclassi. È quello che succede, molto spesso in montagna (e quando succede, o si costringono i bambini a lunghi spostamenti, o li si disincentiva alla frequenza scolastica, o si spingono i genitori a trasferirsi in centri più popolosi e si contribuisce allo spopolamento delle aree montane…). Trascuriamo il problema delle località abitate e delle frazioni (dove però, spesso, la scuola dell’obbligo c’è o quanto meno c’era) e cerchiamo di capire quanti comuni hanno la dimensione minima che permette di formare almeno una sezione di 25 alunni per ogni classe. Allora, i comuni italiani sono 8.100. Ma soltanto 3.990 comuni hanno almeno 2.500 abitanti; gli altri 4.110 ne hanno meno, e formare classi di 25 alunni sarà presumibilmente difficile.

Ma perché sto ragionando su una classe di 25 alunni? Perché in una classe di 25 alunni (dimensione che mi sembra ragionevole), il “tetto” del 30% proposto da Mariastella Gelmini si traduce in 7,5 alunni stranieri. Anche se siamo di manica larga, e non tagliamo a metà nessun piccolo straniero, vuol dire al massimo 7-8 su 25. E se sono di più dove li mandiamo: a fare scuola in un altro comune? A spese sue o con uno scuola-bus?

I bambini stranieri residenti nell’età dell’obbligo scolastico sono tra i 35.000 e i 45.000 l’anno (qui l’incidenza degli stranieri aumenta al diminuire dell’età, mentre il totale resta abbastanza stabile: il motivo lo vedremo tra un po’). Badate che sto parlando soltanto degli stranieri residenti, cioè iscritti nelle anagrafi comunali. Ma secondo le norme italiane, “tutti gli alunni con cittadinanza non italiana, qualora siano soggetti all’obbligo di istruzione, anche se sprovvisti di permesso di soggiorno, devono essere iscritti presso una istituzione scolastica.” [DPR 31 agosto 1999, n. 394, articolo 45]. Secondo i dati del Ministero dell’istruzione, nell’anno scolastico 2007/2008 l’incidenza di alunni stranieri era del 7,7% nella scuola primaria e del 7,3% nella secondaria di 1° grado: cifre molto lontane dal fatidico 30%, che però nascondono enormi differenze territoriali. In prima elementare e nel Nord-est, per esempio, l’incidenza degli stranieri raggiungeva il 13%. Vi sono già ora comuni in cui l’incidenza degli alunni stranieri si avvicina o supera il 30% e il “rischio” di avvicinarsi o superare la soglia gelminiana è tanto più elevato quanto più il comune è piccolo.

Nel valutare queste cifre, e per non farsi disorientare da un fattore emotivo, occorre ricordare che il 60% di questi alunni stranieri è nato in Italia. Arriva in prima elementare dopo 6 anni in cui è cresciuto in Italia, tra altri bambini italiani, e parla in genere l’italiano come prima lingua. È integrato, mi vien da dire, per nascita. E allora perché li chiamiamo stranieri? Perché per la legge italiana, il nato in Italia da genitori di cittadinanza straniera è straniero. Si chiama ius sanguinis, ed è un retaggio del diritto romano. In altri Paesi, come in Francia, vige lo ius soli: chi è nato sul suolo francese è francese  a tutti gli effetti, a prescindere dalla cittadinanza dei suoi genitori.

E allora vuol dire, cara Gelmini, che nella nostra ipotetica prima elementare in cui su 25 bambini 7 sono stranieri, 4 sono nati e cresciuti in Italia. Non vedo nessun problema di integrazione per loro, onestamente. Vedo un problema di razzismo, per chiamare le cose con il loro nome, se li discriminiamo per il colore della pelle o per il nome e cognome “forestieri”.

La soluzione del 30%, dunque, è inapplicabile, sbagliata ed eticamente ripugnante. Resta da aggiungere che è destinata a peggiorare (la soluzione, non il problema!), per il semplice fatto che il numero e l’incidenza degli alunni stranieri è destinata a crescere: i ragazzi stranieri di 13 anni sono meno di 35.000, i bambini di 6 anni 45.000, ma i nati stranieri (in Italia) hanno già superato i 65.000. Tra 6 anni andranno in prima elementare. Il numero di nati di madre italiana, invece, non cresce.

È bene ricordare che questo è l’effetto non tanto di una propensione ad avere figli particolarmente elevata tra la popolazione straniera, ma di quella italiana particolarmente bassa. Le donne italiane hanno, in media, 1,28 figli: un tasso di fecondità particolarmente basso. Le straniere hanno in media 2,4 figli per donna: un tasso di fecondità circa doppio.

“Ma nessuno lo sa”: come di Nisida, che è un’isola, e non solo un penitenziario…

No no no no, quando arriva l’estate
no no no no, non lasciatevi suggestionare
dai cataloghi che vi parlano di isole incantate
e di sirene-e in offerta speciale

No no no no, non cercate lontano
quello che avete qui a portata di mano
a questo punto vi starete certamente chiedendo
chissà stavolta questo dove vuole andare a parare…

Venite tutti a Nisida, ya ya ya ya ya Nisida
ya ya ya ya ya Nisida un’isola e nessuno lo sa!…

No no no no, niente voli speciali
e neanche traversate intercontinentali
per arrivarci basta solo la Cumana
Nisida così vicina così lontana

Coi suoi giardini e il porto naturale
con l’Italsider alle spalle che la sta a guardare
Nisida sembra un’isola inventata
ma mio padre mi assicura che c’è sempre stata!…

Venite tutti a Nisida, ya ya ya ya ya Nisida
ya ya ya ya ya Nisida un’isola e nessuno lo sa!…

Non un problema ecologico per carità
Nisida un classico esempio di stupidità!…

Venite tutti a Nisida, ya ya ya ya ya Nisida
ya ya ya ya ya Nisida un’isola e nessuno lo sa!…

Dante Alighieri

Muore a Ravenna, tra il 13 e il 14 settembre 1321.

Decine di km più a nord e centinaia di anni dopo, ma nello stesso giorno, alla festa dei popoli della Padania Umberto Bossi dichiara: la Padania “sarà libera con le buone o con le meno buone. La libertà è un diritto, e quindi è un diritto ottenerla in tutti i modi. Siamo qui a Venezia perché sappiamo che un giorno la Padania sarà uno Stato libero, indipendente e sovrano. Abbiamo la necessità che i nostri diritti vengano rispettati”. [dai quotidiani di oggi]

Povero Dante.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’ anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’ esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!

Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’ è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.
[La divina commedia, Purgatorio, Canto VI]

Dave Matthews Band – 5 luglio 2009

Recensisco tardivamente qualche concerto estivo.

DMB è una band di culto, come i Grateful Dead, tanto per capirsi. In comune con loro ha anche il fatto di essere fortemente basata sull’improvvisazione (una jam band) e di avere l’abitudine di fare concerti lunghissimi, spesso in serie di 2-3 giorni (molte delle loro esibizioni dal vivo sono documentate su CD). Ma le similitudini, direi finiscono qui. Per chi vuole saperne di più suggerisco le voci di Wikipedia (su Dave Matthews, sulla band e sulla discografia). La DMB ha anche un sito ufficiale.

Io non sono un fan puro e duro, ma la loro musica mi piace molto e ho una vera adorazione per quella che considero la canzone-capolavoro di Dave Matthews, Two Step.

Non erano mai venuti in Italia, non so bene perché. A un certo punto è circolata una petizione sul web e il concerto del 5 luglio a Lucca è il risultato, mi piace pensare, della petizione: un concerto 2.0!

Il biglietto del concerto costava 36 € (e non me ne lamento: ritengo giusto retribuire gli artisti per le loro performance dal vivo, un po’ meno giusto retribuire le case discografiche perché mettono la musica su un supporto fisico) + 4 € di prevendita (ma perché in aereo e in treno prima prenoti e meno paghi, e per gli spettacoli dal vivo succede il contrario?) + 4,80 € di “servizi” forniti da TicketOne incluso il 20% di IVA (ma perché in aereo e in treno se fai biglietto e check-in online paghi di meno, e per gli spettacoli dal vivo succede il contrario?). Insomma, alla fine quasi 45 € per un concerto in una piazza di Lucca. Senza posti numerati: che non vuol dire, come potreste immaginare e come succede in altre occasioni, che c’erano delle sedie e che chi arrivava si sedeva dove capitava, ma che i posti erano rigorosamente in piedi (all’ultimo momento avevano messo in vendita dei posti numerati: erano direi a occhio 40 seggiolette blu su una pedana transennata, nemmeno tutti pieni e guardati a vista da una muta di energumeni, che spero siano costati agli organizzatori più del ricavato dei biglietti speciali, che costavano il doppio dei nostri).

Serata calda, spalti gremiti, avrebbe detto Sandro Ciotti. Lunga attesa, come di consueto, tra l’apertura dei cancelli e l’inizio del concerto. Che viene preceduto dall’esibizione di una mezzoretta di tal Iuri (o Juri o Jury), vincitore di XFactor: il quale ha almeno l’umiltà di dire che con DMB non c’entra niente e che si colloca a un livello musicale certamente molto più basso. Il che non gli evita incitamenti tipo “Mo’ vedi d’andattene!”

La DMB esce verso le 9:15 e suona quasi 3 ore senza tregua (174 per l’esattezza: il tutto è documentato qui e qui, tracklist inclusa).

Tra le tante belle cose di DMB, dopo Two Step forse la mia preferita è Ants Marching. Qui nel famoso concerto al Central Park.

He wakes up in the morning.
Does his teeth, bite to eat and he’s rolling
Never changes a thing.
The week ends, the week begins.

She thinks, we look at each other
Wondering what the other is thinking,
But we never say a thing.
And these crimes between us grow deeper.

Take these chances
Place them in a box until a quieter time.
Lights down, you up and die.

Goes to visit his mommy
She feeds him well, his concerns
He forgets them.
And remembers being small
Playing under the table and dreaming…

Take these chances
Place them in a box until a quieter time
Lights down, you up and die.

Driving along this highway
All these cars and up on the sidewalk
People in every direction
No words exchanged,
No time to exchange when
All the little ants are marching.
Red and black antennae waving.
They all do it the same
They all do it the same way,
Candyman tempting the thoughts of a
Sweet tooth tortured by weight loss programs
cutting the corners, there’s a
Loose end, loose end, cut cut
On the fence, try not to offend.
Cut cut, cut cut.

Take these chances
Place them in a box until a quieter time.
Lights down, you up and die.

Lights down, you up and die.

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Matter – Iain M. Banks

Banks, Iain M. (2008). Matter. London: Orbit. 2009.

Succede abbastanza spesso, nella mia esperienza: scopri un autore, è amore a prima vista. Leggi un secondo libro, delusione. Mi è successo anche per Banks: The Algebraist mi aveva entusiasmato, questo non mi è dispiaciuto ma l’ho trovato meno bello, meno nuovo, meno ricco. Certo, qualche attenuante c’è: Matter è parte di un ciclo di romanzi, The Culture, che si svolge in un universo futuro in cui convivono civilizzazioni molto più avanzate della nostra provinciale Terra quanto a etica e tecnologia e tutti gli altri possibili tipi e gradi di civiltà umane e aliene. Non è in genere raccomandabile cominciare un ciclo (anche se questo non è propriamente un ciclo) dalla sua ultima puntata (o incarnazione o manifestazione). Ma tant’è, ho trasgredito una regola e, dirà qualcuno, adesso non ho il diritto di lamentarmi.

Naturalmente, la convivenza di civiltà galattiche avanzate e di culture planetarie arretrate è in sé un meccanismo narrativo che offre possibilità combinatorie pressoché infinite e quel vecchio marpione di Banks lo sa, e gioca bene le sue carte e i suoi registri spaziando dalla space opera al conte philosophique con un’onnipresente e gradevole ironia.

È particolarmente interessante che Banks continui – assumendo questa volta un punto di vista quasi diametralmente opposto – la sua riflessione sull’ipotesi di Bostrom (Are You Living in a Computer Simulation?) che la realtà sia una simulazione.

“You know there is a theory,” Hyrlis said quietly, walking amongst the gently glowing coffin-beds, Ferbin and Holse at his rear, the four dark-dressed guards somewhere nearby, unseen, “that all that we experience as reality is just a simulation, a kind of hallucination that has been imposed upon us.”

Ferbin said nothing.

Holse assumed that Hyrlis was addressing them rather than his demons or whatever they were, so said, “We have a sect back home with a roughly similar point of view, sir.”

“It’s a not uncommon position,” Hyrlis said. He nodded at the unconscious bodies all around them. “These sleep, and have dreams inflicted upon them, for various reasons. They will believe, while they dream, that the dream is reality. We know it is not, but how can we know that our own reality is the last, the final one? How do we know there is not a still greater reality external to our own into which we might awake?”

“Still,” Holse said. “What’s a chap to do, eh, sir? Life needs living, no matter what our station in it.”

“It does. But thinking of these things affects how we live that life. There are those who hold that, statistically, we must live in a simulation; the chances are too extreme for this not to be true.

“There are always people who can convince themselves of near enough anything, seems to me, sir,” Holse said.

“I believe them to be wrong in any case,” Hyrlis said.

“You have been thinking on this, I take it then?” asked Ferbin. He meant to sound arch.

“I have, prince,” Hyrlis said, continuing to lead them through the host of sleeping injured. “And I base my argument on morality.”

“Do you now?” Ferbin said. He did not need to affect disdain.

Hyrlis nodded. “If we assume that all we have been told is as real as what we ourselves experience – in other words, that history, with all its torturings, massacres and genocides, is true – then, if it is all somehow under the control of somebody or some thing, must not those running that simulation be monsters? How utterly devoid of decency, pity and compassion would they have to be to allow this to happen, and keep on happening under their explicit control? Because so much of history is precisely this, gentlemen.”

They had approached the edge of the huge space, where slanted, down-looking windows allowed a view of the pocked landscape beneath. Hyrlis swept his arm to indicate both the bodies in their coffin-beds and the patchily glowing land below.

“War, famine, disease, genocide. Death, in a million different forms, often painful and protracted for the poor individual wretches involved. What god would so arrange the universe to predispose its creations to experience such suffering, or be the cause of it in others? What master of simulations or arbitrator of a game would set up the initial conditions to the same piti­less effect? God or programmer, the charge would be the same: that of near-infinitely sadistic cruelty; deliberate, premeditated barbarism on an unspeakably horrific scale. ”

Hyrlis looked expectantly at them. “You see?” he said. “By this reasoning we must, after all, be at the most base level of reality – or at the most exalted, however one wishes to look at it. Just as reality can blithely exhibit the most absurd coinci­dences that no credible fiction could convince us of, so only reality – produced, ultimately, by matter in the raw – can be so unthinkingly cruel. Nothing able to think, nothing able to comprehend culpability, justice or morality could encompass such purposefully invoked savagery without representing the absolute definition of evil. It is that unthinkingness that saves us. And condemns us, too, of course; we are as a result our own moral agents, and there is no escape from that responsibility, no appeal to a higher power that might be said to have artifi­cially constrained or directed us.”

Hyrlis rapped on the clear material separating them from the view of the dark battlefield. “We are information, gentlemen; all living things are. However, we are lucky enough to be encoded in matter itself, not running in some abstracted system as patterns of particles or standing waves of probability.”

Holse had been thinking about this. “Of course, sir, your god could just be a bastard,” he suggested. “Or these simulationeers, if it’s them responsible.”

“That is possible,” Hyrlis said, a smile fading. “Those above and beyond us might indeed be evil personified. But it is a stand­point of some despair.” [pp. 338-340]

***

The morning after he’d taken them to the great airship full of the wounded, Hyrlis summoned them to a hemispherical chamber perhaps twenty metres in diameter where an enormous map of what looked like nearly half of the planet was displayed, showing what appeared to be a single vast continent punctu­ated by a dozen or so small seas fed by short rivers running from jagged mountain ranges. The map bulged towards the unseen ceiling like a vast balloon lit from inside by hundreds of colours and tens of thousands of tiny glittering symbols, some gathered together in groups large and small, others strung out in speckled lines and yet more scattered individually.

Hyrlis looked down on this vast display from a wide balcony halfway up the wall, talking quietly with a dozen or so uniformed human figures who responded in even more hushed tones. As they murmured away, the map itself changed, rotating and tipping to bring different parts of the landscape to the fore and moving various collections of the glittering symbols about, often developing quite different patterns and then halting while Hyrlis and the other men huddled and conferred, before returning to its earlier configuration.

[…]

The display halted, then flickered, showing various end-patterns in succession. Hyrlis shook his head and waved one arm. The great round map flicked back to its starting state again and there was much sighing and stretching amongst the uniformed advisers or generals clustered around him.

Holse nodded at the map. “All this, sir. Is it a game?”

Hyrlis smiled, still looking at the great glowing bubble of the display. “Yes,” he said. “It’s all a game.”

“Does it start from what you might call reality, though?” Holse asked, stepping close to the balcony’s edge, obviously fascinated, his face lit by the great glowing hemisphere. Ferbin said nothing. He had given up trying to get his servant to be more discreet.

“From what we call reality, as far as we know it, yes,” Hyrlis said. He turned to look at Holse. “Then we use it to try out possible dispositions, promising strategies and various tactics, looking for those that offer the best results, assuming the enemy acts and reacts as we predict.”

“And will they be doing the same thing as regards you?”

“Undoubtably.”

“Might you not simply play the game against each other then, sir?” Holse suggested cheerily. “Dispensing with all the actual slaughtering and maiming and destruction and desolating and such like? Like in the old days, when two great armies met and, counting themselves about equal, called up champions, one from each, their individual combat counting by earlier agreement as determining the whole result, so sending many a frightened soldier safely back to his farm and loved ones.”

Hyrlis laughed. The sound was obviously as startling and unusual to the generals and advisers on the balcony as it was to Ferbin and Holse. “I’d play if they would!” Hyrlis said. “And accept the verdict gladly regardless.” He smiled at Ferbin, then to Holse said, “But no matter whether we are all in a still greater game, this one here before us is at a cruder grain than that which it models. Entire battles, and sometimes therefore wars, can hinge on a jammed gun, a failed battery, a single shell being dud or an individual soldier suddenly turning and running, or throwing himself on a grenade.”

Hyrlis shook his head. “That cannot be fully modelled, not reliably, not consistently. That you need to play out in reality, or the most detailed simulation you have available, which is effectively the same thing.”

Holse smiled sadly. “Matter, eh, sir?”

“Matter.” Hyrlis nodded. “And anyway, where would be the fun in just playing a game? Our hosts could do that themselves. No. They need us to play out the greater result. Nothing élse will do. We ought to feel privileged to be so valuable, so irre­placeable. We may all be mere particles, but we are each fundamental!” [pp. 346-348]

***

A strange thing had happened to Choubris Holse. He had become interested in what was, if he understood such matters rightly, not a million strides away from being philos­ophy. Given Ferbin’s unrestrainedly expressed views on that subject, this felt tantamount to treason.

It had started with the games that they had both been playing on the Nariscene ship Hence the Fortress to pass the time […].

There were even more realistically fashioned diversions available, games in which you really did seem to be awake and moving physically around, talking and walking and fighting and everything else (though not peeing or shitting – Holse had felt he had to ask), but those sounded daunting and overly alien to both men, as well as unpleasantly close to some of the disturbing stuff Xide Hyrlis had been bending their ears about back on the disputed, burned husk that was Bulthmaas.

The ship had advised them on which games they would find most rewarding and they’d ended up playing those whose pretended worlds were not all that different from the real one they’d left behind on Sursamen; war games of strategy and tactics, connivance and daring.

[…]

Which was how he came to be interested in the idea that all reality might indeed be a game, most specifically as this concept related to the Infinite Worlds theory, which held that all possible things had already happened, or were happening now, all together.

This alleged that life was very like a game or simulation where every possible course and outcome has already been played out, noted down and drawn up, as though on an enormous map, with the beginning of the game – before a piece has been moved or a move has been made – in the centre, and every single possible end state arranged along the outer fringe of this implau­sibly stupendous chart. By this comparison, all that one does in mapping out the course of one particular game is trace a path from that central Beginning of things out through more and more branches, chances and possibilities, to one of the near infinitude of Ends at the periphery.

And there you were; the further likeness being drawn here, unless Holse had it completely arse-before-cock, was that which held; As Game, So Life. And indeed, As Game, So Entire History Of Whole Universe, Bar Nothing And Nobody.

Everything had already happened, and in every single possible way, too. Not only had everything that had already happened happened, everything that was going to happen had already happened. And not only that: everything that was going to happen had already happened in every single possible way that it possibly could.

So if, say, he played a game of cards with Ferbin, for money, then there was a course, a line, a way through this already written, previously happened universe of possibilities which led to the outcome that involved him losing everything to Ferbin, or Ferbin losing everything to him, including Ferbin suffering a fit of madness and betting and losing his entire fortune and inheritance to his servant – ha! There were universe-lines where he’d kill Ferbin over the disputed card game, and others wherein Ferbin would kill him; indeed there were tracks that led to everything that could be imagined, and everything that would never be imagined by anybody but was still somehow possible.

It seemed at first glance like utter madness, yet it also, when one thought about it, appeared somehow no less implausible than any other explanation of how things truly were, and it had a sort of completeness about it that stifled argument. Assuming that every branching fork on the universe map was taken randomly, all would still somehow be well; the likely things would always outnumber the unlikely and vastly outnumber the ludicrous, so as a rule things would happen much as one expected, with the occasional surprise and the very rare moment of utter incredulity.

Pretty much as life generally was, in other words, in his expe­rience. This was at once oddly satisfactory, mildly disappointing and strangely reassuring to Holse; fate was as fate was, and that was it.

He immediately wondered how you could cheat. [pp. 385-387]

OK, scusate le lunghe citazioni, ma mi sembra di avervi dato così un’idea del sottofondo filosofico del libro (altro che Matrix!), della maestria e dell’ironia di Banks (Choubris Holse è il personaggio più simpatico del libro, un geniale Sancho Panza interstellare) e, per soprammercato, del perché il romanzo sia intitolato Matter.

Chiudo, giusto per divertimento, con due fulminanti dialoghi.

“That is absurd,” he said.
“Nevertheless,” Hyrlis said casually […] [p. 345]

“You blush? Do you blush? Can you? […]”
“[…] Of course I blush not. I translate. I speak to you and in your idiom […]. All is translation. How could it be otherwise?” [p. 514]

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Cicisbèo

Come di consueto, dal De Mauro online:

Nel secolo XVIII, accompagnatore ufficiale di una dama, autorizzato dal marito
Per estensione, uomo eccessivamente lezioso e galante
Fiocco ornamentale apposto a spade o a ventagli (significato caduto in disuso)

L’etimologia è incerta e controversa. La più accreditata fa derivare il termine dal francese chiche (“cece”) e beau (“bello”). Secondo altri deriverebbe, onomatopeicamente, da cicici, “chiacchiericcio”. Ma a me questa derivazione sembra poco credibile, mentre a sostegno dell’altra c’è l’uso regionale toscano per cui cece significa anche bellimbusto e damerino.

Luigi Ponelato, Il cicisbeo, 1790

Luigi Ponelato, Il cicisbeo, 1790

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