Edward O. Wilson – Anthill: A Novel

Wilson, Edward O. (2010). Anthill: A Novel. New York: W. W. Norton & Co. 2010.

W.W. Norton
W.W. Norton

E. O. Wilson è (stato) un autore molto controverso. Quando, nel 1975, pubblicò Sociobiology. The New Synthesis gli diedero addosso un po’ tutti: la destra religiosa (americana) che vedeva nella sociobiologia il potenziale di trasformarsi in una mitologia del materialismo scientistico, ma anche i progressisti che aderivano al “modello standard delle scienze sociali”, secondo il quale i comportamenti umani sono culturalmente (e non geneticamente) acquisiti. La stessa comunità scientifica, specialmente una parte del “campo darwiniano”, con Stephen Jay Gould e Richard Lewontin in testa, contestò vivacemente le sue idee. Che adesso, a 35 anni di distanza, sono accettate abbastanza pacificamente. Ma all’epoca Wilson fu accusato di essere razzista e misogino, e a favore dell’eugenetica. Nel novembre del 1978, a una conferenza dell’AAAS (American Association for the Advancement of Science, di cui mi onoro di essere un membro) un collega gli versò in testa una brocca d’acqua. Wilson si vantò poi di essere stato l’unico scienziato in epoca moderna a essere stato aggredito per un’idea.

A vederlo adesso, ultraottantenne (questa foto è di un paio di anni, quando Wilson aveva per l’appunto appena compiuto 80 anni) non lo si direbbe uomo capace di scatenare polemiche così accese.

Wikimedia Commons
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Wilson ha anche vinto due premi Pulitzer, il primo nel 1979 per On Human Nature, il secondo nel 1991 per The Ants (scritto con Bert Hölldobler). Profondamente innamorato del suo lavoro e aiutato da una grande capacità di raccontare in termini chiari e rigorosi, Wilson è anche un grande “divulgatore” (abbiamo già parlato qui del diverso approccio, e della diversa terminologia, con cui nel mondo anglosassone si affronta il tema della popular science): proprio per questo nel 1994 è stato insignito di un altro premio, il Carl Sagan Award for Public Understanding of Science.

Con questo curriculum non mi sembra sorprendente che Wilson abbia voluto cimentarsi con la narrativa. Anzi, forse lo è piuttosto il fatto che abbia atteso la tarda età per farlo. I motivi di questa scelta, forse, è meglio lasciarli esporre allo stesso Wilson, nel Prologo del romanzo:

THIS IS A STORY about three parallel worlds, which nevertheless exist in the same space and time. They rise together, they fall, they rise again, but in cycles so different in magnitude that each is virtually invisible to the others.

The smallest are the ants, who build civilizations in the dirt. Their histories are epics that unfold on picnic grounds. Their colonies, like those of humans, are in perpetual conflict. War is a genetic imperative of most. The colonies grow and struggle and sometimes they triumph over their neighbors. Then they die, always.

Human societies are the second world. There are of course vast differences between ants and men. But in fundamental ways their cycles are similar. There is something genetic about this convergence. Because of it, ants are a metaphor for us, and we for them. Homer might have written equally of ants and men, Zeus has given us the fate of winding down our lives in painful wars, from youth until we perish, each of us.

Thousands of times greater in space and time is the third of our worlds, the biosphere, the totality of all life, plastered like a membrane over all of earth. The biosphere has its own epic cycles. Humanity, one of the countless species forming the biosphere, can perturb it, but we cannot leave it or destroy it without perishing ourselves. The cycles of the other species can be destroyed, and the biosphere corrupted. But for each careless step we take, our species will ultimately pay an unwelcome price—always. [139 – sono costretto come di consueto a citare la posizione sul Kindle]

Il problema, secondo me, è che scrivere un saggio scientifico (ancorché “divulgativo”) e scrivere un romanzo sono due cose molto diverse. Se dovessi giudicare Anthill secondo il metro critico con cui giudico abitualmente i romanzi dovrei dire che questo non è poi un granché. Soprattutto perché mi sembra che spesso l’autore si faccia prendere da un intento didattico-moralistico (ne potete cogliere le tracce già nel Prologo appena citato) che proprio non dovrebbero mai trasparire in un romanzo riuscito. E tuttavia, al termine della recensione, riprodurrò – come faccio sempre – alcuni passaggi che mi hanno colpito particolarmente (il che, ve lo confesso, è soprattutto un pro-memoria per me, che tuttavia condivido volentieri). All’interno di questo giudizio poco lusinghiero, vi devo confessare che però ho trovato una parte affascinante e straordinaria, la Parte IV, che sono le Anthill Chronicles, 8 capitoli scritti dal punto di vista delle formiche. Qui ho ritrovato il Wilson da me amato nelle sue opere saggistiche, un profondo conoscitore delle sue amate creature e un narratore affascinante. Anche in questo caso lascio a lui la parola:

“The Anthill Chronicles,” a section of the present narrative, is derived from scientific information about several real ant species compounded into one, documented individually, for example, by Bert Hölldobler and Edward O. Wilson in The Ants (1990) and The Superorganism (2009). It is written in a manner that presents the lives of these insects, as exactly as possible, from the ants’ point of view.

* * *

Ecco, infine, le citazioni (senza commenti, o quasi):

[…] the cat, which had drifted off into a ball of sleep […] [770]

He undertook what small children do when stripped of mechanical toys and playmates and placed in a natural environment. They explore. They become hunter-gatherers. If they are fearless, and Raff was innocently fearless, they discover a multitude of creatures of kinds they have never seen in a zoo or picture book or on television, and for which there is no name. Each kind of plant and animal, because of the immediacy and its novelty and strangeness, is for a small child an entity of boundless possibility. [1411]

The velvet ant taught Raff an elemental principle of natural history: don’t mess with colorful creatures who show no fear of you. [1422]

It was enjoyable, and thereby true to the way the brain is constructed. It was ordained by genes to which modern classrooms and textbooks are ill-fitted. [1465]

In time he understood that nature was not something outside the human world. The reverse is true. Nature is the real world, and humanity exists on islands within it. [1669]

When defending the nest, elders were among the most suicidally aggressive. They were obedient to a simple truth that separates our two species: where humans send their young men to war, ants send their old ladies. [2266 – qui siamo “dalla parte delle formiche”, e questa osservazione – fatta con il sorriso sulle labbra – è veramente profondissima]

When any organized system, whether a university, a city, or any assembly of organisms themselves, reaches a large enough size and diverse enough a population, and has enough time to evolve, it also becomes qualitatively different. The reason is elementary: the greater the number of parts interacting with one another, the more the new phenomena that emerge within it, therefore the more surprises student and teacher alike encounter each day, and the stranger and more interesting the world as a whole becomes. [3287 – anche questa molto bella, e anche molto familiare a chi ama esplorare e conoscere]

He assayed her as every heterosexual male does every good-looking young woman who comes into view, however fleetingly. The saccade proceeded in the usual, genetically programmed sequence. [3338 – avevo dimenticato di dire che Wilson è un gentiluomo del Sud, cresciuto nella fascia costiera tra Alabama e Florida, e che la storia è ambientata in quei posti]

He was familiar with the oft-quoted definition of investigative journalism: seduction followed by betrayal. [3787]

Raff lived by three maxims. Fortune favors the prepared mind. People follow someone who knows where he’s going. And control the middle, because that’s where the extremes eventually have to meet. [4189 – 3 massime che farei bene a tenere a mente anch’io]

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Pizza

Vi risparmierò per questa volta il lemma del Vocabolario Treccani perché il significato della parola è universalmente noto.

Si discute sull’etimologia del termine.

Secondo il famoso Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, disponibile online al sito etimo.it, pizza non sarebbe che la corruzione di pinza (in alcune regioni dell’Italia centrale si usa tuttora questa variante), riconducibile in ultima istanza al verbo pìnsere (“pigiare, pestare”), imparentato con lo spagnolo pisar (“calpestare”). Insomma, secondo questa teoria una pizza non sarebbe nient’altro che una schiacciata.

Pizza

it.wikipedia.org

A me piace molto di più l’ipotesi alternativa. La parola ci sarebbe arrivata insieme all’invasione dei longobardi (che, come sapete, sono arrivati fino al’Italia meridionale, con i ducati di Salerno e Benevento) e deriverebbe dall’antico alto-tedesco bizzo o pizzo (“boccone, pezzo di pane, focaccia”). Condividerebbe, per capirci, l’origine con parole dell’inglese corrente come bit e bite.

Insomma, la parola che denota una delle cose che più associamo al nostro Mezzogiorno ci arriva dritta dritta dalle invasioni barbariche (che non erano poi altro che massicce e invero poco pacifiche migrazioni di massa). L’Unità d’Italia passa anche di qui.

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La classe e lo stile

Trovo, su un libro che sto leggendo e di cui riferirò a tempo debito (2666 di Roberto Bolaño), un’interessante discussione sulla differenza tra classe e stile. Si sta parlando di abitazioni, ma penso che i concetti potrebbero essere agevolmente estesi.

Perché la mia casa le piaceva più della sua? Perché la mia aveva classe mentre la sua aveva solo stile, capisce la differenza? La casa di Kelly era bella, molto più comoda della mia, con più comfort, voglio dire, una casa luminosa, con un salone grande e piacevole, l’ideale per ricevere visite o dare feste, con un giardino moderno, con l’erba e il tagliaerba, una casa razionale, come si diceva in quegli anni. La mia, come può vedere, perché è questa, anche se naturalmente molto più trascurata di come è adesso, un palazzone che puzzava di mummie e di candele, più che una casa una gigantesca cappella, ma in cui erano presenti gli attributi della ricchezza e della continuità del Messico, ma di classe. E sa cosa vuol dire avere classe? Vuol dire essere, in ultima istanza, sovrano. Non dovere nulla a nessuno. Non dover dare spiegazioni di nulla a nessuno. [p. 643]

Casa messicana

casainterno.net

In modo abbastanza scontato, a me è sùbito venuto in mente il famoso saggio di Bourdieu sulla distinzione (La distinzione. Critica sociale del gusto), di cui abbiamo già parlato qui.

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Smacco

Secondo il Vocabolario Treccani:

Insuccesso, sconfitta materiale o morale, che comporta una diminuzione di prestigio o una vergogna e umiliazione in chi la subisce: il non essere stato rieletto alla presidenza è stato per lui un grave smacco; se la proposta di mediazione sarà respinta sarà un bello smacco per gli alleati; speriamo che la nostra squadra, dopo lo smacco subìto, si prepari con più impegno per il prossimo campionato; che smacco, per lui, essere bocciato per la seconda volta!

Parola di origine tedesca e quindi – massì, aderiamo per una volta ai luoghi comuni più corrivi – con un percorso del tutto prevedibile e lineare. Dalla radice *smahhan, legata all’antico alto tedesco smachi (“piccolo, basso”, ma al tempo stesso “vile, abietto”). Come dire che per gli antichi tedeschi piccolo è brutto. Ma l’onnipresente greco, uscito dalla porta, rientra dalla finestra della comune grande madre indoeuropea: la medesima radice ci ha dato infatti μικρός (“piccolo”). E se è per quello, anche il lituano mâzas (attraverso *mac-sas), con il medesimo significato (così, tanto per fare sfoggio d’erudizione).

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Amoveatur ne promoveatur [Proverbi pessimisti 11]

È nota la locuzione latina: Promoveatur ut amoveatur. Wikipedia ne parla così [ma mi concedo qualche libertà]

Promoveatur ut amoveatur è una locuzione latina. La traduzione letterale è “sia promosso per rimuoverlo”. Viene usata spesso nel linguaggio burocratico per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave dell’organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendo la stessa persona a un qualunque altro ruolo di rango superiore, per lo più meramente onorifico, essendo questo l’unico mezzo per poterlo “legalmente” [o comunque senza problemi, nota mia] allontanare dalla posizione occupata.
Volendo si potrebbe associare questa espressione al famoso Principio di Peter “Ogni membro di una gerarchia tende a essere promosso fino a raggiungere il proprio livello di incompetenza, dove si ferma.” [Qui Wikipedia ha una nota, che recita: La conseguenza di questo principio è: “Con il tempo, ogni ruolo dell’organigramma tende a essere occupato da un incompetente.”]
Si potrebbe cioè sostenere che talvolta l’unico modo per liberarsi di un incompetente sia quello di promuoverlo a una posizione nominalmente di prestigio, ma in realtà inutile, dove non possa fare danni.

Registro nel post di oggi un’altra pratica burocratico-amministrative, che in un certo senso ne è il complemento, e in un altro l’esatto opposto: Amoveatur ne promoveatur (eh sì, ho dovuto rispolverare il mio latino e spero di non avere fatto qualche errore da matita blu), cioè “sia spostato a una diversa posizione per non promuoverlo.”

Supponiamo – in via puramente teorica, naturalmente, perché non sono a conoscenza di alcun caso in cui questa pratica sia stata effettivamente attuata – che un candidato sia particolarmente adatto a ricoprire una posizione vacante (o di nuova creazione) di livello immediatamente superiore a quella attualmente ricoperta. Questo può accadere per diversi motivi (caratteristiche personali, curriculum vitae, esperienza maturata c0n successo nella posizione attualmente rivestita, job-description associata alla nuova posizione), ma per altri motivi (non necessariamente abietti) i vertici dell’amministrazione intendano assegnare la nuova posizione a un diverso candidato.

Come fare a sbarazzarsi dell’imbarazzante candidatura del quasi-incumbent? soprattutto se non sono disponibili altre possibili promozioni? Et voilà! Amoveatur ne promoveatur! Lo spostiamo ssenza promuoverlo in una posizione dello stesso livello di quella precedentemente occupata, evitando così che possa infastidire il candidato (e ormai vincitore) gradito all’amministrazione.

Naturalmente se il costo della prima pratica ricade sull’amministrazione e in ultima istanza sui contribuenti (osserva sapere.it: “un modo elegante ma costoso per aggirare l’ostacolo, non raccomandabile per i casi d’inefficienza organizzativa od operativa.”), il costo della seconda ricade in primo luogo sul “rimosso” (che non subisce conseguenze economiche ma certo viene fortemente demotivato dal mancato apprezzamento del proprio operato, che viene percepito come ingiusto) ma anche sull’efficienza (o l’efficientamento?) dell’amministrazione (che sposta un dirigente da una posizione in cui la sua competenza è relativamente maggiore a una in cui è meno preparato e meno motivato).