Damp Squid

Butterfield, Jeremy (2008). A Damp Squid: The English Language Laid Bare. New York: Oxford University Press. 2008.

Un agile libretto, di piacevolissima lettura, che mi sono divorato il giorno stesso che mi è arrivato da Amazon (complice un’indisposizione che mi ha tenuto a casa un giorno – che ho preso di ferie, ne tenga nota Brunetta).

In realtà, sotto l’apparenza del testo di analisi del “buon uso” della lingua inglese e di curiosità su alcuni errori frequenti e sull’origine di certe frasi idiomatiche – tra i tanti mi viene in mente il divertente Eats, Shoots & Leaves di Lynne Truss – questo libro si pone all’incrocio di 3 miei interessi, di cui ho dato ampia testimonianza su questo mio blog: quello per le parole e la loro origine, quello per l’uso di analisi quantitative per documentare la realtà e quello per la teoria evoluzionistica in senso lato (come algoritmo applicabile e applicato al di fuori della biologia).

Alla base del lavoro di Butterfield c’è un vocabolario speciale: l’Oxford English Dictionary, nella sua seconda e corrente edizione (OED2 del 1989), consta di circa 291.500 lemmi, in 21.730 pagine distribuite in 20 volumi. L’OED3 è in corso di redazione. Ma quello che rende l’OED speciale è il progetto su cui si basa – concepito dalla Philological Society nel 1857: documentare la lingua inglese nel suo uso dalle origini ai giorni nostri attraverso citazioni che ponessero le parole nel loro contesto d’uso.

The aim of this Dictionary is to present in alphabetical series the words that have formed the English vocabulary from the time of the earliest records [ca. AD740] down to the present day, with all the relevant facts concerning their form, sense-history, pronunciation, and etymology. It embraces not only the standard language of literature and conversation, whether current at the moment, or obsolete, or archaic, but also the main technical vocabulary, and a large measure of dialectal usage and slang. […] Hence we exclude all words that had become obsolete by 1150 [the end of the Old English era]  … Dialectal words and forms which occur since 1500 are not admitted, except when they continue the history of the word or sense once in general use, illustrate the history of a word, or have themselves a certain literary currency. [dalla Prefazione dell’OED1, 1933]

Per ottenere questo risultato, fin dall’inizio dell’impresa si mise in campo un esercito di lettori volontari, cui erano assegnati testi da leggere, dai quali essi dovevano estrarre citazioni atte a illustrare l’uso effettivo delle parole nel loro contesto e inviarle ai redattori del dizionario. Il più famoso dei redattori ottocenteschi fu James Murray, che lavorò al progetto dal 1870 al 1915, anno della sua morte. Murray lavorava nello scriptorium, una baracca di ferro rivestita all’interno di ripiani, scaffali e 1.029 caselle per tenerci le schede con le citazioni. Qui sotto potete vedere Murray al lavoro.

In preparazione della seconda edizione, il corpus di citazioni e l’intero processo cominciarono a essere “computerizzati” a partire dal 1983. Il corpus di citazioni su cui si basa l’OED contiene attualmente oltre 2 miliardi di parole e consente di prensentarle nel loro contesto (KWIC: key word in context). Qui sotto un esempio (trovate di più sul sito dell’OED, dove c’è anche un bel tour del dizionario elettronico).

Ormai avrete capito: è sulla base di questo che Butterfield fa il suo lavoro. In questo modo è in grado di superare l’annosa (e pedante) diatriba tra prescrittivisti e descrittivisti documentando le trasformazioni della lingua inglese. La nascita di parole ed espressioni nuove. L’eredità dell’anglo-sassone, del vikingo, del francese, del latino e del greco. Le incertezze dello spelling e delle morfologie. Il tutto con una solida (solidissima) base quantitativa e con l’illustrazione convincente che la lingua si evolve sulla base di un algoritmo non troppo diverso da quello darwiniano.

A me ha entusiasmato. Se siete interessati a qualcuno di questi temi, piacerà anche a voi. Lo raccomando vivamente. Ed è anche molto divertente.

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Ben scavato, vecchia talpa!

La citazione è per un amico che ce l’ha fatta, quando non ci contavamo (quasi) più.

Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo. Fino al 2 dicembre non ha condotto a termine che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo l’altra metà. Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l’unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa! [Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, VII]

Mi auguro che l’amico apprezzi almeno l’intenzione. Ma tant’è. Anzi, gliela metto anche nell’originale tedesco:

Aber die Revolution ist gründlich. Sie ist noch auf der Reise durch das Fegefeuer begriffen. Sie vollbringt ihr Geschäft mit Methode. Bis zum 2. Dezember 1851 hatte sie die eine Hälfte ihrer Vorbereitung absolviert, sie absolviert jetzt die andre. Sie vollendete erst die parlamentarische Gewalt, um sie stürzen zu können. Jetzt, wo sie dies erreicht, vollendet sie die Exekutivgewalt, reduziert sie auf ihren reinsten Ausdruck, isoliert sie, stellt sie sich als einzigen Vorwurf gegenüber, um alle ihre Kräfte der Zerstörung gegen sie zu konzentrieren. Und wenn sie diese zweite Hälfte ihrer Vorarbeit vollbracht hat, wird Europa von seinem Sitze aufspringen und jubeln: Brav gewühlt, alter Maulwurf!

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Leonardo è un genio

Bella scoperta, direte voi.

Ma no, non Leonardo da Vinci, Leonardo il blogger. Leggete qui:

“Tua moglie ha delle gioie?”
“Le aveva, poi mi ha incontrato”.

Vorrei averla scritta io. Vorrei averla pensata io. Mi sbellico dalle risa e dall’invidia.

Il post completo lo trovate qui.

Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo

Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry), 1971, di Don Siegel, con Clint Eastwood.

San Francisco, 1971. I figli dei fiori sono sfioriti da un po’. La città è degradata. Due pazzi si aggirano (almeno due: se no Il barbarico re mi riprende per gli errori epistemologici) per la città. Uno è uno psicopatico assassino che ricatta la polizia. L’altro un ispettore di polizia, Callaghan, l’eroe repubblicano che lavora nelle intercapedini tra legge e giustizia (che cos’è la giustizia gliel’ha dettato direttamente dio, probabilmente incidendo le regole sul retro della bronzea stella da sceriffo).

La prima metà del film è giocata sul fatto che nel 1971 non esistevano i telefoni cellulari. Ma dalla scena dello stadio in avanti il film è e resta indimenticabile.

Clint Eastwood non porta mai il cappello, quindi sapete che cosa vi dovete aspettare.

Però è un bel film. È così che noi esteti ci facciamo fregare.

Qui il finale, giusto per rovinarvi l’esistenza (Hey! Vi ho avvertito!).

Jack Bruce & la macchina di Berlusconi

Di Jack Bruce ho parlato pochissimo tempo fa, e quindi non mi dilungherò in chiacchiere vane.

Ieri (25 luglio 2009) ha suonato a Roma, al festival di Villa Ada, con un power trio formato – oltre che da lui al basso – da Robin Trower (ex Procol Harum) alla chitarra e da Gary Husband (ex Level 42) alla batteria. Naturalmente, oltre al loro nuovo album, non potevano mancare le rievocazioni dei Cream, di cui hanno eseguito 5 brani: Sunshine of Your Love, We’re Going Wrong, White Room, Politician e Spoonful.

Politician racconta la storia di un politico che usa il suo potere come arma di rimorchio più o meno mafioso (“Hey now baby, get into my big black car, want to just show you what my politics are”). Ma non mi aspettavo che Jack Bruce, un signore 67enne, una vita dedicata al blues, modificasse le parole per cantare “get into Mr Berlusconi’s car”. Certo, è pur sempre possibile che Bruce sia amico di Scalfari e la sua casa discografica sia proprietà di Rupert Murdoch … possibile ma secondo me improbabile. Mi sembra più probabile che all’estero sia proprio questa l’immagine del nostro presidente del consiglio.

Qui gliela sentiamo eseguire dal vivo nel 1990 (ovviamente senza il riferimento a Berlusconi, che non era ancora sceso in campo) insieme a Rory Gallagher, un altro grandissimo chitarrista (ascoltare per credere).

Hey now baby, get into my big black car.
Hey now baby, get into my big black car.
I want to just show you what my politics are.

I’m a political man and I practice what I preach.
I’m a political man and I practice what I preach.
So don’t deny me baby, not while you’re in my reach.

I support the left, though I’m leaning, leaning to the right.
I support the left, though I’m leaning to the right.
But I’m just not there when it’s coming to a fight.

Hey now baby, get into my big black car.
Hey now baby, get into my big black car.
I want to just show you what my politics are.

Ed ecco le altre. Sunshine of Your Love, Cream, circa 1968, dal vivo.

It’s getting near dawn,
When lights close their tired eyes.
I’ll soon be with you my love,
To give you my dawn surprise.
I’ll be with you darling soon,
I’ll be with you when the stars start falling.

I’ve been waiting so long
To be where I’m going
In the sunshine of your love.

I’m with you my love,
The light’s shining through on you.
Yes, I’m with you my love,
It’s the morning and just we two.
I’ll stay with you darling now,
I’ll stay with you till my seas are dried up.

Chorus

Repeat Second Verse

I’ve been waiting so long
I’ve been waiting so long
I’ve been waiting so long
To be where I’m going
In the sunshine of your love.

We’re Going Wrong. Ho scelto questa versione (live alla BBC nel 1968, su YouTube c’è anche quella in studio di Disraeli Gears), anche se imperfetta nella voce, perché dà un’idea molto piuù precisa di che cosa fossero i Cream dal vivo.

Please open your eyes.
Try to realize.
I found out today we’re going wrong,
We’re going wrong.

Please open your mind.
See what you can find.
I found out today we’re going wrong,
We’re going wrong.

We’re going wrong.
We’re going wrong.
We’re going wrong.

White Room. Al concerto d’addio, fine 1968. Ascoltate il dialogo tra la voce di Bruce e la chitarra di Clapton, verso la fine del secondo minuto. E l’assolo dall’inizio del quarto.

In the white room with black curtains near the station.
Blackroof country, no gold pavements, tired starlings.
Silver horses ran down moonbeams in your dark eyes.
Dawnlight smiles on you leaving, my contentment.

I’ll wait in this place where the sun never shines;
Wait in this place where the shadows run from themselves.

You said no strings could secure you at the station.
Platform ticket, restless diesels, goodbye windows.
I walked into such a sad time at the station.
As I walked out, felt my own need just beginning.

I’ll wait in the queue when the trains come by;
Lie with you where the shadows run from themselves.

At the party she was kindness in the hard crowd.
Consolation for the old wound now forgotten.
Yellow tigers crouched in jungles in her dark eyes.
Now she’s dressing, goodbye windows, tired starlings.

I’ll sleep in this place with the lonely crowd;
Lie in the dark where the shadows run from themselves.

Infine, Spoonful. Registrato nella stessa occasione di Sunshine of Your Love (Bruce con il colbacco). Nella versione live del concerto d’addio dura oltre 10 minuti e quindi su YouTube è in 2 parti. Questo è l’unico dei brani a non essere stato scritto da Bruce (è di Willie Dixon – come bonus vi faccio ascoltare anche la versione di Howlin’ Wolf, circa 1960).

Could fill spoons full of diamonds,
Could fill spoons full of gold.
Just a little spoon of your precious love
Will satisfy my soul.

Men lies about it.
Some of them cries about it.
Some of them dies about it.
Everything’s a-fightin’ about the spoonful.
That spoon, that spoon, that spoonful.
That spoon, that spoon, that spoonful.
That spoon, that spoon, that spoonful.
That spoon, that spoon, that spoonful.

Could fill spoons full of coffee,
Could fill spoons full of tea.
Just a little spoon of your precious love;
Is that enough for me?

Chorus

Could fill spoons full of water,
Save them from the desert sands.
But a little spoon of your forty-five
Saved you from another man.

Chorus

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Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice

Ho resistito fino all’ultimo, ma poi ho morbosamente ceduto e ieri mi sono andato a sentire i nastri pubblicati da L’Espresso. Per mia fortuna ho cominciato dai terzi, e meno noti. E sono rimasto subito colpito da un aspetto che, meglio di me, mette in luce Alessandro Robecchi su il manifesto di oggi, 24 luglio 2009.

BERLUSCONI-D’ADDARIO

Le istruzioni erotiche del Superpapi

Alessandro Robecchi

Il presidente allenatore faceva la formazione del Milan. Il presidente operaio prometteva instancabile operosità e modestia. Poi venne il presidente ferroviere che tagliava nastri e stringeva mani con il cappello da capostazione. E ora, questo presidente che dispensa consigli erotici a una professionista del ramo, come dovremmo chiamarlo, il presidente-zoccola? Il presidente-squillo? Va bene che è «uomo del fare», come dice lui, ma pretendere anche di essere «donna del fare» non sarà eccessivo? Eppure è vero: nelle registrazioni che Patrizia D’Addario ha raccolto nei paraggi del lettone grande di Putin a Palazzo Grazioli c’è anche questo, la voce lumacona di Superpapi che dà le sue indicazioni:
«Mi posso permettere? Tu devi fare sesso da sola… Devi toccarti con una certa frequenza». Insomma, lasci dire a me che me ne intendo… un po’ di allenamento, mi consenta!
E dunque, eccoci. Eccoci al coronamento, all’apoteosi, al non plus ultra, ai confini della realtà, al picco massimo umanamente consentito della berlusconeide, alla vetta e all’apice estremo. Ci siamo: cosa volere di più dell’uomo che dà consigli erotici alla donna? Dell’«utilizzatore finale» che insegna a una sex worker d’esperienza come usare il suo principale strumento di lavoro? In sostanza, quale immenso e ineguagliabile ridicolo si può aggiungere al cliente che consiglia a una professionista del sesso come tenersi in esercizio? Nemmeno Borat avrebbe osato tanto.
Ora naturalmente si potrà discettare a lungo (anche per decenni, se volete) sul buon gusto, il buon senso, la privacy, i segreti del talamo e tutto quello che volete. Chissenefrega. Il fatto inequivocabile e definitivo è che certe frasi, private o pubbliche che siano, descrivono gli uomini, ne disegnano la personalità, ne spiegano pregi e difetti, insomma li svelano perfettamente. E quel che ci appare dalle registrazioni della signora D’Addario – che l’Espresso diffonde a gocce, come un prezioso unguento sulle ferite degli italiani offesi da una leadership così inadeguata – è davvero un piccolo ometto in cerca di conferme.
E’ l’uomo che telefona il giorno dopo l’amplesso per sentirsi dire bravo. E’ l’uomo che – in possesso di un potere senza eguali nei paesi democratici – si dice da solo «ho fatto un bellissimo discorso, con applauso». Che spiega alla cortigiana complessi conti sul G8, per giungere alla conclusione che lui è «in-su-pe-ra-bi-le!». Questo libro «l’ho disegnato io». E ci mancherebbe. E questo l’ho fatto io. E questo l’ho pensato io. Io, io, io. Il vero dramma umano del signor Berlusconi Silvio, ciò che lascia sgomenti, non è qualche notte di sesso a tassametro. Ma piuttosto che inviti signorine a decine per farsi cantare in coro «Meno male che Silvio c’è», per assistere alla ola in suo onore, in definitiva per farsi battere le mani. Una bulimia di consenso che lascia atterriti, e al contempo una monumentale presunzione che sfocia immancabilmente nel consiglio, nell’indicazione, nell’«io farei così». Consigli all’allenatore del Milan. Consigli ai ministri. Consigli ai capi dell’opposizione. Consigli agli imprenditori. Consigli a tutti. Persino «darò io dei consigli a Obama», frase del 5 novembre (perché il 4 notte, si sa, aveva da fare). E ora, record del mondo, pure consigli alla escort in materia di sesso. In questa emergenza nazionale sospesa tra il dramma della democrazia e Alvaro Vitali, un caro pensiero va a Enzo Biagi. Pensando di esagerare, di creare un’iperbole, di fabbricare un paradosso estremo aveva detto: «Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice». Chissà come arrossirebbe quel vecchio galantuomo di fronte agli sviluppi odierni, ascoltando un Berlusconi che non si limita a usare il corpo delle donne, ma pretende pure di spiegarglielo.

Letter to a Christian Nation

Harris, Sam (2006). Letter to a Christian Nation. New York: Alfred A. Knopf. 2007.

Di Sam Harris ho già parlato in un post precedente, spiegando perché il suo libro non mi era piaciuto moltissimo e anche perché non condivido alcune (e forse molte) delle sue posizioni. Ho pochissimo da aggiungere, perché questo è sostanzialmente un riassunto di The End of Faith, di cui ci risparmia molte digressioni presenti nell’altro libro, come quella sul pacifismo (contro) e sulla meditazione buddista (pro). In più, c’è l’espediente retorico (e un po’ forzato) della “lettera aperta” scritta a un cristiano fondamentalista (americano). Proprio per questo, il bersaglio di Harris qui è il fondamentalismo cristiano, piuttosto che quello islamico, che era invece la preoccupazione principale di The End of Faith).

Uno dei problemi è proprio questo: il fondamentalismo cristiano americano è una cosa conosciuta ma in parte estranea alla cultura europea, decisamente più secolarizzata. E persino a quella italiana: il nostro problema sono le continue incurisoni in  “fuorigioco” del Vaticano nella politica e nella morale (soprattutto sessuale) degli italiani, piuttosto che il fatto che gli italiani siano in prevalenza credenti.

Negli Stati Uniti, invece, il 12% dei cittadini ritiene che la vita sulla terra si sia evoluta attraverso un processo naturale, il 31% che l’evoluzione sia stata guidata dalla mano di dio (il cosiddetto intelligent design) e il 53% che l’universo sia stato creato letteralmente secondo quanto scrive la bibbia. Letteralmente.

Among developed nations, America stands alone in these convictions. Our country now appears, as at in no other times in her history, like a lumbering, belliucose, dim-witted giant. Anyone who cares about the fate of civilization would do well to recognize that the combination of great power and great stupidity is simply terrifying, even to one’s friends. [p. xi]

Gli esempi che Harris riporta per corroborare questa sua tesi sono abbastanza impressionanti, da far impallidire anche la nostra Binetti:

Consider, for instance, the human papillomavirus (HPV). HPV is now the most common sexually transmitted disease in the United States. The virus infects over half the American population and causes nearly five thousand women to die each year from cervical cancer; the Center for Disease Contro (CDC) estimates that more than two hundred thousand die worldwide. We now have a vaccine for HPV that appears to be both safe and effective. The vaccine produced 100% immunity in the six thousand women who received it as a part of a clinical trial. And yet, Christian conservatives in our government have resisted a vaccination program on the grounds that HPV is a valuable impediment to premarital sex. These pious men and women want to preserve cervical cancer as an incentive toward abstinence, even if it sacrifices the lives of thousands of women each year. [pp. 26-27]

Ma Harris osserva anche che, oltre a impedire politiche attivamente intese al benessere (in questo caso alla salute) della popolazione se contraddicono a un qualche principio religioso o a qualche interpretazione delle scritture, il fondamentalismo religioso sottrae risorse alle politiche anche attraverso costosi “programmi di ricerca”:

Can you prove that Zeus does not exist? Of course not. And yet, just imagine if we lived in a society where people spent tens of billions of dollars of their personal income each year propitiating the gods of Mount Olympus, where the government spent billions more in tax dollars to support institutions devoted to these gods, where untold billions in tax subsiudies were given to pagan temples, where elected officials did their best to impede medical research out of deference to The Iliad and The Odyssey, and where every debate about public policy was subverted to the whims of ancient authors who wrote well, but who didn’t know enough about the nature of reality to keep their excrement out of their food. This would be a horrible misappropriation of our material, moral, and intellectual resources. And yet this is exactly the society we are living in. [p. 56]

Infine, Harris argomenta molto lucidamente l’irriducibile incompatibilità tra concezione scientifica e concezione religiosa del mondo. Lo fa in modo molto eloquente e sono pienamente d’accordo.

In the broadest sense, “science” (from the Latin scire, “to know”) represents our best efforts to know what is true about our world. We need not distinguish between “hard” and “soft” science here, or between science and a branch of the humanities like history. It is a historical fact, for instance, that the Japanese bombed Pearl Harbour on December 7, 1941. Consequently, this fact forms part of the worldview of scientific rationality. Given the evidence that attests to this fact, anyone believing that it happened on another date, or that the Egyptians really dropped those bombs, has a lot of explaining to do. The core of science is not controlled experiment or mathematical modeling: it is intellectual honesty. [p. 64]

Knowledge wants to be free too

Riporto (perché mi sembra molto interessante e perché sono d’accordo con le sue tesi) un articolo di Peter Eckersley comparso sul numero del 27 giugno 2009 di NewScientist.

OPINION ESSAY

Knowledge wants to be free too

When technology makes knowledge globally available, reshaping the economics of buying and selling it becomes crucial, argues Peter Eckersley

Ten years ago, a piece of software called Napster taught us that scarcity is no longer a law of nature. The physics of our universe would allow everyone with access to a networked computer to enjoy, for free, every song, every film, every book, every piece of research, every computer program, every last thing that could be made out of digital ones and zeros. The question became not, will nature allow it, but will our legal and economic system ever allow it?

This is a question about the future of capitalism, the economic system that arose from scarcity. Ours is the era of expanded copyright systems and enormous portfolios of dubious patents, of trade secrecy, the privatisation of the fruits of publicly funded research, and other phenomena that we collectively term “intellectual property”. As technology has made a new abundance of knowledge possible, politicians, lawyers, corporations and university administrations have become more and more determined to preserve its scarcity.

So will we cling to scarcity just so that we can keep capitalism? Or will capitalism have to evolve into some new kind of digital economics? The question underlines many things – from music piracy to the woes of the newspaper industry to Google’s efforts to scan all the books in the world.

This fragile scarcity has a purpose: to make things expensive. Water is plentiful and essential; diamonds are rare and useless. But diamonds are much more expensive than water because they’re much rarer. People in the business of selling information have good reason to want a future where knowledge is valued like diamonds rather than water. Here pharmaceutical giants, Hollywood, Microsoft, even The Wall Street Journal speak with one voice: “Keep expanding copyright and patent laws so our products remain expensive and profitable.” And they pay lobbyists worldwide to ensure this message reaches governments.

The irony of the battle between advocates of abundance and advocates of scarcity is that both sides are right. It makes no sense to limit and control access now we have technologies to give information to everyone. But it is also foolish to pretend we do not need incentives to help produce and publish that information.

While financial incentives are a very complicated business, two simple points hold true. First, even without payment, some folk will always record music, write software, make their feature films, do their own investigative journalism, occasionally even test their own drugs. You couldn’t stop them if you tried. Second, we will all be better off with more, not fewer, professional careers available for knowledge producers. Not having to stick with a day job allows creative workers to be more creative and productive, for the benefit of all.

Crucially, though, if we really want to end scarcity, we will have to build institutions that promote knowledge-sharing, while at the same time ensuring that there are incentives for creative and technical minds to contribute.

Science, and the universities that support it, is the grandest example of a system that has evolved to promote the abundance of knowledge. Universities offer incentives in the form of tenure, promotion and prestige to researchers who can discover and share the information which their peers consider most valuable. Academics are human: they are as greedy, short-sighted and treacherous as everyone else, but the academic environment encourages them to focus those vices and impress their colleagues with their cleverness and cool discoveries published in fancy journals. Sometimes those cool discoveries are imagined or incomplete, but then others get ahead by pointing this out, and when the whole process works, the result is science.

In recent years, however, science has become another front in the conflict over scarcity. As any biologist will tell you, patents, secrecy and commercialisation have become a way of life. At the same time, science has inspired new institutions and movements that promote its ideals and its liberty.

Take the open access movement, which has campaigned to ensure that scientific articles are freely available to the public, who ultimately paid for the research with their taxes. Historically, most scientific writing was confined to expensive scholarly journals and essentially available only to people with university affiliations. Some publishers resisted the open access movement, but trends are against them. In March this year, for example, the US Congress made permanent a requirement that all research funded by the National Institutes of Health be openly accessible, and other countries are following. Within a decade or two, it is safe to say that all scientific literature will be anime, free and searchable. Journal publishers will still be paid, but at a different point in the chain.

Outside the universities we have some even more remarkable developments. Fifteen years ago, who would have predicted that teenagers would be allowed to edit the world’s primary reference source from their homes? Twenty years ago, who would have predicted that teams of volunteers would succeed in writing and giving away software that produces many billions of dollars of economic wealth?

Wikipedia and the free and open-source software movements have produced stores of knowledge while trying to insulate themselves from the old institution of copyright, which is inherently unsuited to their processes of authorship. But that’s not enough: we urgently need institutions to liberate knowledge produced under the old rules, too.

The music industry, for example, is slowly realising it cannot win the war on copying. People are pirates, and there are still 10 songs copied for every one bought on iTunes. Soon, the record labels will start to experiment with alternatives to copyright, such as licences that allow unlimited, restriction-free file sharing in exchange for flat fees, maybe a $5 or $10 voluntary payment with your monthly internet provider bill. This kind of system will not be perfect, but it will allow us to have wonderful libraries of legal MP3s, and it may help more independent professional musicians to flourish.

Another experiment in post-scarcity capitalism concerns the digitisation of the world’s books. One draft of the rules for access to scanned books is currently being written in the US courts as Google settles a class action aver its scanning projects. This settlement will make books more searchable and improve access to both out-of-print and “orphaned” books whose copyright holders can’t be found. Under the current version, books will only be available in snippets and sections. Some out-of-print books will be available through institutional and individual subscriptions, but we don’t yet know whether the prices will be inviting to most of the public, thus making Google Books a true post-scarcity project.

So here’s a challenge to the governments of countries that want to lead the way, whether rich or poor: sit down with Google (or one of its competitors), authors and publishers, and work out a deal that offers a complete, licensed digital library free to your citizens. It would cast taxpayers something, but less than they currently spend on buying scarce books and supporting large paper collections. It would be great news for publishers and authors, who would receive most of the funds and would no longer need to fear piracy.

It’s time to recognise that when we build institutions to promote the abundance of knowledge, everybody wins. When it comes to knowledge, you can never have too much of a good thing.

PROFILE
Peter Eckersley is a staff technologist at the Electronic Frontier Foundation in San Francisco, which sets out to defend digital civil liberties. His doctoral research at the University of Melbourne is on alternatives to digital copyright. He can be contacted at pde@eff.org


Colpirne uno per educarne cento

Stafutti, Stefania e Gianmaria Ajani (2008). Colpirne uno per educarne cento. Slogan e parole d’ordine per capire la Cina. Torino: Einaudi. 2008.

L’idea sembrava allettante: prendere slogan e massime della rivoluzione cinese e dedicare a ognuna una scheda , che ne indicasse l’autore e l’origine, che la inquadrasse nella storia della Cina dal 1950 a oggi, che ne spiegasse la fortuna in Occidente, soprattutto nei movimenti degli anni 60 e 70, che eventualmente ne illustrasse l’uso che se ne fa oggi, dato che in molti casi i vecchi slogan sono ora utilizzati nella pubblicità o nella controcultura cinese.

Peccato che il libro sia scritto in modo molto sciatto, come se i 2 autori (sono professori universitari, ma questo ormai non significa nulla) non avessero nessuna voglia di fare un lavoro serio (ancorché divulgativo) e mirassero soltanto a fare un po’ di diritti d’autore con qualcosa che magari avevano nel cassetto.

Né l’editore ha dato loro una mano. Sono passati i tempi in cui Einaudi era il migliore editore italiano, non soltanto per i contenuti, ma anche per la cura editoriale. Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Italo Calvino, Elio Vittorini  e tanti altri si rivolteranno nella tomba.

2 esempi soltanto:

  • A pagina 83 gli avatar diventano atavar, senza nemmeno che la pagina arrossisca di vergogna (e sono abbastanza sicuro, anche se non ne ho le prove, che è uno sbaglio dovuto all’ignoranza degli autori, e non una svista di un’incolpevole tipografo!).
  • Più o meno a pagina 100 (siamo nel 1992) compare Jiang Zemin. O meglio ne compaiono tanti, e la cosa sarebbe comica se il libro l’avessi trovato nella sala d’aspetto della stazione invece di averla pagato 11,80 euro e sei i due autori non si spacciassero per sinologi. Allora: a pagina 102 e 103 è Jiang Zemin e ci viene anche spiegato il significato del nome (“il fiume che porta beneficio al popolo” oppure “il fiume in cui il popolo annaspa”). A pagina 104 è Jiang Zeming (2 volte: l’errore di stampa non può essere escluso, ma è improbabile). A pagina 106 diventa Jiang Zimin (giuro!). A pagina 109 si riaffaccia Jiang Zemin, che resiste eroicamente fino a pagina 112. Ma a pagina 113, inesorabilmente, il nostro camaleonte cinese si trasforma in Zhang Zemin, per tornare definitivamente Jiang Zemin nella pagina successiva. A questo punto è fin troppo facile immaginarsi una piccola schiera di cultori della materia, o assegnisti, o borsisti o non so cosa intenti a compilare le schede per i nostri autori, che non si sono nemmeno degnati di rileggere il tutto e di verificare le traslitterazioni.

Aridàtece li sòrdi!

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The Canon

Angier, Natalie (2007). The Canon: The Beautiful Basics of Science. London: Faber and Faber. 2008.

Ho comprato questo libro, come mi accade spesso, senza saperne molto, dopo una scorsa all’indice e un’annusata alla bibliografia. L’ho comprato alla libreria parigina di WHSmith, e lo dico per chi ci fosse stato e per chi ci dovesse capitare: la parte dedicata alla divulgazione scientifica è al piano di sopra, in fondo a una fuga di stanze e stanzette, ma occupa un’intera parete e ce n’è abbastanza da perderci la testa ogni volta (per capirci, da Feltrinelli International a Roma ce n’è sì e no uno scaffale, insieme ai libri di self-help e vari santoni alla Coelho; Feltrinelli International di Milano mi riesce incomprensibile nello spreco di spazio e di razionalità … e poi Milano è lontana quasi come Parigi). E a pochi metri da WHSmith, sempre in Rue di Rivoli, c’è Galignani, con una sezione in inglese quasi altrettanto ben fornita. Naturalmente, Parigi pone anche altri problemi: se non intendi imbarcare il bagaglio, ma hai soltanto il bagaglio a mano, ci sono i limiti di spazio e soprattutto di peso imposti dalle compagnie (tutte con regole diverse e altrettanto incomprensibili: chi pone soltanto limiti di dimensione, chi ti limita a 5 kg – facili da superare se ti porti il laptop; addirittura, anche se viaggi sullo stesso aereo, il peso che puoi portare in cabina è diverso se il biglietto è Alitalia o AirFrance; e per farti irritare di più, nelle “cappelliere” c’è una bella targhetta che dice che sono collaudate per un peso fantastico, ci potrebbe viaggiare un bambino!).

Insomma, quello che mi ha fatto scegliere questo tra quelli che mi sono comprato nell’ultimo viaggio a Parigi è stato, lo devo confessare, l’endorsement di Richard Dawkins in copertina (questa è l’edizione inglese di un libro originariamente americano): una garanzia, ho pensato, Dawkins con il carattere che ha non loderebbe mai un libro inesatto o mal scritto. Questo è quello che scrive (così non dovete sforzarvi a leggerlo sull’immagine della copertina):

Every sentence sparkles with wit and charm … An intoxicating cocktail of fine science writing.

Sì, lo so non bisogna credere a quelle poche parole di lode che ci sono sulle copertine dei libri. “Indimenticabile”, scrivono, e poi scopri che te lo ricorderai per tutta la vita come il peggior romanzo che tu abbia mai letto. E poi, magari, è quella che in gergo si chiama una “marchetta”, perché Dawkins e Angier hanno lo stesso agente letterario (e infatti è così!).

Il problema è che Dawkins non scrive il falso. Ha ragione. Soltanto che ha letteralmente ragione.”Every sentence sparkles with wit and charm”: letteralmente, ogni singola frase. “An intoxicating cocktail”. In effetti. Il problema non mi sembra neppure quello che sottolinea la recensione del Times che ho appena citato, cioè che Angier scrive in modo inutilmente barocco, e si sente in dovere di evitare le ripetizioni sostituendo (la seconda volta che lo usa) un termine tecnico con un fantasioso giro di parole, e che spesso si perde in irritanti voli lirico-pindarici. Il problema per me è che il libro è scritto come un testo di Woody Allen degli anni di Io e Annie. Aggiungete un po’ di sceneggiature di Friends (ve lo ricordate?) e magari qualche pillola di anfetamina e avete lo stile di Natalie Angier. Un fiume inarrestabile di parole, di battute, di giochi di parole, di riferimenti culturali (alla cultura pop e televisiva newyorkese, soprattutto).

Vi faccio un esempio (altri li trovate nella recensione del Times), e ve lo faccio “europeo”, così almeno evitate lo straniamento culturale. Angier sta parlano della tettonica a zolle:

In Europe, the Alps delineate where the Italian peninsula, riding on the African plate, slammed into what are today Germany and France at about the same time, a churlish merger that two world wars , a common currency, and the frequent consumption of each other’s pastries have not entirely placated. [p. 226]

Ho visto che il libro è stato tradotto in italiano (è pubblicato da Rizzoli nei saggi BUR) e compiango il povero traduttore. Come avrà fatto a tradurre tutte le allitterazioni e i giochi di parole? Come avrà fatto a rendere i riferimenti culturali? Se qualcuno di voi per caso l’ha letto, me lo fa sapere?

Per il resto, il libro parte da una buona idea: fare il punto sui principali concetti-chiave della scienza contemporanea (nella prima parte, la migliore) e su alcune aree disciplinari (nella seconda). E farlo a cominciare da una serie di conversazioni con scienziati (quasi esclusivamente americani). Il quadro che ne emerge è abbastanza vivido, e probabilmente utile al neofita o al giovane (ma veramente giovane!) studente. Peccato che Angier la tiri tanto per le lunghe (forse sarebbe bastata la metà delle pagine) e sia tanto barocca!.

Eppure la Angier è una giornalista scientifica reputata, e ha anche vinto il Pulitzer.

Colgo l’occasione per segnalarvi l’intervento di Natalie Angier su Edge (una rivista online che merita di essere sempre letta: iscrivetevi alla newsletter!) su scienza e religione (My God Problem).

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