Le vite degli altri (Das Leben der Anderen), 2006, di Florian Henckel von Donnersmarck, con Martina Gedeck e Ulrich Mühe.
Opera prima sorprendente di un giovane regista (è nato il 2 maggio 1973) di grandissimo talento. Bravissimi gli attori. Meticolosa la ricostruzione.
Non è un film storico o di denuncia sulle malefatte della Stasi (Ministerium für Staatssicherheit), ma sull’animo umano, sulla sua complessità, sulla diversità delle risposte alle situazioni di stress. Senza nessuna fuga nelle retoriche del mistico o dell’ineffabile, ma con un sano eppure poeticissimo sguardo naturalistico (rivelatrice la scena in cui l’inquisitore Gerd Wiesler, capitano della Stasi, insegna ai suoi studenti a conservare l’odore degli accusati, raccolto dal cuscino della sedia su cui sono stati interrogati).
Pochi, in realtà, i riferimenti direttamente politici. Dove ci sono, sono riferiti allo iato, proposto come incolmabile, e anzi antagonistico, tra “volontà politica” (la metto tra virgolette perché la intendo in senso schopenhaueriano – volontà di potenza– e craxiano – quando c’è la volontà politica tutto è possibile) e arte (Georg Dreyman: “Penso a ciò che ha detto Lenin sull’Appassionata di Beethoven: ‘Non devo ascoltarla o non terminerò la rivoluzione’. Ma come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo?”).
Ma il film è politico lo stesso, fortemente politico, e direttamente rivolto all’oggi. Il muro di Berlino è caduto da quasi 20 anni, ma il muro per cui il talento (o la competenza, o la capacità professionale) sono condizione a volte necessaria, ma mai sufficiente per realizzarsi nel lavoro è tuttora in piedi. Alcuni lo chiamano “poteri forti”, altri “arroganza del potere”, ma il muro è lì, ben saldo, e ognuno di noi lo sperimenta quotidianamente sul proprio luogo di lavoro (ammesso che ce l’abbia, un lavoro). Il potere con il suo codazzo di mediocri vopos…
Georg Dreyman: Christa-Maria, tu sei una grande attrice. Io lo so. E anche il tuo pubblico lo sa. Non hai bisogno di lui. E non hai bisogno di quelle pillole. Resta qui, non andare.
Christa-Maria: Davvero?! Non ho bisogno di lui? Non ho bisogno dell’appoggio del sistema? E tu?! Anche tu ne puoi fare a meno, o non puoi in realtà? È come se andassi a letto con loro anche tu. Perché lo fai? Perché sai che possono distruggerti! Malgrado il tuo talento, al minimo dubbio che hanno su di te. Perché loro decidono quale lavoro può andare in scena, chi può recitarci e chi può dirigerlo. Tu non vuoi finire [morto suicida] come Jerska. E nemmeno io, perciò adesso vado.
Un secondo aspetto affascinante del film è la complessità dei personaggi. Il dominio incontrastato della cinematografia di Hollywood ci ha abituato alla semplificazione assoluta delle scelte morali: vediamo ormai soltanto favolette da bambini, in cui i buoni sono buonissimi e i cattivi veramente cattivi. Film in bianco e nero, nonostante tutti gli effetti speciali. In questo film, come nella vita (la nostra e quella degli altri) le persone sono complesse, nessuno è del tutto buono e neppure del tutto spregevole. Tutti sbagliano, anche drammaticamente, e però cambiano. Anche in questo è un film profondamente europeo, tedesco e schopenhaueriano (“l’amore è compassione”): per cambiare è necessario entrare nelle vite degli altri. La contraddizione della spia perfetta (Le Carrè!) è che non basta osservare e ascoltare, ma è necessario partecipare fino a immedesimarsi; ma una volta che ti sei messo nei panni degli altri ti fai carico anche delle loro speranze e dei loro dolori…
L’ultima notazione è più professionale, e scaturisce dall’incipit dell’articolo di Dreyman per lo Spiegel:
L’ufficio di Stato per la statistica di Hans-Beimler-Straβe calcola tutto, sa tutto. Quante paia di scarpe compro in un anno: 2,3. Quanti libri leggo in un anno: 3,2. Quanti studenti conseguono la maturità con il massimo dei voti: 6,347. Ma una statistica non viene più raccolta, forse perché provoca dolore persino negli imbratta-carte, ed è quella sul tasso di suicidi…
Alla statistica ufficiale – i cui principi fondamentali sono sanciti dall’ONU – si chiede di essere veritiera, cioè di rappresentare fedelmente, anche se in forma sintetica, la realtà. Ma si chiede anche di essere esaustiva, cioè di rappresentare tutti gli aspetti della realtà che sono utili a informare i cittadini?
Il punto non è irrilevante né capzioso. Non solo perché (come sa bene chi, come me, è stato alunno dei gesuiti) una cosa è mentire; altra tacere una verità. Ma anche perché, più sostanzialmente, in presenza di risorse limitate, rappresentare o meno statisticamente un fenomeno è anche una scelta sottoposta a criteri di economicità, cioè a una valutazione dei costi e dei benefici della produzione di dati statistici su un determinato fenomeno. Nei paesi democratici, a differenza che nella DDR, il programma delle rilevazioni statistiche è (quanto meno formalmente) deciso nell’ambito della rappresentanza politica dei cittadini (governo e parlamento). Ma ci sono molti modi per nascondere l’informazione (non solo statistica): uno è tacerla, come avveniva nella DDR del 1984, l’altra è occultarla sotto il “rumore” dell’informazione irrilevante e di cattiva qualità…