Harris, Robert (2019). The Second Sleep. London: Hutchinson. 2019. ISBN: 9781473558786. Pagine 327. 14,99€.
[Il sonno del mattino. Trad. it. Annamaria Raffo. Milano: Mondadori. 2019. ISBN: 9788804718376. Pagine 300. 10,99€]

“Desinit in piscem, mulier formosa superne” (“Donna procace nella parte superiore, ma finisce come un pesce”), commentò Orazio la statua di una sirena. Divenne proverbiale, per dire che comincia bene e finisce male.
È così anche per questo romanzo.
Robert Harris mi è sembrato più incerto e meno incisivo che in precedenti prove (su questo blog ho recensito due dei suoi romanzi, The Ghost qui e The Fear Index qui).
Eppure l’idea da cui muove è molto buona e l’inizio folgorante.
[ATTENZIONE, piccolo spoiler]
In un’Inghilterra medioevale (l’anno è il 1468) un giovane monaco – che ricorda l’Adso da Melk de Il nome della rosa – è in viaggio a cavallo verso un villaggio sperduto per il funerale del parroco, morto in un incidente sospetto, che lo ha lasciato sfigurato. C’è un tempo da lupi e l’atmosfera è minacciosa, a metà tra il romanzo gotico e la goliardica “Con ‘sta pioggia e con ‘sto vento, chi è che bussa al mio convento?”. Il parroco aveva la passione dell’archeologia e il giovane monaco, frugando nella sua collezione di reperti, trova un iPhone.
Colpo di scena. La storia non è ambientata nel nostro passato, ma nel futuro. La nostra civiltà è crollata nel 2025 e – dopo un periodo oscuro – la Chiesa ha preso il potere e vieta come eretica ogni indagine sul passato e ogni tentativo di riportare in auge scienza e tecnologia.
Il libro è scritto bene, con un linguaggio che ricorda quello degli scrittori britannici tra XVIII e XIX secolo, cui evidentemente Harris si ispira. Ma le vicende sono piuttosto scontate, come è scontata la “conversione alla rovescia” del giovane monaco, che scopre in pochi giorni i piaceri dell’eresia e quelli della carne. Ma la storia stenta ad andare avanti e dopo la prima sorpresa ce ne sono ben poche altre (che in un thriller alcuni personaggi non siano quello che sembravano prima facie è il minimo sindacale, direi). La fine è insoddisfacente, come si diceva all’inizio, perché non disvela nulla di più di quanto non sapessimo fin dalle premesse.
Soprattutto, a me non è piaciuto il tono catastrofista dell’assunto, che mi ha ricordato un certo Michael Crichton (quello di Prey, per esempio). Va bene, viviamo in una civiltà vulnerabile: non tesaurizziamo vettovaglie per passare l’inverno, come si faceva cent’anni fa. Dipendiamo dall’energia elettrica per la mobilità, l’informazione, il nostro comfort. Se ci colpisse un asteroide, o eruttasse un super-vulcano, o scoppiasse la guerra atomica, o una pandemia resistente agli antibiotici, o se un virus informatico mettesse fuori uso computer e reti, la nostra civiltà finirebbe… E il cambiamento climatico, naturalmente, anche se questo forse manifesterebbe i suoi effetti in un tempo più lungo.

The end is near, ci ammonisce Harris, mancano solo 5 anni. E ci è andata fin troppo bene: meglio che ai dinosauri, che per l’impatto di un asteroide si sono estinti.
Io però resto ottimista, penso non senza ragione. La nostra civiltà – come tutti i sistemi così complessi – è vulnerabile ma anche resiliente: ve lo ricordate il millennium bug alla fine del secolo scorso? E l’influenza aviaria?
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Tre citazioni che si possono salvare:
He wished he could unsee what he had read, but knowledge alters everything, and he knew that was impossible. (p. 97)
History was a patchwork of voids. (p. 120)
[…] that frustrating mental state in which one is too exhausted to think productively and yet too alert to sleep […] (p. 187)
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