Tutti in Trentino

Dopo Cortina, sono sempre più i cittadini che chiedono che il loro comune faccia parte del Trentino-Alto Adige invece che della Regione cui apparteneva finora.

Che fare? Anzitutto, pollice verso alle reazioni scomposte alla Galan: si sentiranno anche “governatori”, ma i cittadini non sono sudditi e hanno espresso le loro preferenze democraticamente. Quindi propongo che si dia immediatamente corso alle loro legittime richieste.

E gli altri? Quelli che non hanno la fortuna di risiedere in comuni contermini al Trentino-Alto Adige? Non avrebbero il diritto di esprimere la medesima preferenza? Vogliamo fare una palese ingiustizia, introdurre un’incostituzionale disparità di trattamento (“Tutti i cittadini […] sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” art. 3) per questa solo circostanza contingente? impedire ai cittadini, che so, di Tivoli o di Palazzolo Acreide di diventare parte del Trentino per il solo motivo della distanza geografica?

La soluzione è a portata di mano. Indiciamo un referendum costituzionale (che, tra l’altro, costerebbe alla nostra disastrata finanza pubblica molto meno di quasi 8.000 consultazioni locali) e trasferiamo tutti i comuni italiani alla Regione Trentino-Alto Adige. Già che ci siamo, aboliamo tutte le Regioni tranne una e tutte le Province tranne due. Sciogliamo le camere e sostituiamole con le assemblee provinciali e regionale. E mettiamo al Governo gli oculati amministratori di quella Regione.

Non funzionerebbe, dite? Perché i trentini e gli alto-atesini non vogliono nuovi concittadini? Questo vi fa sorgere il sospetto che tutti vogliano diventare trentini non tanto perché la Regione è ben amministrata, ma perché i cittadini di questa Regione a statuto speciale godono di privilegi fiscali e amministrativi e percepiscono una quota pro capite più elevata di trasferimenti pubblici? Alla base delle preferenze espresse con il voto non c’è un’esigenza di eguaglianza, ma al contrario la ricerca di un privilegio, motivata dall’esistenza di una “differenza di potenziale” nei benefici che (a parità sostanziale di tassazione) i cittadini delle diverse Regioni percepiscono? Sapete che non ci avevo pensato…

Ma se è così, è un motivo di più per abolire le Regioni e fare marcia indietro sulla devolution. O no?

Zelig

Zelig, 1984, di e con Woody Allen.

Un capolavoro, un po’ compiaciuto – come è spesso Woody Allen – ma un capolavoro di ironia, di battute fulminanti, di nostalgia. Il tutto in 79 minuti.

Ma non è questo che volevo dire. Volevo dire che io sono un po’ Leonard Zelig. Ed essere un po’ Zelig è essere Zelig al quadrato, se ci riflettete. Sono Zelig perché (come tutti voi) – e in questo Zelig è un personaggio universale, un simbolo del nostro tempo come il miglior Chaplin – sono disposto a cambiarmi per essere assimilato, accolto: non riesco (ancora) a trasformarmi del tutto fisicamente, ma riesco a mimetizzarmi nel linguaggio, nei tic, nell’atteggiamento mentale di chi mi circonda. Non per conformismo, ma per timore di non essere accettato. E per non mettermi troppo in vista.

Lo zeligismo è però anche una forma di empatia: mettersi nei panni degli altri aiuta a capirli, a capirne le ragioni. Per questo, uno Zelig nazista è incongruo e il Ku-Klux-Klan vede in Zelig un triplice nemico (negro, indiano ed ebreo). Per questo, c’è anche uno zeligismo dell’amore: quando ci innamoriamo ci sentiamo trasformati (è l’inizio del processo) e ,via via che il processo si compie, le coppie di lunga data si trasformano fino a sembrarci un po’ autosimili, più fratelli che sposi, più famiglia che amanti.

29 ottobre – Joseph Goebbels

Nato il 29 ottobre 1897, oggi compirebbe 110 anni.

Esponente di spicco del nazismo, Gauleiter di Berlino dal 1926 e ministro della propaganda dal 1933, fu anche cancelliere del Reich per poche ore, dopo la morte di Hitler.

Figlio di genitori ferventi, fu educato in ambienti cattolici. La sua frase più famosa – Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità – sembra a me tecnicamente ispirata al modo in cui operano le religioni per fare proseliti (si veda, su questo blog, la recensione a god is not Great). E certamente questa tecnica non è morta con lui: ne siamo tutti vittime ogni volta che la stampa e la televisione decidono per noi che cosa è importante e attuale, e che cosa no.

La sequenza della morte di Goebbels e della sua famiglia è uno dei momenti più sconvolgenti del controverso film La caduta. La sera del 1° maggio, Magda Goebbels e un medico delle SS somministrarono ai sei figli della morfina. Una volta addormentati, lei stessa li uccise rompendo una capsula di cianuro nella bocca di ognuno. Poi entrambi si suicidarono (secondo alcuni, lui uccise lei e poi si sparò; secondo altri si fecero sparare alla nuca da un attendente). Infine, i corpi furono cremati.

Il filmato che ho trovato su YouTube è in parte modificato (anche nella colonna sonora).

Macaroni Symphony Hour

Il concerto della domenica di Boris:

Pubblicato su Musica. Leave a Comment »

L’amico americano (1977)

L’amico americano (Der Amerikanische Freund), di Win Wenders, con Dennis Hopper e Bruno Ganz.

Non necessariamente, quando si incontrano due geni, il risultato è geniale. Sono molti i brutti film tratti o ispirati da romanzi straordinari, e c’è anche qualche bel film tratto da un romanzo mediocre. In questo caso, l’incontro tra Patricia Highsmith e Wim Wenders ha prodotto un risultato stupefacente.

Di Patricia Highsmith, scrittrice americana trasferitasi in Europa, è famosa soprattutto per la serie di 5 romanzi di cui è protagonista l’amorale Tom Ripley, più volte portati sullo schermo:

  1. The Talented Mr Ripley, 1955: Plein Soleil, 1960, per la regia di René Clement e con Alain Delon nella parte del protagonista; e di nuovo con il titolo originario nel 1999 con Matt Damon (regia di Anthony Minghella).
  2. Ripley Under Ground, 1970: Ripley Under Ground, 2005, per la regia di Roger Spottiswoode con Willem Dafoe (ma Ripley è Barry Pepper)
  3. Ripley’s Game, 1974: da questo romanzo è tratto L’amico americano, ma fu anche riproposto da Liliana Cavani nel 2002 con il titolo originario e John Malkovitch nella parte di Ripley
  4. The Boy Who Followed Ripley, 1980
  5. Ripley Under Water, 1991.

Quelli della Ripliade non sono gli unici romanzi della Highsmith a essere stati adattati per lo schermo. Il suo primo, Strangers on a Train divenne nel 1951 un capolavoro di Hitchcock. The Blunderer, il suo secondo romanzo (1954) divenne nel 1963 Le meurtrier di Claude Autant-Lara. This Sweet Sickness del 1961 divenne nel 1977 Dites-lui que je l’aime con Gerard Depardieu e Miou-Miou.

Fine dello sfoggio di cultura e veniamo al film di Wenders.

Dicevo prima che è un film stupefacente: lo è in molte delle accezioni del termine. Wenders racconta una storia di genere, un thriller tradizionale (gangster, pistole, treni in corsa…) e lo distorce a quello che vuole dirci. Non a caso uno dei temi del film (e del romanzo) è la contraffazione, quella delle opere d’arte (il falsario Nicholas Ray) e quella della realtà che operano i cineasti (come Nicholas Ray): la contraffazione è un crimine, l’attività cinematografica pure, e infatti tutti i gangster del film sono interpretati da registi (come Samuel Fuller, Daniel Schmid, Jean Eustache e Peter Lilienthal). La contraffazione del quadro di Derwatt messo all’asta è colta da Jonathan Zimmermann (Bruno Ganz, il corniciaio leucemico – anche la Highsmith è morta di leucemia) in una diversa sfumatura di blu. Parallelamente, in tutto il film, i colori sono saturati e distorti in modo da accrescere – espressionisticamente – il senso di straniamento.

Ci pensa la morte a riportare tutto in ordine, a dare una cornice (Ganz fa il corniciaio e Der Rahmen, “La cornice” era il titolo provvisorio del film) d’ordine letale al tumulto della vita: Ganz dà la morte agli altri per timore della propria. Sospettando di essere condannato a morte dalla malattia (forse non lo è, è una trappola che gli ha teso Ripley perché Ganz si è rifiutato di stringergli la mano – no, lo è: quando si è finalmente convinto di non essere malato, Ganz muore), come in un sogno, lascia cadere tutte le sue remore morali.

Ganz è già morto, in realtà. Uccide come uno zombie. Non è più toccato dai sentimenti: né dall’amore per la bella moglie, né dalla tenerezza per il figlio, Nè dalla possibile amicizia con Ripley, l’amico americano (“l’amicizia è impossibile”, gli dice).

Infine – l’hanno detto in molti, e c’è effettivamente una lucidità profetica in questo – il film parla dello scontro di civiltà tra USA e vecchia Europa: Ripley è circondato dai simboli del colonialismo culturale americano, dall’auto alle Marlboro, dalla birra Canada Dry al jukebox Wurlitzer. L’America porta la morte e la distruzione in Europa. I vecchi edifici sul fronte del porto di Amburgo, come la casa di Zimmermann, dovranno essere essere distrutti dal “nuovo che avanza”. Ma – anche se Wenders non poteva saperlo 30 anni fa – nemmeno i simboli dell’America sono eterni: in una delle scene iniziali a New York con l’omerico falsario cieco di Nicholas Ray compare sullo sfondo nebbioso il profilo sfumato delle torri gemelle…

Qui vi dovete accontentare del trailer:

Should I Stay or Should I Go? Stay Just a Little Bit Longer

Le mini-commedie musicali di Boris Limpopo (dedicata a Irena Križman e Carlo Massarini).

(Giusto per curiosità: Stay di Jackson Browne è una cover di Maurice Williams & Zodiac)

Pubblicato su Musica. 1 Comment »

24 ottobre 1917 – Caporetto

Una sconfitta diventata proverbiale, una vera catastrofe, ebbe inizio 90 anni fa. Poche ovviamente le celebrazioni.

In due anni e mezzo di guerra di trincea sull’Isonzo, in ben 11 battaglie, l’esercito italiano aveva portato allo stremo quello austro-ungarico. Rompere la morsa era essenziale, pena la sconfitta: gli austriaci tentarono un disperato sfondamento. Il comando italiano era consapevole dei rischi, ma diviso sul che fare (vedete che i vizi nazionali sono profondamente radicati!): il generale Cadorna, comandante supremo, intendeva affrontare gli austriaci trincerandosi nelle migliori condizioni possibili; il comandante della seconda armata, Generale Capello, riteneva invece che in caso d’attacco occorresse lanciare subito una controffensiva strategica; Badoglio (sì, quello che divenne Capo del governo dopo il 25 luglio 1943 e dichiarò per radio “la guerra continua a fianco dell’alleato germanico”), che comandava l’artiglieria, non diede l’ordine di aprire il fuoco; quando un ufficiale ceco riferì (il 20 ottobre) che gli austro-ungarici e i tedeschi si apprestavano ad attaccare, l’intelligence italiana non gli prestò fede; il grosso delle truppe italiane era collocato sulle prime linee, soggetto ai colpi dell’artiglieria nemica, mentre la seconda linea era sguarnita e in pessime condizioni; gli Stati maggiori, vista la malaparata, si ritirarono al sicuro, lasciando le truppe senz’ordini ad affrontare la ritirata. Insomma, una fiera dell’incompetenza e dello scaricabarile.

L’attacco di sorpresa, preceduto da massicci bombardamenti e dall’uso del gas, riuscì. Già la sera del primo giorno la prima e la seconda linea italiana erano travolte. Nella battaglia si distinse anche un giovane Erwin Rommel. Alla fine del terzo giorno la battaglia era persa e il fronte italiano annientato. Gli austriaci, però, non riuscirono a chiudere le colonne italiane in ritirata in una sacca. Il fronte si attestò sul Piave e sul monte Grappa, ma la sconfitta comportò anche l’arretramento del fronte alpino settentrionale.

Il prezzo fu altissimo: la disfatta costò agli italiani 11.000 morti, 19.000 feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 fra disertori e sbandati, 3.200 cannoni, 1.700 bombarde, 3.000 mitragliatrici, 300.000 fucili.

Ho un ricordo personale collegato a Caporetto. Negli anni ’60, un gesuita, padre Costantino Castellarin, mi raccontò di essere stato tra i profughi civili, bambino di un anno (era nato a Provesano, in provincia di Pordenone, il 5 ottobre 1916), e mi fece vedere una vecchia fotografia in cui era ritratto durante la fuga. Se non ricordo male, l’immagine che mi aveva mostrato è quella che vedete qui sotto.

Ma chi ha detto che non c’è – Gianfranco Manfredi

Per la serie canzoni che (temo) piacciono soltanto a me – 2° della serie.

Sta nel fondo dei tuoi occhi
Sulla punta delle labbra,
sta nel corpo risvegliato
nella fine del peccato
Nella curva dei tuoi fianchi
Nel calore del tuo seno
Nel profondo del tuo ventre
Nell’attendere il mattino.
Sta nel sogno realizzato,
sta nel mitra lucidato.
Nella gioia e nella rabbia,
nel distruggere la gabbia
Nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro
Nella fabbrica deserta, nella casa senza porta
Sta nell’immaginazione, nella musica sull’erba,
sta nella provocazione, nel lavoro della talpa,
nella storia del futuro , nel presente senza storia,
nei momenti di ubriachezza, negli istanti di memoria.
Sta nel nero della pelle, nella festa collettiva,
sta nel prendersi la merce,
sta nel prendersi la mano, nel tirare i sampietrini,
nell’incendio di Milano,
nelle spranghe sui fascisti nelle pietre sui gipponi
Sta nei sogni dei teppisti
e nei giochi dei bambini,
nel conoscersi del corpo,
nell’orgasmo della mente,
nella voglia piu’ totale,
nel discorso trasparente.
Ma chi ha detto che non c’e’.
Sta nel fondo dei tuoi occhi
Ma chi ha detto che non c’e’.

Sulla punta delle labbra
Ma chi ha detto che non c’e’.
Sta nel mitra lucidato.

Ma chi ha detto che non c’e’.
Nella fine dello Stato
C’e’, si’ c’e’
Ma chi ha detto che non c’e’. 

La squadra 8 (13)

In una puntata notevole, La squadra torna con grande saggezza e tolleranza sul tema dell’omosessualità.

A Battiston, come al solito, il compito di essere il portatore dei pregiudizi. Lo mette a posto, aggressiva e dolcissima, Laura Rotunno: “A volte le persone sono diverse da quello che ci sembrano. Il difficile è accettarlo”.

Capestrano

Oggi mi è caduto l’occhio sul calendario: S. Giovanni da Capestrano. In realtà, lo sapevo già, perché è anche il compleanno di una cara amica di 20 anni fa, ormai persa di vista, ma anch’ella abruzzese come il comune di Capestrano.

Nato il 24 giugno 1386 da padre tedesco e madre locale, ebbe una vita da santo medievale abbastanza standard: da bambino mangiava la zuppa in una pietra concava che tuttora si conserva. Da giovane fu messaggero di pace presso i Malatesta (missione mondana e non religiosa). I Malatesta, alla faccia del detto “ambasciator non porta pena”, lo imprigionarono, in piedi incatenato alla vita e con i piedi a mollo. Dopo 3 giorni a pane e acqua, Giovanni ebbe le visioni: S. Francesco. Riscattato al prezzo di 400 ducati, tornò a Capestrano, diede il benservito alla giovane moglie (non aveva consumato il matrimonio) e si fece frate francescano. Instancabile costruttore di nuovi conventi, nel 1451 (a 65 anni) decise di darsi alle crociate: combatté e sconfisse i turchi a Belgrado (22 luglio 1456), ma contrasse la peste (6 agosto) e ne morì (23 ottobre 1456). Non il mio tipo di santo.

Capestrano è molto più famosa per il famoso guerriero: statuetta italica scoperta per caso nel 1934:

La statua fu rinvenuta da Michele Castagna in località “Cinericcio” (da cenere, quasi a indicare un luogo di sepoltura). Il guerriero è alto cm 209 senza la base, ha un curioso copricapo piatto (con ampie tese e sormontato da un cimiero), porta una maschera sul volto e ha le braccia ripiegate sul ventre secondo un rituale che si ritrova spesso in figure di corredi tombali di epoca italica. Sul petto e sulla schiena sono visibili due dischi a protezione del cuore (kardiophylax); tra le braccia stringe un’ascia e una spada, sulla cui impugnatura sono incise figure umane e di animali. La statua è sorretta da due pilastrini, sui quali sono incise due lance: uno di essi presenta un’enigmatica iscrizione di tipo osco-umbro arcaico, “MA KUPRI KORAM OPSUT ANANIS RAKI NEVII” – il cui significato potrebbe essere, secondo Fulvio Giustizia: “me bell’immagine fece Ananis per il re Nevio pomp[uled]io. Accanto alla statua, risalente alla fine del VI secolo a. C., fu rinvenuto un busto di donna graziosamente adorna di monili raffigurante, probabilmente, la sua compagna in vita. Ora entrambe le statue sono esposte al Museo Archeologico Nazionale di Chieti. La leggenda racconta che appena trovata, la statua fu oggetto di burla da parte dei cittadini e fu chiamata confidenzialmente, “MAMMOCCE” (fantoccio) e tale soprannome fu dato anche al suo scopritore.

A me è sempre rimasto un dubbio: Capestrano si chiamava così anche prima della scoperta del guerriero con il capo strano. Perché?

E, già che ci siete, che cos’era un frattale prima di Mandelbrot?