I quattro fiumi

Vargas, Fred e Baudoin (2000). I quattro fiumi (Les Quatre fleuves). Torino: Einaudi. 2010.

einaudi.it

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Continua, presso Einaudi, la pubblicazione retrospettiva di opere di Fred Vargas che non erano state tradotte in italiano all’epoca della loro uscita (ho fatto una parziale ricostruzione qui e su questo blog trovate le recensioni di quelle che ho letto).

Questo è un romanzo a fumetti o, meglio, un graphic novel. Coautore è Edmond Baudoin (i due continuano a collaborare e in Francia è uscito di recente Le marchand d’éponges).

Il romanzo non è male, anche se trovo che un graphic novel è meno denso di un romanzo tradizionale, come – se nonostante l’abilità degli autori – le immagini contengano meno informazioni della parola scritta.

Il mio problema però è un altro, e non penso di essere il solo ad averlo. Leggere, leggere un romanzo o un’altra opera narrativa, è anche (o forse soprattutto) un’operazione creativa, la costruzione di un mondo virtuale (sì, esistevano anche prima di Second Life), popolato dei personaggi creati (o meglio suggeriti) dalla fantasia dell’autore, dal flusso di coscienza dell’autore stesso (anche quello pre-esisteva al momento in cui James Joyce l’ha posto in primo piano) e dalla coscienza (consciousness, evidentemente, non conscience) del lettore. In questo processo – che, lo ripeto e lo rivendico, è un processo creativo del lettore oltre che dello scrittore – un aspetto essenziale è quello dell’immaginarsi il volto, il carattere e la personalità dei personaggi che popolano il romanzo. Un processo che, se ci riflettete, è tutt’altro che semplice: sia perché né noi né lo scrittore attribuiamo a tutti i personaggi del romanzo lo stesso spessore (e questo coincide in gran parte, ma non esattamente, alla loro importanza nella narrazione), sia perché la vaghezza della rappresentazione mi sembra essenziale al fascino del mondo virtuale che andiamo costruendo (la metafora che mi viene in mente è quella della visione, in cui la sensazione di vivere all’interno di un mondo visivo completo e coerente è un’illusione costruita a partire da fugaci frammenti messi a fuoco – cosa che soltanto la nostra fovea riesce a fare con una buona definizione – più un contorno di immagini sfocate, più un “ripieno” fornito dalla nostra memoria e dagli archetipi che vi teniamo immagazzinati).

Insomma, tutto questo discorso complicato per dire che l’aver “visto” il volto di Adamsberg (e di Danglard) mi ha veramente turbato, e anche infastidito. E questo benché io ami follemente i fumetti e i graphic novel. E benché, in fin dei conti, lo stesso si possa dire delle trasposizioni cinematografiche (che, però, in fondo sono appunto trasposizioni).

Forse tutto quello che ho detto non è né giusto né ragionevole. Resta però il fatto che quell’Adamsberg e quel Danglard non sono quelli che mi ero immaginato e costruito io (anche se non saprei dire bene in che se ne differenziano). Certamente Adamsberg, secondo me, non è così prognato; e Danglard è un po’ meno sfatto. E lo dico a ragion veduta, perché in fondo sono diventati, leggendo i romanzi di Fred Vargas, anche personaggi miei…

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Lavinia

Le Guin, Ursula K. (2008). Lavinia. Boston: Mariner Books. 2009.

expressmilwaukee.com

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Ursula Le Guin è una grande scrittrice, che sta stretta nei confini della fantascienza e della fantasy. Ha scritto molti libri memorabili, tra cui The Left Hand of Darkness (La mano sinistra delle tenebre) e The Dispossessed (I reietti dell’altro pianeta).

Questo romanzo, basato su 4 reticenti righe dell’Eneide, è così poco memorabile che m’ero persino dimenticato di averlo letto qualche mese fa e mi sarei dimenticato anche di recensirlo, se non fosse sbucato fuori oggi mettendo a posto i libri.

The Gone-Away World

Harkaway, Nick (2008). The Gone-Away World. New York: Alfred A. Knopf. 2008.

 

 

Nick Harkaway è figlio d’arte (è il figlio di John Le Carré, entrambi si chiamano in realtà Cornwell ed entrambi adottano uno pseudonimo) e questo è il suo romanzo d’esordio: lo dico subito perché il suo debutto è stato circondato, soprattutto nel Regno Unito dove il libro è stato pubblicato originariamente, da un sacco di polemiche, perché i diritti sono stati comprati in un’asta al rialzo tra 7 grandi editori e l’invidia in questi casi scatta subito. Le cose più gentili che gli hanno detto è che Nick Harkaway è un pallone gonfiato, un enfant gaté e che ha adottato uno pseudonimo per non stare nello stesso scaffale di Patricia Cornwell.

Sciocchezze. Conta una cosa sola: il libro com’è? La mia risposta è: originale e bello.

Un riassunto non gli rende giustizia, perché gli elementi di cui si compone in sé non sembrano originali per niente: un mondo post-apocalittico, una compagnia di ventura, la vita militare, un Bildungsroman americano (“piccola città bastardo posto”, college e tutto), il primo amore che non si scorda mai, le arti marziali e il saggio cinese, un pizzico d’horror, e soprattutto un’amicizia maschile molto speciale (e non nel senso che pensate voi). E quindi non lo farò, il riassunto. Vi invito soltanto a leggere il romanzo, se avrete il coraggio di affrontare le sue 498 pagine (in italiano è pubblicato da Mondadori con il titolo Il mondo dopo la fine del mondo e le pagine salgono a 558). Il primo capitolo è spiazzante, perché getta nel mezzo della vicenda e si capisce ben poco, ma nel secondo si fa un bel passo indietro e la storia poi si dipana in ordine cronologico.

A questo punto, scartata l’ipotesi delle recensione tradizionale, soltanto qualche citazione (Harkaway ha studiato filosofia, sociologia e scienze politiche a Cambridge, da bravo ragazzo di buona famiglia):

[…] government […] is not so much a journey as a series of emergency stops and arguments over which way up to hold the map. [p. 33]

The truth is not hidden. It is simple. Just very difficult – but I am stubborn! [p. 50]

The problem isn’t who is in charge. It’s what is in charge. The problem is that people are encouraged to function as machines. Or, actually, as mechanisms. Human emotion and sympathy are unprofessional. They are inappropriate to the exercise of reason. Everything which makes people good – makes them human – is ruled out. [91]

“Such a mechanism cannot function without accurate information. Quite obviously, with every degree of imperfection in the input, the output will be wrong by that degree multiplied by whatever other relevant false information is already there, and by whatever drift is inherent in the system’s construction (it being impossible according to the laws of thermodynamics to build any engine which does not dissipate energy in the process of performing its task). Since this machine is informational, of course, that loss of accuracy will not produce heat, but rather nonsense. Yes?”
“Garbage in, garbage out. Or rather more felicitously: the tree of nonsense is watered with error, and from its branches swing the pumpkins of disaster.” [126]

ATTENZIONE: SPOILER!
The Go Away Bomb is a thing of awful power, a vacuum cleaner of information, sucking the organizing principle, the information, out of matter and energy. Professor Derek assumed the either of these latter two stripped of the first simply ceased to exist.   It seems that he was wrong. Matter stripped of information becomes Stuff, known to me recently as Disney Dust or shadow. It hangs around, desperate for new information. It becoms hungry. [pp. 254-255]

[…] it is impossible for me to hate two people I love for loving one another (quite untrue) [p. 327]

[…] I’ve never wanted a destiny. I was happy with having a life. [p. 369]

She lies well. She lies with omission and elision and prevarication and misdirection. [p. 394]

[…] the mathematics of love. Love is merciless. Love does not count costs, only value. [p. 397]

The rest of the plan is quite good, and if it works the way it is supposed to, we will do very well, and we won’t need the lousy part. On the other hand, it almost certainly won’t work like that, because plans don’t. It will twist, creep, change, swivel and mutate, until finally we’re flying on sheer bravado and chutzpah, and hoping the other guy thinks it’s all accounted for. You don’t make strategy so that there’s one path to victory; you make it so that as many paths as possible lead to something which isn’t loss. [pp. 476-477]

E con questa vera perla di saggezza, chiudiamo.

Storia della mia gente

Nesi, Edoardo (2010). Storia della mia gente. La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia. Milano: Bompiani. 2010.

 

bompiani.rcslibri.corriere.it

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Di Edoardo Nesi abbiamo già parlato qui, recensendo il suo bellissimo romanzo L’età dell’oro e parlando del personaggio a tutto tondo di Ivo il Barrocciai.

Qui la storia del declino, vorrei dire della morte, di Prato e del suo sogno non è raccontato come romanzo, ma come cronaca e autobiografia collettiva. Quindi è molto più amara, e manca del riscatto dell’arte (lo so, non è un concetto molto chiaro e forse è un po’ retrivo, come le categorie crociane di poesia e impoesia, ma forse riuscite a capire lo stesso). Insomma, Ivo era sì il paradigma del piccolo imprenditore pratese e viveva una sua irresistibile ascesa, seguita da decline and fall. Ma era la potenza del personaggio, a tutto tondo, a rendere la storia avvincente e indimenticabile. Era anche, naturalmente, l’epopea della città, che ne era lo sfondo e il deuteragonista.

Qui la vicenda di Prato è la vita e la pelle di Nesi stesso, la storia della famiglia. Forse affiora troppo, anche se è comprensibile, il dolore e il rancore verso chi non ha capito o non è voluto intervenire. Prato non si poteva salvare dall’interno, ma si sarebbe potuto farlo dall’esterno? O è stata tagliata fuori ineluttabilmente dall’esplosione dell’economia cinese, come Bruges dall’avanzare della linea di costa?

Penso si capisca bene che le parti del libro che ho apprezzato meno sono quelle in cui Nesi lascia spazio ai temi dell’invettiva e della recriminazione. Ma poiché è un grande scrittore, molte pagine sono veramente belle e vere:

La cosa singolare e letteraria è che, per fare pari, Ines [la tessitura dei Nesi] non pagava né l’affitto ai proprietari del capannone, che eravamo noi, né lo stipendio agli amministratori, che eravamo sempre noi. L’incasso delle fatture del nostro unico cliente serviva a pagare la corrente elettrica, le spese legate alla produzione, la manutenzione delle macchine, i pochi ammortamenti, il ragioniere che teneva la contabilità, il commercialista e gli operai. E, naturalmente, l’IRAP dell’onorevole Visco – sempre sia lodato.
L’involontaria realizzazione dei principi dello statalismo comunista sovietico attraverso Ines non fu decisa a tavolino dal consiglio d’amministrazione, peraltro composto di vecchi liberali, ma diventò necessaria con l’aumentare pressoché giornaliero dei costi di struttura e il parallelo contrarsi dei ricavi, finché non restò l’unico tacito modo per non chiudere la tessitura – cosa che non volevamo fare, cascasse il mondo. Fu così che nacque l’ultima e la più curiosa delle innumerevoli incarnazioni dell’imprenditore: l’Imprenditore no-profit. [p. 95]

Non riesco a sfuggire all’impressione che questa dell’imprenditore no-profit è più di una trovata letteraria, è un’intuizione capace di spiegare molto del sistema produttivo italiano, fatto di imprese di sussistenza per le famiglie dell’imprenditore e delle sue maestranze, un grande ammortizzatore sociale, come lo stesso Nesi ipotizza tra il serio e il faceto (una modesta proposta à la Swift) nella pagina successiuva.

Non mancano anche le riflessioni sulla poetica, anzitutto su quella dello stesso Nesi. Trovo questa pagina bellissima:

Per sempre [il titolo del suo romanzo più recente] sta a significare che a quarantaquattro anni mi sono reso finalmente conto che il costo della vita sono i ricordi; che ogni legame con la mia giovinezza è ormai affidato solo alla memoria, mostro implacabile e impossibile da zittire; che esistono cose e persone e avvenimenti e amori e dolori e felicità laceranti che non riuscirò mai più a dimenticare e che saranno con me, appunto, per sempre; che la lavagna della mia vita, insomma, non si può cancellare, e ogni cosa che mi venisse in mente di scriverci sopra dovrà trovare posto nei pochi spazi ancora vuoti. [p. 83]

Sono stato a lungo tormentato dal significato delle parole sempre e mai, tra le più terribili della vita e dell’esperienza umana, parole che inducono tanto spavento da generare mostri privati e allucinazioni collettive, speranze e religioni. Mi sembra che Nesi, in un libro che parla di tutt’altro, abbia trovato una delle risposte.

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Scusa l’anticipo, ma ho trovato tutti verdi

Bucciante, Alfredo (AlFb) (2010). Scusa l’anticipo, ma ho trovato tutti verdi. E altri 499 luoghi comuni al contrario. Torino: Einaudi. 2010.

 

einaudi.it

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Quasi impossibile recensire il libro, così esile che con poche citazioni svuoti il piacere della scoperta a chi lo volesse leggere (cosa che, in verità, non raccomando).

È la derivazione di un blog, luoghicomunialcontrario. Soltanto i luoghi comuni al contrario, e non tutti, strappano un sorriso e, più raramente, stimolano una riflessione. Tutto il resto – l’introduzione ai singoli capitoli – è un riempitivo per provare a sfiorare le 100 pagine.

Qualche sovrapposizione con il mio hobby dei proverbi pessimisti.

Esùvia (o exuvia)

1. In zoologia, strato superficiale del tegumento che in alcuni animali (rettili, crostacei, insetti) si stacca periodicamente sotto forma di membrana continua (comunemente detta buccia o spoglia).

2. Al plurale, con latinismo dell’uso letterario (anche nella variante exuvie), le spoglie tolte al nemico.

Wikimedia Commons

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A me, naturalmente, delle spoglie del nemico interessa ben poco. M’interessa, e molto, incontrare una parola nuova (chissà poi se è veramente nuova, per me, o se semplicemente è la mia memoria che comincia a vacillare).

Più di tutto mi interessano le esuvie del comune granchio verde Carcinus moenas: al momento della muta, quando la sua corazza viene abbandonata e diventa perciò un’esuvia, solerti pescatori della laguna veneta lo catturano e, friggendolo in pastella, lo trasformano nella prelibata moeca.

bomas.it

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Caino

Saramago, José (2009). Caino (Caim). Milano: Feltrinelli. 2010.

lafeltrinelli

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Premessa d’obbligo. Difendo questo libro dall’attacco post mortem del Vaticano, primo perché ognuno ha il diritto di professare le proprie opinioni, e secondo perché è comunque un’opera d’arte.

Fatta la premessa, a me non è piaciuto, perché Saramago ci ha abituati a ben altro. Anni luce lontani dall’intensità e dall’ispirazione di Il Vangelo secondo Gesù Cristo, che una ventina d’anni fa mi folgorò e mi fece scoprire il suo autore.

Qualche citazione merita comunque di essere riportata:

[…] Padre, che male ti ho fatto perché tu abbia voluto uccidermi, proprio io che sono il tuo unico figlio, Male non me ne hai fatto, isacco, Allora perché volevi tagliarmi la gola come se fossi un agnello, domandò il ragazzo, se non fosse apparso quell’uomo a trattenere il tuo braccio, che il signore lo copra di benedizioni, ora staresti riportando a casa un cadavere, L’idea è stata del signore, voleva fare la prova, La prova di che, Della mia fede, della mia obbedienza, E che razza di signore è questo che ordina a un padre di uccidere il proprio figlio, È il signore che abbiamo, il signore dei nostri antenati, il signore che c’era già quando siamo nati, E se quel signore avesse un figlio, farebbe uccidere anche lui, domandò isacco, Lo dirà il futuro, Allora il signore è capace di tutto, del bene, del male e del peggio [69]

Ma l’unica cosa veramente memorabile, secondo me, è questa:

[…] la carne è supinamente debole, e non tanto per colpa sua, giacché lo spirito, il cui dovere, teoricamente, sarebbe di alzare una barriera contro tutte le tentazioni, è sempre il primo a cedere, a issare la bandiera bianca della resa. [47]