Lazzaro felice

Lazzaro felice, 2018, di Alice Rohrwacher, con Alba Rohrwacher, David Bennent, Sergi López.

Lazzaro felice (2018)
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Film strampalato e autocompiaciuto, che non mi è garbato per niente.

Favoletta balorda, il cui messaggio è “meglio il medioevo artificiosamente mantenuto da una nobildonna cattiva (la matrigna di Biancaneve) a danno di una bizzarra famiglia contadina allargata (i sette nani) che l’emarginazione urbana dei giorni nostri (in cui i cattivi sono – e te pareva! – le banche)”.

Al posto di Biancaneve c’è Lazzaro del titolo, l’ultimo dei contadini, sempre pronto a dare una mano a tutti e a farsi carico dei lavori più gravosi, un sempliciotto che (per fare onore al nome, suppongo) resuscita, una, forse due volte. Forse è anche immortale. Forse è un dio minore. Forse un personaggio del folklore, come lo stolto in cristo della tradizione russa (penso al Boris Godunov di Puškin e di Musorgskij), cui l’impertinente Salomon Volkov equipara lo stesso Šostakovič («Gli jurodivye erano noti per il loro modo di parlare bofonchiando, le frasi corte, nervose, balbettanti, con parole ripetute. Nel Boris Godunov di Puškin, il folle santo insiste: “Dammi, dammi un copeco”. In questo c’era tutto Šostakovič: chiunque gli avesse mai parlato conosceva il suo modo di “impigliarsi” in una parola o in una frase, ripetendola più volte. Gli psicologi hanno notato che questo è caratteristico della creatività dei bambini, confronto che si addice a Šostakovič». Volkov, Salomon. Stalin e Šostakovič. Lo straordinario rapporto tra il feroce dittatore e il grande musicista. Milano: Garzanti. 2006. Le incertezze, le ripetizioni e i balbettii di Šostakovič sono ben rappresentati in Europe Central).

Lazzaro richiama anche piuttosto esplicitamente (il film è pieno di omaggi e citazioni, a proposito e sproposito) il Totò il buono protagonista di Miracolo a Milano. Ma, secondo me, Cesare Zavattini si rivolta nella sua tomba nell’amata Luzzara.

La cosa migliore del film sono i fantastici paesaggi della Tuscia.

Antonio Scurati – M Il figlio del secolo

Scurati, Antonio (2018). M Il figlio del secolo. Milano: Bompiani. ISBN: 9788858780268. Pagine 747. 14,99 €.

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Nella versione digitale di Kindle sviluppa 747 pagine: un romanzo jumbo, quindi. Per di più, sulla sua pagina di amazon.it c’è un inquietante sottotitolo: “Il romanzo di Mussolini Vol. 1”. Dobbiamo quindi aspettarci una seconda e forse una terza puntata? e magari un prequel, per gli anni prima del 1919 (di quel 23 marzo 1919, data della fondazione dei fasci di combattimento, di cui domani ricorre il centenario), quando il romanzo comincia? Non so se sarò dei vostri, per quanto posseduto dal demone del completismo (il Vocabolario Treccani registra il neologismo “completista” nel 2008, definendolo come “chi affronta ciò di cui si occupa in modo completo, non parziale” e per estensione, aggiungo io, chi quando ha cominciato a leggere un insieme di romanzi o a seguire una serie televisiva è incapace di smettere: un esempio della mia sindrome la trovate qui, per esempio).

Di Scurati ho letto soltanto due romanzi: Il rumore sordo della battaglia (che non mi aveva convinto) e Una storia romantica, che invece mi era piaciuto molto (e che ho recensito qui).

Questo M Il figlio del secolo ha in comune con Una storia romantica il carattere post-moderno: Scurati si produce in una mimesi quasi perfetta del linguaggio giornalistico e letterario dell’epoca dei fatti (come direbbe Guccini), un pastiche (vero o simulato, non lo so) che rende difficile distinguere la penna di Scurati dai documenti (tratti dalla stampa, dai rapporti di polizia, da lettere e documenti) che fanno da contrappunto ai capitoli.

D’altronde, le intenzioni dell’autore sono apertamente dichiarate fin dall’inizio:

Fatti e personaggi di questo romanzo documentario non sono frutto della fantasia dell’autore. Al contrario, ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da più di una fonte. Detto ciò, resta pur vero che la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non arbitraria, però. (pos. 35)

Leggendo il romanzo non si può evitare una domanda (oltre a quella cui tenta di rispondere chiunque legga un romanzo, soprattutto se poi ha la pretesa di recensirlo: è un romanzo riuscito?): potrebbe succedere di nuovo? la resistibile ascesa del signor M poteva essere contrastata? quali interessi e potentati l’hanno favorita? dove e come hanno sbagliato i suoi oppositori?

Penso che sia una domanda lecita, anzi doverosa. Non ho letto se non un paio di recensioni, e per di più fuggevolmente e di sbieco, ma mi pare che se la pongano tutti. La risposta non può essere univoca, comprensibilmente. Ma a me restano due impressioni: la prima, è che Mussolini fosse un mediocre, ma un mediocre astuto, con fiuto da vendere, con una grande dose di opportunismo. Proprio questo, la capacità di non legarsi a nessuna ideologia e a nessun obiettivo imprescindibile (nonostante la roboante retorica) ne ha favorito l’ascesa, l’ha fatto sentire a molti “uno di noi”, un figlio del popolo oltre che un figlio del secolo. Un “noi” più vicino al “corpaccione” di cui ha scritto così efficacemente Giuseppe De Rita (anche se in quegli anni era un corpaccione piccolo-borghese con aspirazioni di promozione sociale, e non un “ceto medio” in senso contemporaneo) che alle divisioni di classe, che pure c’erano, e ben forti. D’accordo, da un certo punto in poi il nascente fascismo ha avuto il sostegno economico e propagandistico del blocco agrario e industriale. Certo, hanno fatto molto la voglia di ordine (law and order, ma senza rule of law, secondo le peggiori tradizioni italiane) dopo il biennio rosso e la paura dell’avvento del socialismo o della rivoluzione bolscevica. Ma il dubbio più angosciante – con gli occhi rivolti al presente – resta questo: come ha fatto la sinistra di allora, che pure aveva vinto le elezioni (democraticamente, secondo il metro di quello che era la democrazia imperfetta di allora) ha perdere il potere, a partire dalle zone in cui era apparentemente più forte? sono sufficienti le violenze squadristiche a spiegarlo? e perché le violenze squadristiche non hanno suscitato nessuna reazione efficace da parte di coloro che non erano né fascisti, né parte del blocco agrario e industriale, né convinti socialisti? merito delle propaganda (che però non aveva né i mezzi né gli strumenti né la capacità di penetrazione universale che ha ora)? responsabilità della stampa (praticamente l’unico mezzo di comunicazione di massa del tempo)? insipienza e complicità della politica (o più precisamente dei partiti e delle itituzioni)?

Non ho tutte le risposte, e le poche che ho me le tengo per me. Ma – dite quello che volete – ci sono delle rassomiglianze con la situazione attuale che fanno venire i brividi. Ne scrive a lungo – dovrete avere la pazienza di leggerlo tutto – l’articolo di Adriano Sofri pubblicato su Il Foglio l’8 ottobre 2018, “L’ombra del Ventennio“. Ne cito un passo che, secondo me, aiuta a capire come ci fosse allora, e ci sia ora, un capovolgimento di prospettiva che inquieta:

Se il fascismo, nonostante la pretesa totalitaria, fosse attraversato da contraddizioni, renitenze di corpi rivali e sopravvivenze “liberali”. O se il fascismo, nonostante contraddizioni renitenze e sopravvivenze fosse un regime totalitario. Ecco una citazione di Melis da un’intervista sul suo libro: “Lungi dall’essere marmoreo e impenetrabile [lo Stato fascista] era invece poroso; e nei suoi pori, dentro i singoli istituti, si manifestavano gli interessi (economici, sociali, collettivi ma anche spesso individuali). In ciò lo Stato fascista, pure dittatoriale e persecutorio verso le libertà, non differiva molto dagli Stati del suo tempo, anche dalle democrazie”. Non vi viene voglia di un ritorno brechtiano? “In ciò lo Stato fascista, pur non differendo molto dagli Stati del suo tempo, anche dalle democrazie, era dittatoriale e persecutorio verso le libertà”?

Impiego questo termine, totalitario, consapevole di una sua peculiare ambiguità e anzi proprio per questo. L’ambiguità è costitutiva e paradossale se si ricordi che l’aggettivo totalitario, arrivato a noi sulla scia della riflessione sull’orrore in cui precipitò in Europa la prima metà del secolo scorso, era pronunciato dai fascisti nella più positiva delle accezioni: il totalitarismo era ciò cui la rivoluzione fascista aspirava. In quella nozione c’era soprattutto il sequestro della persona e la sua consegna al corpo sociale disciplinato e al suo capo, la politica “totale”. Succede così anche con la parola Dittatura – qui non erano solo i fascismi a vedervi un riparo alla democrazia, ma il comunismo sentiva il bisogno di fare titolare della dittatura il proletariato. Succede così anche con le parole Razzismo, Razzista. Parole sacre, obbligate al gergo fascista. Il razzismo “totale” era la meta cui tendere. Venuti dopo Auschwitz (molto dopo, pensa con fastidio qualcuno) noi stiamo attenti a dire “Non sono razzista, ma…” (ancora per un poco, almeno). I pochissimi buonisti di allora – “pietisti”, li chiamavano, con lo stesso disprezzo di oggi – che ottant’anni fa si attentassero ad attenuare la persecuzione di un ebreo – anche il più illustre, il più patriottico, il più fascista perfino – doveva esordire dicendo: “Sono razzista, ma…”. Si teme un abuso del sospetto o dell’accusa di razzismo, oggi. Allora si accusava spietatamente qualcuno insinuando: “Non è razzista!”

Quanto alla seconda domanda d’obbligo, se si tratti di un romanzo riuscito, temo di dover rispondere negativamente. Non solo per la sua lunghezza (e mi vengono i brividi pensando alle altre due puntate), ma proprio per il modo in cui è scritto. Se il nostro gusto si è evoluto rispetto a una scrittura roboante e involuta ci sarà ben un motivo: la retorica da comunicato del capo di stato maggiore (“i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”) ci fa venire l’orticaria, per un eccesso di esposizione fin dalle scuole elementari, che ci ha iper-sensibilizzato. Scurati ha fatto una scelta, legittima, che non discuto. Ma costringe il lettore a una fatica che non trova sempre, anzi che trova raramente una ricompensa. Lo stesso vale per il ripetersi di alcune situazioni. Non penso tanto al racconto delle azioni (“efferate”, va da sé) delle squadracce fasciste, che rispondono alla logica di narrare un’escalation, forse resistibile, quanto al ripetersi delle squallide avventure erotiche del nostro M.

***

Ecco come al solito alcune citazioni dal testo. Come vedrete, Scurati avrebbe potuto scrivere un po’ di meno, e curare stile e scrittura un po’ di più. In questo almeno, nella polemica che ha contrapposto Ernesto Galli Della Loggia a Scurati – di cui potete leggere qui la risposta – la critica del primo non è infondata. Per di più, Scurati ha il vezzo, irritante, di scrivere nelle date gli anni per esteso (“millenovecentosedici” invece di “1916”, e questo in un romanzo di 838 pagine nell’edizione a stampa, e per di più pubblicato da Bompiani. Per chi non lo sapesse Valentino Bompiani, per risparmiare pagine carta e inchiostro nel suo Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, aveva sostituito “ò” a “ho” e così via (“Sarà forse un’altra leggenda – ma porta il copyright di Valentino – il risparmio di un centinaio di pagine dovuto alla soppressione dell’acca nelle forme composte del verbo avere e la sua sostituzione con un accento («ò detto e «à fatto», si legge ancora oggi nei preziosi volumi datati 1987)”. Ajello, Nello. “Il dizionario dei romanzi“. la Repubblica. 27 dicembre 2004)

Loro non promettono niente e manterranno la promessa. (pos. 839)

Io ardisco non ordisco. (pos. 852: D’Annunzio, naturalmente)

Si chiama Ulisse Igliori, sottotenente della fanteria, mutilato della Grande guerra, internato per dieci mesi a Mauthausen, decorato con medaglia d’oro al valore per l’eroismo dimostrato il 16 maggio millenovecentosedici nell’assalto alle postazioni austriache di monte Maronia dove i nemici lo raccolsero smembrato ma ancora vivo sopra un mucchio di cadaveri sanguinanti. L’eroe monco, futuro fondatore dell’A.S. Roma […] (pos. 1296: sapevàtelo!)

Se lo potrò, verrò a Tabiano. (pos. 2296: giusto perché a Tabiano da bambino ci sono andato per anni, alle terme, per fare le inalazioni con l’acqua termale)

[…] lottando contro i campi […] (pos. 2485: bel refuso, erano crampi…)

[…] giorno di San Michele, protettore di porte e rocche. (pos. 3097)

[…] esplosivo requisito in delle cassette per la frutta. (pos. 3027: corsivo mio. Questo non è un refuso, temo, ma scrittura sciatta)

Qualcuno vocifera che quando una bomba esplode nella folla, chiunque l’abbia armata, chiunque ne sia stato falciato, l’ultima vittima è sempre la sinistra proletaria. (pos. 4262)

Gli obiettivi sono sempre gli stessi, l’odio è quasi sempre privo di fantasia. (pos. 4548)

Siamo umani e nulla di ciò che è umano ci è estraneo. (pos. 4952: citazione da un discorso di M, che evidentemente conosceva il suo Heautontimorùmenos)

[…] la muta latrante dei cani della guerra. (pos. 4965)

Spesso penso al passato come a una terra straniera. (pos. 5525: Scurati si diverte con le citazioni, peraltro attribuendole a M)

Per Giacomo Matteotti e Velia Titta, sua moglie, la lontananza è come il vento. Spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi. (pos. 5582: il gioco sta diventando stucchevole)

L’hanno portata al mare, a Salsomaggiore […] (pos. 5824: questa poi, Salsomaggiore al mare?)

Lo ha scritto in un messaggio riservato a Mussolini da Ginevra anche Vilfredo Pareto, il grande studioso: “O ora o mai più.” (pos. 6170)

È una bella serata estiva, l’auto sportiva sfreccia sui cubetti di porfido del pavé di Milano e la vita è meravigliosa. (pos. 6192: corsivo mio. Sono lastroni rettangolari, come sa chi a Milano ci sia anche solo passto. E dire che Scurati ci vive e abita dai tempi dell’università, come racconta qui)

“Ora o mai più.” Glie lo ha scritto in una lettera riservata anche il grande Pareto da Ginevra. Poi, però, l’insigne studioso ha anche aggiunto: “Gli italiani amano le grandi parole e i fatti piccoli.” (pos. 6382: ma non ce l’aveva già detto poche pagine prima?)

Peter Galison – Einstein’s Clocks, Poincare’s Maps: Empires of Time

Galison, Peter (2003). Einstein’s Clocks, Poincare’s Maps: Empires of Time. New York: W. W. Norton. ISBN: 9780393243864. Pagine 400. 10,76 €.

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Forse perché non ho mai amato particolarmente la fisica, negletta nel mio sconfinato amore per le scienze, ho fatto fatica, soprattutto all’inizio.

Naturalmente sapevo chi è Einstein anche prima di leggere questo libro: ho anche letto a suo tempo la sua esposizione divulgativa La relatività nella brutta edizione Newton Compton (a mia discolpa: ero un liceale squattrinato) e mi sembrava addirittura di averla compresa. Di Poincaré avevo una conoscenza che dire vaga è poco: francese, certo; ottocentesco (e qui già mi sbagliavo almano un po’, perché era vivo quando Einstein aveva pubblicato il suo famoso articolo del 1905 e aveva fatto in tempo a discuterne); ma quale contributo aveva dato alla matematica e alla fisica? Non facile, la risposta a quest’ultima domanda, perché Poincaré era uomo dal multiforme ingegno e, tra l’altro, benissimo introdotto anche nelle vicende di “politica della scienza” e politica tout court che riguardavano il suo paese, la Francia.

Insomma, certamente per i miei limiti, ma forse anche per il modo in cui Galison affronta il suo tema, all’inizio non capivo bene dove l’autore volesse andare a parare. È vero che nel capitolo iniziale – intitolato Synchrony – si afferma:

This book is about that clock-coordinating procedure. Simple as it seems, our subject, the coordination of clocks, is at once lofty abstraction and industrial concreteness. (p. 13)

Questa affermazione, per quanto netta, a me ha confuso piuttosto che orientare. Anche perché i capitoli successivi procedono secondo una logica che diventa chiara soltanto al procedere della lettura.

Siamo abituati, nella vita quotidiana di oggi, a dare per scontata la misurazione del tempo. Ho abbastanza anni per ricordare che l’orologio della prima comunione era un (elegantissimo e piatto) orologio meccanico: un capolavoro di ingegneria miniaturizzata. Ma ricordo che mi dissero che era un buon orologio, perché “perdeva” (o “guadagnava”, non ricordo) un minuto ogni due o tre giorni. Sul quadrante c’era scritto qualche cosa come “15 rubini”, e mio padre mi aveva spiegato che si trattava di veri rubini, ancorché minuscoli, con la funzione di perni per minimizzare l’attrito e migliorare la precisione meccanica.

Qualche anno dopo arrivò il Bulova Accutron: ce l’avevano alcuni miei compagni (ricchi) delle medie. L’Accutron sostituiva il bilanciere con un diapason, con due vantaggi che concorrevano a diminuire le fonti d’errore meccanico: spariva il movimento meccanico oscillatorio del bilanciere (un elemento di errore meccanico in meno), e la frequenza della vibrazione che governava le lancette era molto più elevata (360 Hz invece di 5-10). 360 Hz è una frequenza udibile: se consideriamo l’accordatura standard, in cui il la centrale (la4) è accordato a 440 Hz, stiamo parlando di una nota di poco sotto al fa#4. Insomma, se ti addormentavi con un Accutron al polso sotto l’orecchio, ti svegliavi un po’ rintronato – almeno così dicevamo dei fortunati compagni di scuola che ce l’avevano (questo non mi impedisce di averne sempre desiderato uno, e di desiderarlo ancora adesso). Naturalmente, era anche il primo orologio elettronico: serviva una batteria, che durava circa un anno, per far vibrare il diapason. Diapason e bobine erano visibili sul quadrante. Era un gioiello d’ingegneria, molto più preciso anche dei migliori cronografi meccanici: circa un minuto al mese.

Qualche anno dopo – ma andavo ancora al liceo – lessi che un cristallo di quarzo, grazie alle sue caratteristiche piezolettriche (sottoposto a compressione meccanica produce una differenza di potenziale; e viceversa, sottoposto a tensione elettrica si deforma meccnicamente), avrebbe sostituito il diapason, vibrando a una frequenza molto maggiore (tipicamente, 32.768 Hz, circa 100 volte più del diapason dell’Accutron e inudibile all’orecchio umano) e raggiungendo una precisione molto più elavata (assoluta, diceva l’articolo, esagerando). Ne ero affascinato. Poco prima di natale del 1969 (pochi mesi dopo lo sbarco di Armstrong sulla luna) una casa giapponese a me sconosciuta, la Seiko, lanciò il
di modello 35 SQ Astron: vantava una precisione di 5 secondi al mese e costava una fortuna (450.000 yen, pari a 1.250 dollari dell’epoca: come una Toyota Corolla di allora, secondo Wikipedia). Era un orologio panciuto, molto più dei cronografi svizzeri, e funzionava male: dopo 100 esemplari, la Seiko smise di produrlo.

Ma in pochi anni arrivano gli orologi al quarzo (in realtà adesso si usa la ceramica) con cassa di plastica e display digitale (a LED prima, e a cristalli liquidi poi): nel 1975, la Texas Instruments ne vendeva uno a 20 dollari. Furono accolti con incredibile entusiasmo, e non solo da me. Per un po’ si pensò che avrebbero condannato all’estinzione gli orologi analogici e al fallimento le prestigiose case svizzere. Nulla di tutto questo, anche se i ragazzi oggi non sanno più leggere il quadrante tradizionale e, se è per quello, non usano più l’orologoio ma leggono l’ora sul cellulare. Douglas Adams prende in giro questa mania in una pagina famosa di The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy.

Far out in the uncharted backwaters of the unfashionable end of the Western Spiral arm of the Galaxy lies a small unregarded yellow sun. Orbiting this at a distance of roughly ninety-eight million miles is an utterly insignificant little blue-green planet whose ape-descended life forms are so amazingly primitive that they still think digital watches are a pretty neat idea. […]
This planet has – or rather had – a problem, which was this: most of the people living on it were unhappy for pretty much of the time. Many solutions were suggested for this problem, but most of these were largely concerned with the movement of small green pieces of paper, which was odd because on the whole it wasn’t the small green pieces of paper that were unhappy.
And so the problem remained; lots of people were mean, and most of them were miserable, even the ones with digital watches.

Ho divagato, tanto per cambiare. Quello su cui volevo attirare l’attenzione è che diamo ormai per scontata la misurazione del tempo e la sincronia. Da questo dipendono un sacco di altre cose che diamo per scontate: dal navigatore GPS al web, allo stesso telefono. Ma questo è un fenomeno relativamente moderno.

Misurare il tempo localmente è la cosa più semplice del mondo. Quando il sole raggiunge il punto più alto della sua traiettoria apparente, quello è mezzogiorno, in quel posto (un gioco che si può fare ancora adesso, e che i miei figli ricorderanno, è quello di piantare un bastone in verticale e segnare il percorso dell’ombra: quando è al suo minimo, è il mezzogiorno locale, anche se l’orologio segna, metti, le 13:22). Se in un altro posto il mezzogiorno locale è alla stessa ora, si dice che sono sullo stesso meridiano (che si chiama appunto così perché è il luogo dei punti in cui il mezzogiorno è contemporaneo). Ma se l’ora locale in un altro posto è diversa, posso calcolare la differenza tra le longitudini dei due posti, basandomi sul fatto che la traiettoria apparente del sole ci mette 24 ore a tornare al punto di partenza. Se la differenza è (supponiamo) di 3 ore, i due posti hanno una differenza di longitudine di 45°. Ma come faccio a sapere che ora è in un altro posto, distante dal mio? È il tema di un altro bel libro – Longitude di Dava Sobel – che ho letto qualche anno fa: se andate all’osservatorio di Greenwich potete ammirare gli orologi realizzati da John Harrison per risolvere il problema di determinare la longitudine delle navi in mare, e in particolare il modello “tascabile”, di soli 12 cm, costruito con matriali in grado di risolvere i problemi dell’ossidazione e dei movimenti dell’imbarcazione, diventati famosi anche per i non addetti ai lavori proprio grazie a quel libro. L’idea di Harrison era che se regolo l’orologio, alla partenza, sull’ora di Liverpool e lo mantengo preciso, quando sono in mare posso calcaolare il mezzogiorno locale con la strumentazione ottica di bordo e tradurre lo scarto tra mezzogiorno locale e ora di Liverpool in gradi di longitudine.

Va bene, direte voi: dato che la realizzazione di Harrison è del 1753, che problema ci poteva essere nella seconda metà dell’Ottocento? Tanto per comiciare, gli orologi, nonostante i perfezionamenti, non erano abbastanza precisi. E le misurazioni a bordo, su una tolda che rulla e beccheggia, erano tutt’altro che agevoli. Galison cita, per tutti, il tentativo fatto nell’estate del 1849 per misurare la distanza tra Liverpool e Cambridge nel Massachussets: sette viaggi nei due versi, ognuno con 12 cronometri a bordo. Di nuovo nel 1851, sette viaggi in un verso e due nell’altro, 37 cronometri, 93 misurazioni: niente da fare. Con i tentativi di misurazione astronomica, una strategia iniziata ancora prima di Harrison, non andò meglio.

Al problema tecnico se ne aggiungeva uno pratico: con i mezzi di comunicazione dell’epoca, era ritenuto più importante conoscere l’effettivo mezzogiorno locale che sincronizzarsi su un’ora regionale o nazionale.

Ma poi arrivano i treni. All’inizio il problema della sincronizzazione non si pone: comanda il tempo della stazione principale. Quello di Parigi per la linea Parigi-Brest, quello di New York per la New York-Hartford. Nelle stazioni si avevano almeno due ore diverse (quella locale e quello del terminale della linea). Al moltiplicarsi delle linee si moltiplicano i problemi.

E poi arriva il telegrafo: ma con il nuovo problema arriva una speranza di soluzione: si possono sincronizzare le ore trasmettendo un segnale tra due luoghi? Forse, ma emergono due ostacoli di diversa natura.

Il primo è geopolitico; chi detta le regole? I francesi accampavano un diritto di primogenitura: nel 1791, in piena rivoluzione, l’Accademia francese delle scienze aveva definito il metro come 1/10.000.000 della distanza tra polo ed equatore misurata sul meridiano di Parigi; nel 1795 la Francia l’aveva adottato ufficialmente come misura di lunghezza e le armate napoleoniche l’avevano diffuso in punta di baionetta (non resisto a questa bella espressione). Il 20 maggio 1875 a Parigi (Poincaré c’era) 17 paesi avevano solennemente firmato la Convensione del metro e istituito l’Ufficio internazionale dei pesi e delle misure con sede a Sévres, vicino a Parigi. Ovvio che volessero anche che il meridiano 0 fosse quello di Parigi. Misero in piedi una serie di spedizioni geografico-telegrafiche per misurare le distanze da Parigi basandosi sull’ora locale, quella di Parigi e la (supposta) istantaneità della trasmissione. Ma i cavi sottomarini erano per lo più britannici, e la Francia perse alla fine la battaglia con Greenwich.

Il secondo è tecnologico e scientifico. Se è vero che per le linee aeree la velocità di propagazione dell’onda elettromagnetica è quella della luce, “per le linee in cavo la velocità è inferiore in quanto aumenta la costante dielettrica del materiale. […] Ad esempio se la costante dielettrica relativa è 4, la velocità di propagazione diventa la metà: 150.000 km/s.” (cfr. Velocità  della corrente). Quindi, la sperata simultaneità non c’è. Il tempo, alla fine, è una questione di convenzione, di convenienza. Questa è la conclusione di Poincaré e, al fondo, anche quella di Einstein, anche se i due non si compresero mai fino in fondo.

Il libro è molto più ricco del mio racconto. Ma l’ho fatta fin troppo lunga, e lascio parlare le citazioni dal testo.

To Willard Van Orman Quine, one of the most influential American philosophers of the twentieth century, all knowledge was ultimately revisable […] (p. 25)

Poincaré emphasized that there are free choices in representing the world, choices fixed not by something completely exterior, but rather fixed by the simplicity and convenience of our knowledge. (p. 77)

In a curt, insistent sentence printed in 1891, he lay down a new formulation of his view of geometric axioms: “They are conventions.” “Is Euclidean geometry true? It has no meaning. We might as well ask if the metric system is true, and if the old weights and measures are false; if Cartesian co-ordinates are true and polar co-ordinates false. One geometry cannot be more true than another; it can only be more convenient. Now, Euclidean geometry is, and will remain, the most convenient.” (p. 82)

Joseph Conrad’s version of the events in his 1907 work The Secret Agent remains the canvas on which these events have been seen: a dark sketch of dupes, manipulators, and careerists from which no one emerges unsullied. In Conrad’s world the conniving First Secretary of a Foreign Power insisted on an attack that would frighten the class enemies beyond murder: “The demonstration must be against learning—science. The attack must have all the shocking senselessness of gratuitous blasphemy.” It must strike at the mysterious scientific heart of material prosperity. “‘Yes,’ he continued with a contemptuous smile. ‘The blowing up of the first meridian is bound to raise a howl of execration.’” (p. 159)

Convenience, convention, continuity with the past. (p. 165: termini ricorrenti negli scritti di Poincaré)

Cornu insisted that it was the day, the natural unit of time, that should be decimalized—not the wholly artificial hour. If the day were the base, then a hundredth of the day would be just about a quarter of an hour, and a hundred-thousandth of a day would equal 0.86 old-style seconds. That would be a gratifying unit of time because it corresponded so closely to the typical adult heartbeat, our “natural” small temporal unit. (p. 170)

“In reality, measurable duration is a variable, chosen from among all the variables present in the study of movements, because it lends itself particularly well to the expression of simple laws of movement.” (p. 189: la citazione è di Calinon)

We choose these rules, Poincaré insisted in oft-cited words, not because they are true, but because they are convenient. (p. 190)

Objective reality was nothing other than the commonly held relationships among the phenomena of the world. There was no otherworldly plane of existence for Poincaré. The importance of scientific knowledge lay in the persistence of particular true relations, not in a back-of-the-curtain reality of Platonic forms or ungraspable noumena. (p. 212)

[…] confusing conception and perception […] (p. 238: la citazione è di Karl Pearson)

Einstein began to forge an approach to physics that emphasized principles and eschewed detailed model building. (p. 239)

Einstein: The principle is logically not necessary: it would be necessary only if it would be made such by experience. But it is made only probable by experience. (p. 268)

For Poincaré, too, principles were made probable by experience, but principles were precisely what was expedient; they could be held against the grain of experience only at the cost of immense inconvenience. (p. 268)

For Einstein, principles were more than definitions, they were pillars, supports of the structure of knowledge. And this despite the circumstance that our knowledge of principles could never be certain; our hold on them was necessarily provisional, only probable, never forced by logic or experience. (p. 268)

For all these purposes relativistic time coordination was deep in the machine. According to relativity, satellites that were orbiting the earth at 12,500 miles per hour ran their clocks slow (relative to the earth) by 7 millionths of a second per day. Even general relativity (Einstein’s theory of gravity) had to be programmed into the system. Eleven thousand miles in space, where the satellites orbited, general relativity predicted that the weaker gravitational field would leave the satellite clocks running fast (relative to the earth’s surface) by 45 millionths of a second per day. Together, these two corrections add up to a staggering correction of 38 millionths (that is, 38,000 billionths) of a second per day in a GPS system that had to be accurate to within 50 billionths of a second each day. (p. 288)

[Poincaré] was fascinated by Kant’s emphasis on structures through which experience becomes possible […] (p. 316)

True relations, not truth by itself. Visible surfaces, not obscure depths. (p. 316)

Like Poincaré, Einstein believed that laws must be simple, not for our convenience but because (as Einstein put it) “nature is the realization of the simplest conceivable mathematical ideas.” The form of the theory therefore had to exhibit in its detailed form the reality of the phenomena: “In a certain sense,” Einstein later insisted, “I hold it true that pure thought can grasp reality, as the ancients dreamed.”19 Einstein believed that a proper theory would match the phenomena in austerity. In that depth lay a contemplative theology. Not the religiosity of a personal, vengeful, or judgmental God, but a mostly hidden God of an underlying natural order: “The scientist is possessed by the sense of universal causation. The future to him is every whit as necessary and determined as the past. . . . His religious feeling takes the form of a rapturous amazement at the harmony of natural law which reveals an intelligence of such superiority.” Sometimes it was given to the physicist to advance by the provisional application of heuristic devices; these could tide the theory over until further development was possible. Such a provisional use of formal principles played a role in thermodynamics, in quantum theory, and in relativity. But Einstein insisted over and over that, insofar as they could, scientists fashioned theories that seized some bit of the underlying, simple, and harmonious natural order. Since Einstein believed that the phenomena did not distinguish true from apparent time, neither, he insisted, should the theory. (p. 318)

To find a more recent mixture of abstraction and concreteness of this kind, we can look to the mid-twentieth-century explosion of “information sciences”: cybernetics, computer science, cognitive science. (p. 321)

Distributed, coordinated precision time was more than money for Favarger, it was each person’s access to orderliness, interior and exterior—to freedom from time anarchy. (p. 323)

On the flip side was the antipositivist movement popular in the 1960s and 1970s. Thoughts structured things. Antipositivists aimed to reverse the older generation’s epistemic order; they saw programmes, paradigms, and conceptual schemes as coming first, and they held these to have completely reshaped experiments and instruments. (p. 324)

We find metaphysics in machines, and machines in metaphysics. Modernity, just in time. (p. 328)

Il colpevole – The Guilty

Il colpevole – The Guilty (The Guilty), 2018, di Gustav Möller, con Jakob Cedergren.

Jakob Cedergren in Den skyldige (2018)
imdb.com

Minimalista e claustrofobico.

Fuori dell’ordinario: non avevo mai visto un film come questo (e, anche se non tantissimi, di film ne ho visto più d’uno).

Un thriller che funziona egregiamente, anche se non si esce mai da due stanze del posto di polizia dove si risponde alle chiamate del 112. Non vi inganni il fotogramma che si vede in basso a destra della locandina qui sopra: è l’ultima inquadratura del film, Asger Holm è sulla porta e lo schermo diventa nero per i titoli di coda prima che lo spettatore sappia se esce o no.

Jakob Cedergren, un attore svedese che ho visto qui per la prima volta (ma ha al suo attivo 47 film, secondo IMDb), è straordinario. Il film si regge sulle sue emozioni, sulle sue smorfie, sul tono della sua voce, sui movimenti delle mani, soprattutto sulla sua faccia che cambia con la tensione e la stachezza e che si imperla di sudore, occupando gran parte delle inquadrature in primissimo piano.

Il secondo protagonista del film è il telefono. Anzi i due telefoni: quello a cuffia con microfono che usa per rispondere alle chiamate di lavoro e il cellulare (un incongruo modello ripiegabile stile Startac, in un film contemporaneo), che non dovrebbe usare in servizio e con cui parla con il buddy Rashid.

Degli altri attori sentiamo soltanto la voce amplificata al telefono: i titoli di coda e IMDb li elencano scrupolosamente, ma per lo spettatore italiano che vede il film doppiato è evidentemente impossibile esprimere un giudizio sensato

La vicenda alla base del thriller la apprendiamo e comprendiamo via via atttraverso il filtro delle telefonate. Anche tutto il resto, tutto quello che c’è sullo sfondo (perché Asger è al 112, che cosa lo aspetta il giorno dopo, i rapporti che Rashid e con la sua compagna, …) ci giunge ellitticamente e per accenni, attraverso le telefonate.

Al di là del thriller , protagonista del film è l’empatia. Lo dice lo stesso regista, in un’intervista di Stefan Dobroiu pubblicata il 5 giugno 2018 su Cineuropa (Gustav Möller • Regista di The Guilty – “Sono un forte sostenitore dei limiti per stimolare la creatività”)

L’empatia è sicuramente un tema forte nel film. È venuto dalla nostra ricerca, parlando con i centralinisti e gli agenti di polizia. Penso che il film affronti la questione di mantenere l’empatia quando il tuo lavoro ti richiede di essere professionale e distanziato, mentre affronti gli orrori e le tenebre della nostra società. Volevamo dare al pubblico la stessa visione del mondo del nostro protagonista Asger e, in questo modo, far sì che arrivasse alle sue stesse conclusioni.

David Reich – Who We Are and How We Got Here: Ancient DNA and the New Science of the Human Past

Reich, David (2018). Who We Are and How We Got Here: Ancient DNA and the New Science of the Human Past. New York: Pantheon Books. ISBN: 9781101870334. Pagine 335. 9,38 €.

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Questo è uno dei libri più importanti che ho letto negli ultimi dieci anni.

Purtroppo non anche uno dei più belli, perché la scrittura di David Reich a volte è un po’ faticosa. Inoltre, qui e là si perde in riflessioni etico-politiche, probabilmente necessarie, ma anche un po’ irrisolte e non del tutto convincenti. Ma andiamo con ordine: sulle implicazioni etico-politiche torneremo più avanti.

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David Reich è un genetista dedito alla ricerche sulla popolazione degli umani antichi, condotte utilizzando l’intero loro genoma (non esattamente facilissimo da recuperare) e applicando modelli statistico-matematici per studiarne le mutazioni. Con queste tecniche, lui e il suo gruppo sono stati in grado di proporre spiegazioni convincenti delle migrazioni e delle mescolanze delle diverse popolazioni, in epoca sia preistorica sia proto-storica e storica.

Il punto di partenza sono le ricerche di Luca Luigi Cavalli Sforza, morto ultra-novantaseienne nello scorso agosto. Cavalli Sforza ha scritto molti testi fondamentali, e io vi raccomando due grandi libri (Chi siamo. La storia della diversità umana, scritto insieme al figlio Francesco, pubblicato da Mondadori nel 1993 e ora riedito da Codice; e Geni, popoli e lingue, pubblicato da Adelphi nel 1996). A differenza di Reich, Cavalli Sforza aveva anche il dono della scrittura – almeno per quanto ricordo io, che questi libri li ho letti poco dopo la loro pubblicazione. Il problema è che la geniale sintesi di Cavalli Sforza, che porta a fattor comune conoscenze della genetica, della storia, dell’archeologia e della linguistica attraverso metodi statistici, necessariamente appare oggi superata sia dai progressi della genetica, sia da quelli della statistica. Quando iniziò i suoi studi, quasi sessant’anni fa, aveva a disposizione soltanto le proteine dei gruppi sanguigni; anche quando, dopo il 1990, poté contare sul codice genetico, le informazioni di cui disponeva erano limitate a pochi loci del genoma e comunque alle sole popolazioni attuali. Anche i metodi statistici utilizzati – analisi multivariate come le componenti principali e l’analisi dei gruppi – non erano sufficientemente sofisticate. Cavalli Sforza costruì un grande albero della radiazione della popolazione umana moderna (Homo sapiens) dall’Africa alle intere terre popolate, proponendo il modello della “diffusione demica”: in Europa, i primi agricoltori si sarebbero diffusi da sud-est a nord-ovest, incontrando via via popolazioni più antiche di cacciatori-raccoglitori e accumulando patrimonio genetico delle popolazioni precedenti, con cui si erano mescolati.

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Questo modello, per quanto affascinante sotto il profilo intellettuale, è stato “falsificato” dall’avvento della rivoluzione del DNA antico, ed è su quest’ultima che si fonda il lavoro di David Reich e del suo gruppo (non va dimenticato il pioniere di queste tecniche, Svante Pääbo all’Istituto Max Planck per l’antropologia evolutiva di Lipsia). La combinazione di queste tecniche – in continuo progresso – e l’applicazione di modelli statistici più raffinati di quelli utilizzati da Cavalli Sforza permettono a David Reich e al suo gruppo di ricostruire molti aspetti della storia del popolamento del pianeta e delle migrazioni umane.

***

Il libro di cui stiamo parlando è suddiviso in tre parti.

La prima tratta della storia più antica della specie umana, quella che illustra come gli umani moderni – quelli migrati dall’Africa verso il vicino Oriente (in due ondate secondo il nuovo modello, la prima circa 130.000 anni fa, testimoniata da resti rinvenuti nell’attuale Israele, e la seconda 50-60.000 anni fa) – abbiano interagito, riproducendosi, con i Neanderthal prima dell’estinzione di questi ultimi circa 39.000 anni fa. Una seconda popolazione, quella dei recentemente scoperti Denisoviani, interagisce riproduttivamente con gli umani moderni circa nello stesso periiodo (49-44.000 anni fa). Il risultato sorprendente è che tutti gli attuali umani, salvo gli africani, portano tracce di DNA neanderthaliano e denisoviano nel loro genoma.

Per chi vuole maggiori dettagli, la parola allo stesso Reich:

Part I, “The Deep History of Our Species,” describes how the human genome not only provides all the information that a fertilized human egg needs to develop, but also contains within it the history of our species. Chapter 1, “How the Genome Explains Who We Are,” argues that the genome revolution has taught us about who we are as humans not by revealing the distinctive features of our biology compared to other animals but by uncovering the history of migrations and population mixtures that formed us. Chapter 2, “Encounters with Neanderthals,” reveals how the breakthrough technology of ancient DNA provided data from Neanderthals, our big-brained cousins, and showed how they interbred with the ancestors of all modern humans living outside of Africa. The chapter also explains how genetic data can be used to prove that ancient mixture between populations occurred. Chapter 3, “Ancient DNA Opens the Floodgates,” highlights how ancient DNA can reveal features of the past that no one had anticipated, starting with the discovery of the Denisovans, a previously unknown archaic population that had not been predicted by archaeologists and that mixed with the ancestors of present-day New Guineans. The sequencing of the Denisovan genome unleashed a cavalcade of discoveries of additional archaic populations and mixtures, and demonstrated unequivocally that population mixture is central to human nature. (pos. 419 ss.)

***

La seconda parte è dedicata a periodi più recenti, e analizza un insieme vasto di studi ed evidenze che aiutano a capire l’attuale origine delle popolazioni umane in diverse parti del globo: in particolare, l’Europa, l’India, le Americhe, l’Asia e l’Africa.

Diamo ancora la parola a Reich:

Part II, “How We Got to Where We Are Today,” is about how the genome revolution and ancient DNA have transformed our understanding of our own particular lineage of modern humans, and it takes readers on a tour around the world with population mixture as a unifying theme. Chapter 4, “Humanity’s Ghosts,” introduces the idea that we can reconstruct populations that no longer exist in unmixed form based on the bits of genetic material they have left behind in present-day people. Chapter 5, “The Making of Modern Europe,” explains how Europeans today descend from three highly divergent populations, which came together over the last nine thousand years in a way that archaeologists never anticipated before ancient DNA became available. Chapter 6, “The Collision That Formed India,” explains how the formation of South Asian populations parallels that of Europeans. In both cases, a mass migration of farmers from the Near East after nine thousand years ago mixed with previously established hunter-gatherers, and then a second mass migration from the Eurasian steppe after five thousand years ago brought a different kind of ancestry and probably Indo-European languages as well. Chapter 7, “In Search of Native American Ancestors,” shows how the analysis of modern and ancient DNA has demonstrated that Native American populations prior to the arrival of Europeans derive ancestry from multiple major pulses of migration from Asia. Chapter 8, “The Genomic Origins of East Asians,” describes how much of East Asian ancestry derives from major expansions of populations from the Chinese agricultural heartland. Chapter 9, “Rejoining Africa to the Human Story,” highlights how ancient DNA studies are beginning to peel back the veil on the deep history of the African continent drawn by the great expansions of farmers in the last few thousand years that overran or mixed with previously resident populations. (pos. 430 ss.)

Il punto fondamentale – presentato nel primo capitolo di questa parte – è che il modello dell’albero di classificazione, proposto dallo stesso Darwin (“The affinities of all the beings of the same class have sometimes been represented by a great tree….The green and budding twigs may represent existing species….The limbs divided into great branches, and these into lesser and lesser branches, were themselves once, when the tree was small, budding twigs.” – Darwin, Charles R. 1859. On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life. London: John Murray), non è una metafora adeguata a rappresentare la complessità delle dinamiche storiche delle popolazioni e le relazioni tra le popolazioni umane contemporanee. La metafora dell’albero, infatti, implica che le popolazioni contemporanee derivino fondamentalmente da un solo antenato (il tronco) e si siano via via differenziatre senza possibilità di ricombinazione. Questo non è quello che è accaduto, e un semplice test permette di “falsificare” questa ipotesi:

The most natural way to test the tree model is to measure the frequencies of mutations in the genomes of two populations that we hypothesize have split from the same branch. If a tree model is correct, the frequencies of mutations in the two populations will have changed randomly since their separation from the other two more distantly related populations, and so the frequency differences between these two pairs of populations will be statistically independent. If a tree model is wrong, there will be a correlation between the frequency differences, pointing to the likelihood of mixture between the branches. (pos. 1622)

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5a/IE_expansion.png
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Personalmente, di questa seconda parte ho trovato particolarmente interessante la ricostruzione della preistoria europea (strettamente connessa alla “falsificazione” della teoria di Cavalli Sforza, di cui abbiamo parlato all’inizio). Le attuali popolazioni europee sono frutto di almeno tre popolazioni antiche: i cacciatori-raccoglitori diffusi nel continente 10.000 anni fa, gli agricoltori in migrazione dall’Anatolia tra 8.800 e 6.000 anni fa, e l’invasione degli Yamnaya, un popolo delle steppe dell’Asia centrale, tra 4.900 e 4.000 anni fa. Le evidenze genetiche a sostegno di quest’ultima ipotesi ridanno peso scientifico alle teorie originariamente sostenute da Marija Gimbutas negli anni Cinquanta. Da viva Marija Gimbutas è stata trattata dal mondo accademico più o meno come una strega, per i suoi studi sul matriarcato e sulla Grande Dea. Che ora la sua ipotesi sia riscattata dalla genetica è per me di grande soddisfazione.

By File:Corded Ware culture.png : User:Dbachmann (2005)File:Europe laea location map.svg : User:Alexrk2Derivative work : User:Sir Henry – File:Corded Ware culture.pngFile:Europe laea location map.svg, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26206705

Anche per quanto riguarda l’India, la narrazione dei Veda – il dio Indra su una carro di guerra trainato da cavalli sconfigge i nemici impuri, distruggendone le fortezze e assicurando al suo popolo, gli Arii, terre fertili – esce sostanzialmente confermata dalle evidenze raccolte da Reich e dal suo gruppo. Reich sta ben attento a non offendere il nazionalismo indiano, che rivendica l’assoluta originalità della cultura indiana e nega ogni ipotesi di migrazione o invasione: distingue tra ANI (Ancestral North Indians) e ASI (Ancestral South Indians). I primi discenderebbero approssimativamente in parti eguali da una popolazione della steppa legata alla lontana agli Yamnaya e da una popolazione di agricoltori di ascendenza iraniana incontrata dalla gente della steppa mentre si espandeva verso sud (tra i 5.000 e i 3.500 anni fa, e portatori delle lingue del ceppo indo-europeo). I secondi sarebbero il risultato della fusione di una popolazione di agricoltori proveniente in precedenza dall’Iran (per circa il 25%) e ( per circa il 75%) da cacciatori-raccoglitori stabilitisi in precedenza (non tanto i cacciatori-raccoglitori originari dell’India, quanto provenienti dall’Asia meridionale e probabilmente responsabili della diffusione dell’agricoltura dal Vicino oriente) (tra i 9.000 e i 4.000 anni fa, in movimento dall’Iran all’India meridionale, e portatori delle lingue del ceppo dravidico).

***

Infine, la terza e ultima parte tratta le implicazione della rivoluzione del DNA antico, con particolare attenzione agli aspetti delle “razze” (o meglio, come preferisce esprimersi Reich, dell’ascendenza – ancestry) e dell’identità. Alcune delle “difese” di Reich dall’accusa di reintrodurre il concetto di razza – tema evidentemente delicatissimo – non sono del tutto convincenti (e sono, tra l’altro, tra quelle maggiormente responsabili della mia considerazione che il libro è “mal scritto”). Probabilmente, però, gli studi (che sono in corso e si ampliano molto rapidamente) meritano un dibattito più ampio, e non limitato ai soli genetisti.

Molti hanno accolto il libro con favore: in particolare Jared Diamond (su questo blog ne abbiamo parlato più volte, soprattutto qui e qui) sul New York Times (“A Brand-New Version of Our Origin Story“), Peter Forbes sul Guardian (“Who We Are and How We Got Here by David Reich review – new findings from ancient DNA“) e Turi King su Nature (“Sex, power and ancient DNA | Turi King hails David Reich’s thrilling account of mapping humans through time and place“).

Tuttavia, un gruppo di 67 scienziati di diverse discipline accademica (prevalentemente al di fuori delle “scienze dure”) ha contestato apertamente il modo in cui Reich ha affrontato il tema della razza, e ne critica apertamente alcuni risultati su BuzzFeed (“How Not To Talk About Race And Genetics“): a me, personalmente, l’obiezione dei 67 non convince. Alcune delle argomentazioni mi sembrano speciose: è vero che il gene dell’anemia falciforme è prevalente in aree infestate della malaria (se non avesse anche dei vantaggi in quelle aree sarebbe stato spazzato via dall’evoluzione, come è accaduto in altre parti del mondo), ma una volta che esiste e si scopre statisticamente che è un carattere genetico distintivo di una sottopopolazione, il nome che si dà a differenze radicate nel genoma di diverse sottopopolazioni mi pare inessenziale. Reich sta ben attento a evitare la parola “razza”, consapevole delle connotazioni che il termine comporta. Questo, secondo me, è sufficiente a chiarire la discussione. I firmatari della lettera scrivono: “This doesn’t mean that genetic variation is unimportant; it is, but does not follow racial lines”. Intendiamoci: se per racial lines si intende il significato che i nazisti o i suprematisti bianchi danno al termine “razza”, d’accordo. Ma se sostituiamo all’aggettivo “razziale” l’aggettivo “ereditario”? Sapere che un rischio per la salute ha (anche, perché Reich non ha mai scritto o detto che non ci siano altri fattori o fonte di variazione) una componente genetica è irrilevante? siamo sicuri? se fossi un indiano dello jati dei Vysya sarei grato di sapere che ho un rischio relativamente elevato (4%) di avere un gene che inibisce la produzione della butilcolinesterasi e che prima di sottopormi a un’anestesia si devono prendere precauzioni specifiche, e presumibilmente non sarei troppo sensibile al modo in cui chiamare le evidenti linee ereditarie alla base del mio rischio clinico.

Anche l’argomentazione che “human beings are 99,5% genetically identical” (e già non capisco bene che cosa significa? che lo 0,5% degli umani ha un genoma diverso? che due esseri umani estratti a caso dalla popolazione hanno il 99,5% del genoma eguale? che hanno il 99,5% di probabilità di avere lo stesso genoma?) mi sembra discutibile: condividiamo con gli scimpanzé il 98% del genoma, ma non per questo ci rifiutiamo di classificarli sotto il profilo scientifico in due generi diversi (e questo non ha nulla a che fare con il come dovremmo trattare gli scimpanzé!). Quando poi scrivono che “Even ‘male’ and ‘female’ [scare quotes, niente meno!], which Reich invokes as obviously biologically meaningful, has important limitations” mi hanno proprio perso. Ho già scelto da che parte stare. Preferisco essere curato da un bravo oculista che mi definisce ipovedente o persino orbo-cecato, ma tiene pienamente conto di tutte le evidenze scientifiche a disposizione, che da un sensibile incompetente che usa eufemismi più politically correct, ma opera attivamente per ostacolare la ricerca scientifica in campi che ritiene politicamente delicati o macchiati da ideologie del passato (Reich riporta alcuni esempi di queste “sensibilità” che ostacolano sia la ricerca pura sia quella in campo medico, ad esempio presso i nativi americani).

Tanto più che la tesi finale di Reich è che non esistono popolazioni “pure”, ma che ogni umano moderno è il frutto di decine di migliaia di anni di rimescolamenti.

Vi invito anche a leggere l’articolo di Riccardo De Sanctis “La rivoluzione è nel Dna antico” pubblicato su il manifesto del 29 luglio 2018.

In questa parte ho trovato particolarmente interessante il capitolo sulle radici genetiche delle diseguaglianze, con particolare riferimento a quelle di genere. Nel genoma emerge in più situazioni una discrepanza tra i profili che emergono dal DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente per linea femminile, da madre a figlia, e quelli che emergono dal cromosoma Y, presente soltanto nei maschi. Le evidenze indicano concordemente che i maschi invasori (e conquistatori) hanno sempre esercitato àil loro potere sulle donne delle popolazioni sottomesse, con la violenza, la forza o semplicemente l’esercizio del potere militare ed economico. Il caso più famoso – è un’antica narrazione che trova conferma genetica – è quello di Gengis Khan, ma presso gli afro-americani e le popolazioni non indo-europee dell’India affiorano nel genoma le stesse evidenze.

Di nuovo, lasciamo l’onere del riassunto di questa terza parte a David Reich.

Part III, “The Disruptive Genome,” focuses on the implications of the genome revolution for society. It offers some suggestions for how to conceive of our personal place in the world, our connection to the more than seven billion people who live on earth with us, and the even larger numbers of people who inhabit our past and future. Chapter 10, “The Genomics of Inequality,” shows how ancient DNA studies have revealed the deep history of inequality in social power among populations, between the sexes, and among individuals within a population, based on how that inequality determined success or failure of reproduction. Chapter 11, “The Genomics of Race and Identity,” argues that the orthodoxy that has emerged over the last century—the idea that human populations are all too closely related to each other for there to be substantial average biological differences among them—is no longer sustainable, while also showing that racist pictures of the world that have long been offered as alternatives are even more in conflict with the lessons of the genetic data. The chapter suggests a new way of conceiving the differences among human populations—a way informed by the genome revolution. Chapter 12, “The Future of Ancient DNA,” is a discussion of what comes next in the genome revolution. It argues that the genome revolution, with the help of ancient DNA, has realized Luca Cavalli-Sforza’s dream, emerging as a tool for investigating past populations that is no less useful than the traditional tools of archaeology and historical linguistics. Ancient DNA and the genome revolution can now answer a previously unresolvable question about the deep past: the question of what happened—how ancient peoples related to each other and how migrations contributed to the changes evident in the archaeological record. Ancient DNA should be liberating to archaeologists because with answers to these questions in reach, archaeologists can get on with investigating what they have always been at least as interested in, which is why the changes occurred. (pos. 443 ss.)

Non resta che raccogliere, come di consueto, qualche altra citazione:

Walt Whitman, in the poem “Song of Myself,” wrote, “Do I contradict myself? / Very well, then I contradict myself, / (I am large, I contain multitudes).” (pos. 687)

Seventy thousand years ago, the world was populated by very diverse human forms, and we have genomes from an increasing number of them, allowing us to peer back to a time when humanity was much more variable than it is today. (pos. 1425)

“ascertainment bias” (pos. 1497)

An argument from economy is not a proof. (pos. 1512)

The case of the Ancient North Eurasians showed that while a tree is a good analogy for the relationships among species—because species rarely interbreed and so like real tree limbs are not expected to grow back together after they branch—it is a dangerous analogy for human populations. The genome revolution has taught us that great mixtures of highly divergent populations have occurred repeatedly. Instead of a tree, a better metaphor may be a trellis, branching and remixing far back into the past. (pos. 1669: sulla potenza delle metafore!)

In the Near East, the expansion of farming was accomplished not just by the movement of people, as happened in Europe, but also by the spread of common ideas across genetically very different groups. (pos. 1897)

Spurred by the revolutionary technology of plant and animal domestication, which could support much higher population densities than hunting and gathering, the farmers of the Near East began migrating and mixing with their neighbors. But instead of one group displacing all the others and pushing them to extinction, as had occurred in some of the previous spreads of hunter-gatherers in Europe, in the Near East all the expanding groups contributed to later populations. (pos. 1904)

It is an extraordinary example of how technology—in this case, domestication—contributed to homogenization, not just culturally but genetically. It shows that what is happening with the Industrial Revolution and the information revolution in our own time is not unique in the history of our species. (pos. 1914)

Mixture is fundamental to who we are, and we need to embrace it, not deny that it occurred. (pos. 1931)

But theory is always trumped by data, and the data show that the Yamnaya also made a major demographic impact—in fact, it is clear that the single most important source of ancestry across northern Europe today is the Yamnaya or groups closely related to them. This suggests that the Yamnaya expansion likely spread a major new group of languages throughout Europe. The ubiquity of Indo-European languages in Europe over the last few thousand years, and the fact that the Yamnaya-related migration was more recent than the farming one, makes it likely that at least some Indo-European languages in Europe, and perhaps all of them, were spread by the Yamnaya. (pos. 2278)

Ancient DNA has established major migration and mixture between highly divergent populations as a key force shaping human prehistory, and ideologies that seek a return to a mythical purity are flying in the face of hard science. (pos. 2326)

The notion that humans first reached an empty America from Asia—an idea that today is still the overwhelming consensus among scholars—dates back to the Jesuit naturalist José de Acosta in 1590, who, finding it unlikely that ancient peoples could have navigated across a great ocean, conjectured that the New World was joined to the Old in the then-unmapped Arctic. (pos. 2872)

History is written by the victors, and the rewriting of the past after the European conquests has been particularly complete in the Americas, as there was no written language except in Mesoamerica prior to the arrival of Europeans. (pos. 2926)

It has been suggested, most forcefully by the archaeologist Peter Bellwood, that languages and peoples tend to move with the spread of agriculture. (pos. 3354)

And in many of these great admixtures, a central theme has been the coupling of men with social power in one population and women from the other. (pos. 4051 )

The right way to deal with the inevitable discovery of substantial differences across populations is to realize that their existence should not affect the way we conduct ourselves. As a society we should commit to according everyone equal rights despite the differences that exist among individuals. If we aspire to treat all individuals with respect regardless of the extraordinary differences that exist among individuals within a population, it should not be so much more of an effort to accommodate the smaller but still significant average differences across populations. (pos. 4655)

Today we aspire both to recognize that biological differences exist and to accord everyone the same freedoms and opportunities regardless of them. It is clear from the abiding average inequities that persist between women and men that fulfilling these aspirations is a challenge, and yet it is important to accommodate and even embrace the real differences that exist, while at the same time struggling to get to a better place. The real offense of racism, in the end, is to judge individuals by a supposed stereotype of their group—to ignore the fact that when applied to specific individuals, stereotypes are almost always misleading. (pos. 4675)

The measure of a revolutionary technology is the rate at which it reveals surprises […] (pos. 4844)

Ezio Sinigaglia – Il pantarèi

Sinigaglia, Ezio (2019). Il pantarèi. Alberobello: TerraRossa Edizioni. ISBN: 9788894845075. Pagine 312. 14,00 €.

Anche questa lettura ha una storia, che parte da lontano.

Paolo Natale ha frequentato il mio stesso liceo. Di un paio d’anni più piccolo di me, e quindi due anni indietro. Uno dei piccoli, secondo le categorie impietose che si usavano allora (e forse si usano ancora). Per di più faceva lo scientifico, e io il classico. Però si faceva notare, perché era molto vivace, brillante, ironico (anzi sarcastico). Poi, nel 1971 ho fatto la maturità e ho seguito strade diverse. Però Paolo Natale ha assunto di recente una sua visibilità che me lo ha fatto incontrare di nuovo, anche se solo virtualmente: è un professore di scienze politiche a Milano, politologo e metodologo della ricerca sociale, esperto di elezioni e flussi elettorali. Scrive su Gli stati generali e io leggo sistematicamente i suoi interventi, sempre puntuali e stimolanti. Ricordo con piacere e con orgoglio di averlo incrociato da ragazzo.

Mi ha dunque stupito, poco più di un mese fa (il 5 febbraio 2019, per l’esattezza) leggere una sua recensione di un libro, entusiastica fin dal titolo: Un libro indimenticabile. Fidandomi del giudizio di Paolo Natale ed essendo un lettore vorace e compulsivo, mi sono affettato a ordinarlo (su carta: non c’è, per quanto ne so io, un’edizione digitale) e leggerlo. Sono forse un po’ meno entusiasta dell’inaspettato recensore, ma è un bel romanzo.

La tentazione di riprodurre qui per intero la recensione di Natale è forte, ma resisterò (almeno in parte). Chi è interessato se la vada a leggere al link che ho messo sopra. A me serve però riportarne almeno una parte, per mettere meglio in luce le sensazioni e le differenze che la lettura ha provocato in me. Allora, cominciamo da Natale (anche se oggi è il mercoledì delle ceneri: immagino che queste battute gliele facessero dai tempi dell’asilo, ma non so resistere).

Era il lontano 1985. Coltivavo tiepide velleità letterarie, a quei tempi, ipotizzando l’idea che il moribondo romanzo dovesse venir sostituito con racconti di una o due paginette, unica forma di scrittura adatta ai tempi brevi del secolo breve. Vedete?, dicevo, tutti i grandi romanzi sono già stati scritti, nella forma tradizionale ottocentesca e poi in quella più rivoluzionaria del Novecento, da Proust a Joyce, da Kafka a Musil. Che senso ha riproporne altri, che non raggiungeranno mai le vette di quei capolavori? Se qualcuno vuole leggersi un bel libro, vada a riprendersi quelli: non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Un amico, sentendomi puntualizzare spesso queste mie apodittiche argomentazioni giovanili, si presentò un bel giorno con un romanzo fresco di stampa, uscito da una piccola casa editrice, di un suo vecchio compagno di scuola. […] Leggilo, mi disse, forse ti farà cambiare idea sulla morte del romanzo.
Iniziai, un po’ scettico per la verità. Ma quell’iniziale scetticismo durò esattamente una pagina e mezzo, dopo le quali mi resi conto di star leggendo un piccolo capolavoro. Il racconto intenso e ironico delle avventure del suo protagonista, Daniele Stern, nella Milano degli anni Ottanta, interagiva con i brevi ma azzeccati intermezzi saggistici, che descrivevano l’opera fondamentale dei più rilevanti scrittori del Novecento, protagonisti della destrutturazione del romanzo classico.

[…]

Ma il romanzo, oh, il romanzo era un piccolo gioiello, scritto da un trentenne che pareva avere la maturità di un cinquantenne, di un consumato scrittore che riesca ad indovinare tutte le parole giuste al momento giusto, con ritmi e cadenze degne di un consumato forgiatore dell’anima, come ciò che voleva diventare il Dedalus di Joyce.

[…]

E oggi, rileggendolo per la terza o quarta volta, in questa nuova ri-edizione, il piacere della lettura si rinnova a distanza di quasi 35 anni, immutato. Di cosa parla questo libro quasi-inedito? Parla di noi, parla della scrittura, parla dell’evoluzione del romanzo, parla della nostra storia, del nostro rapporto con la vita, con l’amore, con se stessi e con chi gravita intorno a noi, della società e dei tristi o gioiosi protagonisti della nostra vita quotidiana, delle cadute e delle risalite, del coinvolgimento e del distacco, dell’ironia con cui vivere la nostra esistenza, e delle nostre paure di essere all’altezza di noi stessi, senza arretramenti e ignavie.
Non si può raccontare, non è possibile farne un breve riassunto. Bisogna leggerlo, immergersi nelle sue parole, nel racconto di una settimana che cambia la vita del suo protagonista e della storia del romanzo, della sua rinascita, proprio quando tutto pareva in via di estinzione. Il Pantarei è il più bel libro scritto negli ultimi 40 anni in Italia, e leggerlo è obbligatorio.
In my opinion.

Vabbè, alla fine l’ho riportata quasi tutta. Sono d’accordo su quasi tutto, fuorché su alcuni punti.

Il primo è che, secondo me, “i brevi ma azzeccati intermezzi saggistici” sono tutt’altro che intermezzi. Non lo dico io. Lo dice l’autore nella prefazione alla nuova edizione:

Il progetto nacque con una sua sorprendente unità da una meravigliosa notte d’insonnia durante la quale, disteso nella camera in penombra accanto alla mia sposa addormentata, vidi due ascensori percorrere quasi simultaneamente, dal basso verso l’alto, le due trombe delle scale parallele di un palazzone di sette o otto piani che si ergeva al di là del piccolo giardino di casa nostra. Ciascuna delle due gabbie illuminate degli ascensori rischiarava via via il finestrone di vetro smerigliato di un pianerottolo e, mentre a sinistra si accendeva per esempio quello del quarto, del quinto, del sesto piano, a destra splendeva quello del terzo, del quarto, del quinto, in una sequenza ordinata della quale nessuno oltre a me poteva avere coscienza.

Uno spettacolo messo in scena per me soltanto, per illuminare la scaletta del mio romanzo, rivelandomi che le scalette, in realtà, erano due.

Così il mio progetto nacque già equipaggiato di uno schema pressoché completo e fornito di un titolo che riproduceva fedelmente la struttura binaria dell’insieme: I romanzi e i giorni.

I romanzi stavano sull’ascensore di sinistra, i giorni su quello di destra. I romanzi erano la scala saggistica, i giorni quella narrativa.

Semplicissimo, come sono quasi sempre i buoni progetti. (pp. 7-8)

Aggiungo io: i saggi non sono per niente banali e svolgono una funzione strutturale, come spiega lo stesso Sinigaglia. Inoltre, gli autori di cui si analizza l’opera (Proust, Joyce, Musil, Svevo, Kafka, Céline, Faulkner e Robbe-Grillet) influenzano il protagonista Daniele Stern sia in quello che è (e questo lo scrive anche Sinigaglia, sempre nella prefazione: “Se è vero che II pantarèi mette in scena nella sua metà narrativa la stessa storia raccontata nella metà saggistica, cioè la storia del romanzo del Novecento, è logico dedurne che Stern debba essere un personaggio emblematico, capace di incarnare un po’ Marcel e un po’ Dedalus, un po’ Ulrich e un po’ Bloom, un po’ Zeno e un po’ K. Personaggi certo assai diversi l’uno dall’altro, ma accomunati dalla loro natura di anti-eroi. Uomini senza qualità, per parafrasare Musil […] – p. 10), sia nella scrittura stessa della parte romanzesca, che mima via via lo stile degli autori citati, anche se non in una corrispondenza uno-a-uno tra capitolo del saggio e parte della vicenda narrata. Questo è a volte un punto di forza, ma altre un punto di debolezza, perché spesso, e soprattutto nella parte finale, la mimesi stilistica mi sembra prendere il sopravvento sulla storia, che a questo punto ci ha catturato. My humble opinion, va da sé. Chissà se qualcuno l’ha scritto anche a proposito dell’Ulysses…

Questo poi è il mio secondo punto, tutto sommato. Perché la mia impressione è che il romanzo inizi magnificamente (anch’io – come Natale – non riuscivo a metterlo giù, e per di più tormentavo la mia compagna infliggendoli brani più o meno lunghi letti ad alta voce), ma finisca in modo deludente. Desinit in piscem, come diceva Orazio.

Però, in conclusione, leggetelo e scopritelo, questo piccolo gioiello.

Mario Missiroli – Fedeltà

Missiroli, Mario (2019). Fedeltà. Torino: Einaudi. ISBN: 9788858430392. Pagine 230. 9,99 €.

Fedeltà (Supercoralli) di [Missiroli, Marco]
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Mi era molto piaciuto, di Mario Missiroli, il precedente Atti osceni in luogo privato. Non ne conoscevo l’autore, ma ero stato attratto da una copertina clamorosa e maliziosa, che rimescolava in una specie di Gestalt switch un culo femminile e il simbolo della croce.

Atti osceni in luogo privato di [Missiroli, Marco]
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Atti osceni in luogo privato è un romanzo di formazione, di educazione sentimentale, filtrata (con leggerezza e crudezza) dall’erotismo, dalla formazione erotica. Tra Parigi e Milano – città entrambe da me molto amate – seguiamo la vita di Libero Marsell dall’adolescenza alla maturità. Lo stile è leggero, ironico, colto: vengono in mente certi film di Truffaut.

Nell’estate del 2015 ero anche stato a un incontro con l’autore, e avevo trovato anche lui affascinante, piacione (come si dice a Roma) e anche un po’ paraculo.

Anche Fedeltà orbita intorno ai sentimenti e si svolge in due città (questa volta Milano e Rimini, dove l’autore è nato). Il tema è la fedeltà del titolo, intesa sia come fedeltà coniugale nel senso più corrente e consumato (“Che parola sbagliata, amante. Che parola sbagliata, tradimento. Rispetto a cosa avrebbe tradito?” si chiede Carlo, uno dei protagonisti – pos. 874), sia come fedeltà a sé stessi (“Con lui aveva intuito che l’infedeltà poteva significare fedeltà verso se stessa.” gli fa contrappunto in un altro passo Margherita, moglie di Carlo, un’altra dei protagonisti – pos. 1797).

Ma il romanzo alla fine non mi sembra riuscito, a differenza del primo. Forse il punto principale è che non ha un centro. Troppo affollato di persone: oltre a Carlo e Margherita, ci sono Anna (la madre di Margherita), Sofia e Andrea (le “infedeltà”), e altri pezzi di famiglia, e amanti reali o anche soltanto desiderati. E per ognuna di queste persone, Missiroli si sente in dovere (o in diritto) di raccontarci qualcosa, di dare loro uno spessore raccontandoci storie, memorie, monologhi interiori… Alla fine, secondo me, solo i cinque personaggi principali (Carlo, Margherita, Sofia, Andrea e Anna) sono veramente necessari e sarebbero stati sufficienti a un romanzo compiuto. Ah, quasi dimenticavo, tra le comparse c’è anche Marella Agnelli, provvidenzialmente scomparsa durante il lancio del romanzo.

Troppo affollato anche di luoghi: un’attenzione maniacale a Milano, alle sue vie, ai suoi scorci, alle sue trasformazioni. E poi anche a Rimini.

Infine, troppo affollato di riferimenti letterari: dal Philip Roth di Pastorale americana (che compare nell’esergo), a Beppe Fenoglio, a Irène Némirovsky, a Ernest Hemingway (di sfuggita), a Dino Buzzati (di sguincio), a Leonard Michaels (ho dovuto controllare che il suo Sylvia esistesse davvero), ad Andre Dubus (anche qui sono dovuto andare a controllare), ai fumetti. E a quelli non menzionati ma presenti (citati da Loredana Lipperini, di cui parleremo dopo): Le affinità elettive di Goethe e Doppio sogno di Schnitzler.

Troppo affollato anche di situazioni – di cui almeno una, quella dei combattimenti tra cani, mi è sembrata inopportuna e anche un po’ ripugnante.

Insomma, mi è parso che Missiroli abbia avuto l’ambizione di scrivere un “romanzo importante” – e anche un romanzo a tesi – e che nella sostanza non ci sia riuscito. L’ho letto d’un fiato, ma non con l’urgenza del romanzo che ti prende, ma con un certo fastidio e la voglia di arrivare alla fine per levarselo di torno.

Missiroli è bravo e interessante, e nel romanzo ci sono cose molto belle. A me è piaciuto in modo particolare, sotto il profilo stilistico, il passaggio senza soluzione di continuità da un personaggio all’altro. Un virtuosismo ricercato, ma molto efficace. Qui sotto un esempio tra i più vertiginosi (si passa da Sofia ad Andrea):

Avrà avuto sette o otto anni e sentiva il profumo del suo babbo che si arrampicava sulla scala e le diceva Ti occuperai tu del negozio quando sarò vecchio?

Andrea rispondeva: – Ma tu papà non sarai mai vecchio, – poi continuava a colorare l’album di He-Man mangiando la focaccia avanzata dalla ricreazione. Anche adesso, ogni volta che sedeva sullo sgabello dell’edicola, gli veniva in mente suo padre giovane. (pos. 1205)

***

Dopo avere scritto questa recensione, sono andato a sentirmi la conversazione tra l’autore e Loredana Lipperini (Fahrenheit di qualche giorno fa: lo potete riascoltare qui). Emergono molte cose che avevo colto anch’io (ma vi giuro che non lo faccio per vantarmi): i riferimenti letterari, la (le) tesi del romanzo (fedeltà alla coppia/a sé stessi, differenze generazionali, mobilità sociale bloccata, …), la tecnica della dissolvenza.

Ma quello che mi ha impressionato di più (ascoltatelo nel podcast) è che Mario Missiroli dice in continuazione: “In verità”. E io, da consumato miscredente, mi insospettisco per molto meno.

***

Qualche altra citazione:

Era vero, lui era tutti i maschi dei romanzi che amava, cosí prevedibili […] (pos. 890)

Aveva esteso il desiderio oltre il suo matrimonio, se avesse tentato di riconfinarlo avrebbe finito per vivere sua moglie come ripiego. (pos. 1081)

[…] i piacentini mangiano carne di cavallo e sono possenti e gentili. (pos. 1141)

[…] i maschi insospettabili che ci riescono e i maschi sospettabili che non ci riescono. (pos. 1149)

[…] un attaccapanni a forma di albero, i rami senza giubbotti […] (pos. 1486)

[…] tutti quei pezzi di Italia in caduta libera gli erano parsi la sua caduta libera. (pos. 2043)


Eric Sowey e Peter Petocz – A Panorama of Statistics: Perspectives, Puzzles and Paradoxes in Statistics

Sowey, Eric e Peter Petocz (2017). A Panorama of Statistics: Perspectives, Puzzles and Paradoxes in Statistics. Chichester, UK: John Wiley & Sons. ISBN: 9781119075820. Pagine 302. 24,68 €.

A Panorama of Statistics: Perspectives, Puzzles and Paradoxes in Statistics (English Edition) di [Sowey, Eric, Petocz, Peter]
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Perché, si chiederanno i miei 25 lettori, ho letto un libro come questo, costoso e un po’ di nicchia, scritto da due autori australiani?

C’è una storia, naturalmente. Anch’io faccio story-telling. Il risvolto umano dietro le aride statistiche. Sono, nel mio piccolo un affabulatore.

Nel luglio scorso ero a un convegno internazionale, a Kyoto, sull’insegnamento della statistica e – più in generale – sulla cultura dei dati. Presentavo una mia riflessione, sui rapporti tra statistica realtà e verità (niente meno), e su che cosa si può fare – in quest’epoca di fake news, di post-verità, di distorsione dei risultati della ricerca statistica e più in generale scientifica – per riconquistare la fiducia dei cittadini e per sviluppare una cultura quantitativa e statistica. Alla fine della mia esposizione e del piccolo dibattito che ne era seguito, mi si è avvicinato un signore anziano (cioè mio coetaneo) e si è presentato come Eric Sowey, uno degli autori di questo volume. Una persona tutto considerato affascinante. Mi ha detto che il mio intervento gli era piaciuto (lusinghiero quanto basta: fa sempre piacere sentirsi dire una cosa del genere, soprattutto in un contesto globale così rilevante) e – soprattutto – che era sulla stessa linea e, anzi, ci aveva scritto un libro. Poi ha tirato fuori il suo biglietto da visita, ci ha aggiunto il titolo e mi ha detto che lo avrei trovato su Amazon, anche in formato elettronico. Ed eccoci qua.

Il libro è molto originale, ma molto diverso da come me lo sarei aspettato. Tanto per cominciare, non è “divulgativo” per niente. Non lo consiglierei a chi si avvicina per la prima volta al mondo della statistica (lo dicono gli stessi autori nella loro prefazione: “We have written this book for students and their teachers, as well as for practitioners – indeed, for anyone who knows some statistics.”). Si occupa poi soprattutto della statistica come disciplina (come branca della matematica, per capirsi), e non delle statistiche, cioè dell’insieme delle informazioni sui fenomeni collettivi date ai cittadini (che è invece quello di cui mi occupo prevalentemente io, e che era anche l’oggetto del mio intervento a quella conferenza).

Si tratta però di un libro molto originale. Sostanzialmente – ci informano gli autori – è la revisione, riorganizzazione e ampiamente della rubrica Statistical Diversions che gli autori hanno pubblicato dal 2003 al 2015 sulla rivista quadrimestrale Teaching Statistics pubblicata da Wiley & Sons. Da quei 36 articoli discendono dunque i 25 capitoli in cui si articola il volume (li riporto qui sotto).

  1. Why is statistics such a fascinating subject?
  2. How statistics differs from mathematics
  3. Statistical literacy – essential in the 21st century!
  4. Statistical inquiry on the web
  5. Trustworthy statistics are accurate, meaningful and relevant
  6. Let’s hear it for the standard deviation!
  7. Index numbers – time travel for averages
  8. The beguiling ways of bad statistics I
  9. The beguiling ways of bad statistics II
  10. Puzzles and paradoxes in probability
  11. Some paradoxes of randomness
  12. Hidden risks for gamblers
  13. Models in statistics
  14. The normal distribution: history, computation and curiosities
  15. The pillars of applied statistics I – estimation
  16. The pillars of applied statistics II – hypothesis testing
  17. ‘Data snooping’ and the significance level in multiple testing
  18. Francis Galton and the birth of regression
  19. Experimental design – piercing the veil of random variation
  20. In praise of Bayes
  21. Quality in statistics
  22. History of ideas: statistical personalities and the personalities of statisticians
  23. Statistical eponymy
  24. Statistical ‘laws’
  25. Statistical artefacts

Ogni capitolo ha una struttura comune: un testo (per la quale basta, nella metà dei casi, la conoscenza matematica delle superiori, e nell’altra metà è necessario però avere seguito almeno un corso introduttivo di statistica di livello universitario), cinque quesiti (preceduti da una lettera: A, il 40% del totale, per cui bastano le conoscenze delle superiori; B, il 55%, che richiedono una conoscenza universitaria; C, il restante 5%, per laureati in statistica; le risposte sono raggruppate in un capitolo finale) e una bibliografia. Il testo fa ampio uso di collegamenti ipertestuali, sia all’interno del volume, sia sul web in generale, sia al sito collegato al libro (che trovate qui).

A me l’esperimento non sembra del tutto riuscito (ma non è una “macedonia impazzita“, come la definirebbe Berlusconi) e non ne consiglio la lettura a lettori inesperti o soltanto curiosi. Ci sono però molti spunti interessanti:

Even more useful is the insight that it is statistical methods that play the major role in turning data into information and information into knowledge. (p. 3)

Quantitative literacy is, in essence, statistical literacy. (p. 21)

Several countries have, in recent years, launched initiatives to measure citizens’ well‐being (or ‘happiness’, as it is being popularly described). The concept of well‐being is easy to comprehend but by no means easy to measure. Proxies are needed. Will they be appropriate? (p. 67)

The name ‘normal’ for this distribution first appeared when Francis Galton pioneered it to a wide public in his 1889 book Natural Inheritance (p. 109)

Galton was so moved by his and his predecessors’ discoveries that he imbued the normal distribution with an almost mystical character […] (p. 109)

[…] ‘hypothesis generation’ rather than ‘hypothesis testing’. (p. 132)

Statisticians distinguish data on a quantitative variable from data on a qualitative variable by saying that the former are values, whereas the latter are states. (p. 159)

The history of statistical ideas since about 1600 is a grand saga of intellectual endeavour. It tells of achievements in these major areas: how to conceptualise, measure and analyse chance in human experience; how to detect authentic ‘big picture’ meanings in detailed real‐world (and, therefore, chance‐laden) data; and – from the knowledge gained in those inquiries – how to evolve a set of inductive principles for generalising the detected meanings, as reliably as possible, to wider contexts. (p. 166)

It is an interesting connection between the old and the new that, in the Quechua version of Windows, the word Kipu (spelled without an ‘h’) is used for ‘file’! (p. 193)

[Artefact as] ‘‘a non‐material human construct’. (p. 193)

Mulholland Drive

Mulholland Drive (Mulholland Dr.), 2001, di David Lynch, con Naomi Watts, Laura Harring e Justin Theroux.

Naomi Watts in Mulholland Dr. (2001)
imdb.com

Visto quando uscì (a Parigi, ricordo) e rivisto pochi giorni fa.

La prima volta mi era sembrato molto più incomprensibile che in questa seconda visione. Ero uscito dalla sala affascinato dalle immagini, dalla maestria del regista, dalla bellezza delle scene e della musica, dalla bravura delle attrici (e soprattutto di Naomi Watts). Ma ero confuso: che cosa avevo visto? che storia mi avevano raccontato? Mi ero rifugiato in poche certezze impressionistiche: il rinvio a un film di culto (almeno per me: Eva contro Eva di Mankiewitz), il cinema sul cinema (troppi esempi e riferimenti per citarli tutti), Hollywood come bosco sacro, La tempesta di Shakespeare (“We are such stuff / As dreams are made on, and our little life / Is rounded with a sleep.”). Poco più. D’altra parte, come raccomanda lo stesso Lynch: Silencio!

C’era poi un fondo d’irritazione: la suspension of disbelief può tutto. Ci fa credere a Biancaneve e i sette nani, a Babbo natale e alla Befana, all’intero pantheon delle divinità, alla “favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude”. E può tanto più, quanto più si mettono al suo servizio le tecnologie (in senso lato): la voce ipnotizzante di Omero che racconta la guerra di Troia, la scrittura romanzesca, il cinema (lo specifico filmico di Pudovkin). E adesso la realtà virtuale. Epperò – mi dicevo e mi dico ancora – al di là di un certo limite non vale. Il narratore, lo scrittore, il regista si prende gioco di noi. Non è facile stabilire la linea di confine, eppure c’è. Per il romanzo poliziesco ce n’è più d’una (ne ho parlato in questo blog, in un post chiamato proprio Regole del buon romanzo poliziesco)

In quasi vent’anni, a me e al mendo sono successe tante cose.