Neil Gaiman – Norse Mythology

Gaiman, Neil (2017). Norse Mythology. London: Bloomsbury. 2017. ISBN: 9781408887028. Pagine 256. 5,62€

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Neil Gaiman è Neil Gaiman (in un’altra recensione ho scritto: ” Neil Gaiman è un autore di culto: o lo si ama, o lo si adora incondizionatamente”). Lo leggo sempre con grande piacere, e non sono certo il solo, Pochi sanno raccontare come lui. Libri come American Gods e Neverwhere (che non ho ancora recensito) offrono molte ore di divertimento e di piacere, e fanno anche pensare. Ecco perché sono rimasto un po’ deluso da questo racconto dei Miti del Nord (questo è il titolo della traduzione italiana di Stefania Bertola). Ho avuto l’impressione che a Gaiman mancasse un po’ l’ispirazione: forse il fatto di dovere restare fedele ai testi della tradizione gli ha tarpato le ali della fantasia, forse ha dovuto scrivere qualche cosa in un periodo di scarsa ispirazione per fare fronte a un impegno contrattuale con l’editore. Non so: sono solo illazioni, ma la magia del racconto sembra non decollare mai.

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Rachel Joyce – The Music Shop

Joyce, Rachel (2017). The Music Shop. London: Transworld. 2017. ISBN: 9781448170029. Pagine 321. 11,99€

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Ho letto questo libro sull’onda della lettura di The Unlikely Pilgrimage Of Harold Fry (che non ho ancora recensito), della stessa autrice, e perché ho anch’io – come il protagonista maschile di questo romanzo – un rapporto molto intimo anche se non professionale con la musica, senza alcun limite di genere. Per la verità l’ho comprato alla fine del 2017 e letto soltanto ora, forse perché temevo che non mi sarebbe piaciuto.

E mi è piaciuto? Sì e no. Mi sembra di capire che la caratteristica del romanzo, che forse potrebbe essere anche una caratteristica dell’autrice, è quella della pluralità e della mescolanza dei registri stilistici: la storia è una storia di dolore e di amore, di difficoltà di lasciare cadere le proprie barriere per incontrasi. Ma al tempo stesso è una storia buffa, come sanno essere buffe certe storie inglesi, buffe di un umorismo bonario e un po’ paesano, alla P. G. Wodehouse o alla Jerome K. Jerome. È un pregio o un difetto? un punto di forza o di debolezza? Non sono sicuro di saperlo, ma sicuramente rende originale un romanzo che, altrimenti, rischierebbe di scivolare verso la storia d’amore un po’ melensa.

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Non ne posso più dei partitini

Una delle frasi di Marx citate più spesso e più a sproposito è l’affermazione che nella storia tutto accade due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa.

Una boutade, naturalmente, e nemmeno una delle migliori, perché Marx sapeva fare della satira esilarante, come sa chi ha letto qualcuna delle sue opere polemiche, come La sacra famiglia o L’ideologia tedesca. La frase compare proprio all’inizio de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (che nel suo complesso non è una delle sue opere più illuminate o illuminanti) e il bersaglio è Napoleone III (la farsa) confrontato con Napoleone Bonaparte (la tragedia). Letteralmente:

Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per cosí dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.

Dovrebbe essere chiaro a tutti che, al di là della verve polemica e della trovata letteraria, il valore di verità della frase è pressoché nullo (fa il paio con il tormentone gramsciano del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà, di cui ho già parlato su questo blog in una diversa occasione). Per di più, una nota e bellissima poesia di Wisława Szymborska ci ha ricordato una volta per tutte che nulla accade due volte (anche di questa ho già parlato, qui):

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.

Eppure…

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Jerry Z. Muller – The Tyranny of Metrics

Muller, Jerry Z. (2018). The Tyranny of Metrics. Princeton (NJ): Princeton University Press. 2018. ISBN: 9780691174952. Pagine 234. 19,54€

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Che dire di questo saggio? Prima di tutto che ha una delle copertine più brutte che abbia visto di recente (secondo me, almeno: ma potete giudicare da soli e non dubito che sarete d’accordo con me). Così brutta che merita una citazione il suo autore: Chris Ferrante. Dal suo sito apprendo che è il senior designer alla Princeton University Press, che ha vinto molti premi e che le copertine che ha realizzato sono quasi sempre più belle di questa.

La seconda cosa da dire è che un libro a tesi (e fin qui poco male), e che la sua tesi è perseguita in modo che a me pare disonesto, e questo per un saggio è un peccato mortale.

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Les invisibles

Le invisibili (Les invisibles), 2018, di Louis-Julien Petit, con Patricia Mouchon, Khoukha Boukherbache, Bérangère Toural e altre.

Noémie Lvovsky, Corinne Masiero, Audrey Lamy, and Déborah Lukumuena in Les invisibles (2018)
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Una delicata commedia – inaspettato campione d’incassi in Francia – tratta con delicatezza e humour un tema difficile, quello delle donne senza dimora.

Qualcuno storcerà il naso di fronte all’ottimismo del film di fronte a un tema così complesso e lungi dall’essere risolto: la soluzione percorsa nella storia non è definitiva e difficilmente potrebbe essere generalizzata. Ma osservo che questa è un’opera narrativa, non un documentario. Chi volesse, per l’appunto, documentarsi può fare riferimento al lavoro sul campo di Claire Lajeunie, che ha dedicato un libro (Sur la route des invisibles. Femmes dans la rue) e un documentario (Femmes invisibles, survivre dans la rue) alle donne senza dimora di Parigi, e che ha ispirato questo film, cui ha collaborato.

Il film è girato nel Nord della Francia, una delle regioni più povere del paese, tra Tourcoing (a nord di Lille) e Anzin (vicino a Valenciennes).

Bravissime le attrici, in parte professioniste (Audrey Lamy, Noémie Lvovsky e Corinne Masiero) ma per lo più non professioniste con un passato reale di vita per la strada.

Vivamente consigliato.

Istat – Le prospettive per l’economia italiana nel 2019

Ieri, 22 maggio 2019, l’Istat ha pubblicato le sue prospettive per l’economia italiana nel 2019.

Immediatamente, il mondo dei social media si è diviso in due schieramenti contrapposti (chiamarle scuole di pensiero sarebbe fare torto al pensiero):

  • quelli che hanno scritto – per tutti Giuseppe Turani su Facebook, che cita l’Ansa – “L’Istat taglia le stime sul Pil: nel 2019 crescita a +0,3%. Precedenti previsioni vedevano un Prodotto interno lordo a +1,3%”, sottolineando che l’Istituto nazionale di statistica è ora più pessimista che in passato e dunque (implicitamente, e non voglio assolutamente fare il processo alle intenzioni di Turani) che l’economia sta andando male (anche) per responsabilità dell’attuale governo. Questo schieramento iscrive quindi l’Istat nel campo di quelli che criticano la politica economica del governo (sempre implicitamente, ma queste raffinatezze tendono a scomparire nella comunicazione veloce e sintetica dei social media);
  • quelli che invece hanno scritto – qui cito Marco Congiu su Twitter, con un tweet che nel momento in cui scrivo ha totalizzato 834 retweet e 2894 like – “Il governo nomina all’Istat un nuovo presidente, e dopo tre mesi l’Istituto dà previsioni di crescita economica superiori a quelle dell’OCSE, del FMI, della Commissione UE… e dello stesso governo. Buffo, eh?”, sottolineando (questa volta esplicitamente) che la previsione dell’istituto è più ottimista di quella di altri autorevoli previsori e quindi presentandoci un Istituto nazionale di statistica filogovernativo (tutto? soltanto nel suo nuovo presidente, che si immagina intento a diramare direttive cui tutta la catena gerarchica e il personale obbediscono senza fiatare?).

Due letture diametralmente opposte: possibile? E c’è un modo per stabilire quale è corretta?

Possibile sì, perché si confronta la previsione di crescita del Pil dello 0,3% nel 2019 (che nessuna delle parti mette in discussione) con due cose completamente diverse.

Nel primo caso, il confronto è con la previsione effettuata dall’Istat in precedenza: quasi esattamente 6 mesi fa, il 21 novembre 2018. Il contesto internazionale appariva all’epoca radicalmente diverso da quello che si è poi realizzato nel periodo successivo. L’Istat (come la maggior parte degli osservatori) era ben consapevole dei rischi connessi a un’evoluzione meno favorevole della congiuntura, tanto da scrivere nel comunicato stampa che accompagnava la nota su Le prospettive per l’economia italiana nel 2018-2019:

L’attuale scenario di previsione è caratterizzato da alcuni rischi al ribasso rappresentati da una più moderata evoluzione del commercio internazionale, da un aumento del livello di incertezza degli operatori e dalle decisioni di politica monetaria della Banca Centrale Europea.

I rischi paventati si sono realizzati e la nuova previsione tiene conto del peggioramento del quadro internazionale, come la nuova nota dell’Istat documenta. Ma oltre agli elementi internazionali, ci sono anche componenti interne del rallentamento della crescita? E possono essere imputati alle politiche economiche del governo? La risposta è certamente affermativa (basta il buon senso a capirlo) ma non sufficiente. La domanda corretta sarebbe “in che misura?” e questo è estrememente difficile da quantificare: la nota dell’Istat richiama, con estrema cautela, gli elementi in gioco e i possibili nessi causali e poi ci presenta – come si usa – i risultati del suo modello econometrico di previsione.

E questo ci introduce alla seconda posizione, quella di chi ci fa notare che la previsione dell’Istat (Pil +0,3%) è superiore a quelle della Commissione europea (+0,1% nella previsione di primavera di qualche giorno fa), del Fondo monetario internazionale (+0,1% previsto circa un mese fa, con un taglio rispetto a sei mesi prima del tutto comparabile con quello effettuato dall’Istat) e dell’Ocse (0,0%, di pochi giorni fa). Un paio di mesi fa, un articolo di Andrea Carli su Il sole-24 ore (Pil, tutte le previsioni per il 2019. L’istantanea dell’Italia «ferma») registrava previsioni comprese tra -0,2% (Ocse) e +0,6% (Banca d’Italia e Fondo monetario internazionale). In mezzo tutto il gruppo: le agenzie di rating, l’ufficio parlamentare di bilancio, il centro studi Confindustria, … Due le cose da sottolineare: le revisioni sono continue, a seconda del momento in cui sono formulate, e il campo di variazione è piuttosto ampio (8 decimi di punto percentuale).

Questo è il punto essenziale: si tratta in tutti questi casi di previsioni elaborate con modelli econometrici. Senza entrare nei tecnicismi, va detto: che i modelli econometrici sono diversi per struttura (che a sua volta riflette ipotesi teoriche specifiche), che i loro coefficienti sono basati su serie storiche (cioè sostanzialmente sul comportamento del sistema economico nel passato) e che i risultati dipendono dalle ipotesi formulate per le variabili esogene (che, al di là del gergo degli econometrici, riflettono ipotesi che sono il punto di partenza e la base della simulazione – gli input e gli scenari del modello – e non i suoi risultati – gli output). A onor del vero, a differenza di molti altri previsori, l’Istat rende pubblica la struttura del modello nella nota metodologica che accompagna le prospettive per l’economia italiana nel 2019. Ad esempio:

Il modello è sviluppato a partire da un input di 142 serie storiche di base a frequenza annuale riferite ad un periodo temporale che va dal 1970 al 2017. Il processo di stima del modello genera in tutto 222 variabili, di cui 157 endogene (66 stocastiche e 91 identità) e 65 esogene (di cui 9 di scenario).

Spero di essere stato sufficientemente chiaro, e mi perdonino i tecnici le molte semplificazioni.

Succo del discorso: queste prospettive che l’Istat formula e pubblica ogni 6 mesi sono il risultato di un processo ben diverso da quello che periodicamente porta l’Istat a “certificare” (come amano dire i quotidiani e le televisioni) l’andamento del Pil e delle altre variabili di contabilità nazionale (stima flash, conti trimestrali, conti dei settori istituzionali e soprattutto, a marzo e settembre, prodotto interno lordo, indebitamento netto e saldo primario delle Amministrazioni pubbliche). Le prime sono il risultato di un esercizio di stima econometrica, le seconde la sintesi di un processo statistico, che parte dai dati raccolti dall’Istat e li inquadra nel rigoroso contesto dei conti economici nazionali.

Che l’Istat svolga entrambe queste attività è una possibile fonte di confusione? C’è il rischio che i cittadini confondano i dati di contabilità nazionale (il più recente, relativo all’andamento del Pil nel primo trimestre del 2019 – +0,1% rispetto allo stesso trimestre del 2018 – è stato pubblicato il 30 aprile 2019) con le previsioni del modello econometrico MEMo-It?

Io temo di sì. Una parte della responsabilità è delle strutture della comunicazione (sia di quelle dell’Istat, sia delle agenzie di stampa, sia dei commentatori che spesso riportano la notizia in modo acritico e semplificato – mia personale opinione e quindi risparmiatemi repliche stizzite su come tutte queste strutture facciano un lavoro fantastico, al di sopra di ogni critica). Ne è un esempio il lancio dell’Ansa che ho riportato all’inizio: “L’Istat taglia le stime sul Pil”, ambiguo perché anche quelle di contabilità nazionale sono stime. Tanto è vero che il comunicato stampa del 30 aprile esordiva così: “Nel primo trimestre del 2019 si stima che il prodotto interno lordo (Pil) … sia aumentato … dello 0,1% in termini tendenziali”.

Ma sarebbe ingeneroso prendersela con chi svolge un lavoro importante di intermediazione tra i ricercatori nei settori di produzione dell’Istat e i cittadini.

Temo che ci sia un problema più di fondo. Il duplice ruolo che l’Istat svolge – di unico produttore ufficiale dei conti economici nazionali, rilevanti tra l’altro per i famosi parametri di Maastricht, e di uno (tra tanti) dei previsori delle grandezze fondamentali dell’economia italiana – è fonte di per sé di confusione.

Personalmente, sono dell’opinione (e lo sono da tempo) che questa confusione dei ruoli sia perniciosa. Che tutti gli sforzi per tenere distinte queste due attività (di cui va dato atto all’Istat e ai suoi dirigenti) si infrangano di fronte all’oggettiva difficoltà a comunicare questa distinzione, soprattutto in una situazione in cui i messaggi sono brevi, frenetici, sovrapposti in rapida successione e spesso branditi come armi nell’agone politico.

La mia modesta proposta (ma forse dovrei derubricarla a sommesso auspicio) è che l’Istat si ritiri dal terreno delle previsioni: ci sono abbastanza soggetti, anche istituzionali, che lo fanno. Del resto, le previsioni non sono nelle tradizioni (ultranovantennali) dell’Istat: sono state formulate per la prima volta 7 anni fa, il 22 maggio 2012. All’inizio della nota (Le prospettive per l’economia italiana nel 2012-2013) si dava questa motivazione:

Nel 2010 è stata disposta la soppressione dell’Istituto di Studi e Analisi Economica e il conseguente trasferimento delle relative funzioni all’Istat, ivi comprese quelle di previsione. Per svolgere tale compito è stato realizzato un nuovo modello econometrico, utilizzato per effettuare le
previsioni qui presentate.

Non una motivazione strategica o metodologica forte, dunque, ma la conseguenza di una contingenza (sia pure importante): una scelta che nulla vieta di rivedere alla luce della nuova situazione.

Concita De Gregorio – Nella notte

De Gregorio, Concita (2019). Nella notte. Milano: Feltrinelli. 2019. ISBN: 9788858835906. Pagine 202. 9,99€

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Concita De Gregorio scrive molto bene e, spesso, i suoi articoli dicono cose intelligenti, non scontate. Insomma: non mi ritengo un suo fan sfegatato, ma la seguo sempre con interesse, negli articoli che scrive e quando mi capita di sentirla alla radio o di vederla in televisione. Quando, all’annuncio di questo suo romanzo, ho saputo che la notte del titolo era quella della mancata elezione a presidente della repubblica di Franco Marini prima, e di Romano Prodi poi, nell’aprile del 2013, ho deciso di leggerlo subito, nella speranza di imparare qualche cosa di nuovo su un momento particolarmente oscuro della storia recente.

Sono rimasto deluso, sia sotto il profilo storico, sia sotto quello più strettamente narrativo.

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Chris Pavone – The Paris Diversion

Pavone, Chris (2019). The Paris Diversion. New York: Crown. 2019. ISBN: 9781524761523. Pagine 374. 8,60€

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Del medesimo autore avevo letto The Expats, che mi era piaciuto soprattutto per l’ambientazione al Lussemburgo, città che conosco molto bene per motivi professionali. Comprensibile, quindi che una volta appreso che era in uscita una specie di sequel del primo romanzo, con la stessa protagonista, Kate Moore, non abbia resistito alla tentazione di gettarmi sulla sua nuova avventura.

Peccato che – a parte l’ambientazione – del precedente romanzo ricordassi ben poco, se non che la protagonista (e, per la verità, quasi tutti gli altri personaggi) non sono quello che sembrano essere a prima vista. Purtroppo, la recensione che avevo fatto di The Expats (che trovate qui) non si è rivelata di molto aiuto: preoccupato di non dire troppo per non rovinare il gusto della lettura di un thriller ai miei lettori, ero stato fin troppo reticente.

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Che fare quando il mondo è in fiamme?

Che fare quando il mondo è in fiamme? (What You Gonna Do When the World’s on Fire?), 2018, di Roberto Minervini, con Kevin Goodman, Dorothy Hill e Judy Hill.

What You Gonna Do When the World's on Fire? (2018)
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Non mi va proprio di scrivere una recensione negativa di un film di un giovane regista italiano (oddio, giovane: l’anno prossimo ne fa 50). Però a me il film non è piaciuto. Peggio: non ci ho capito nulla.

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Steven Pinker – Enlightenment Now: The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress

Pinker, Steven (2018). Enlightenment Now: The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress. New York: Viking. ISBN: 9780698177888. Pagine 576. 11,99€.

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Non so se posso definire un pamphlet un libro di oltre 500 pagine.

A rigore no, perche secondo il Vocabolario Treccani il pamphlet (“dall’inglese pamphlet «opuscolo», a sua volta dall’antico francese Pamphilet, titolo popolare della commedia latina in versi Pamphilus seu de amore, del secolo XII, che acquistò, in Francia, il significato odierno nel secolo XVIII”) è un “libello, breve scritto di carattere polemico o satirico”. Questo carattere polemico, però, è nell’esplicito intento dell’autore, che afferma di avere scritto questo libro dopo essersi reso conto che il principio illuminista secondo cui si può applicare la ragione per promuovere il progresso umano può sembrare ovvio, banale e antiquato ma non lo è affatto, e che – oggi più che mai – gli ideali della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso hanno bisogno di una difesa incondizionata.

È dunque un pamphlet nei contenuti, e anche nella forma, se si considera la passione e la veemenza con cui Pinker – che è uno scienziato per formazione – inanella le sue considerazioni, sempre sostenute da una mole ampia e accurata di dati, grafici e tabelle. È l’attenzione maniacale all’accuratezza delle argomentazioni, alla volontà di farci capire ogni passaggio, alla completezza della documentazione che giustificano la lunghezza del testo, che però si legge senza fatica.

Il libro ha moltissimo meriti e consiglio vivamente di leggerlo.

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