Non ne posso più dei partitini

Una delle frasi di Marx citate più spesso e più a sproposito è l’affermazione che nella storia tutto accade due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa.

Una boutade, naturalmente, e nemmeno una delle migliori, perché Marx sapeva fare della satira esilarante, come sa chi ha letto qualcuna delle sue opere polemiche, come La sacra famiglia o L’ideologia tedesca. La frase compare proprio all’inizio de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (che nel suo complesso non è una delle sue opere più illuminate o illuminanti) e il bersaglio è Napoleone III (la farsa) confrontato con Napoleone Bonaparte (la tragedia). Letteralmente:

Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per cosí dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.

Dovrebbe essere chiaro a tutti che, al di là della verve polemica e della trovata letteraria, il valore di verità della frase è pressoché nullo (fa il paio con il tormentone gramsciano del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà, di cui ho già parlato su questo blog in una diversa occasione). Per di più, una nota e bellissima poesia di Wisława Szymborska ci ha ricordato una volta per tutte che nulla accade due volte (anche di questa ho già parlato, qui):

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.

Eppure…

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Sciopero

Sono le 8:35 circa del 16 giugno 2017, venerdì. È in programma uno sciopero del trasporto pubblico locale. Fermata Termini della metropolitana di Roma. Gli altoparlanti annunciano il progresso delle ultime corse, che sono partite dai capolinea alle 8:30.

Termini, Wikipedia commons

Termini, Wikipedia commons

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Roma: anche il Festival delle scienze è farlocco

A Roma da qualche anno (siamo ormai alla decima edizione) si tiene un Festival delle scienze, forse meno famoso e meno importante di quello che si svolge a ottobre a Genova, ma comunque costruito attorno a una calendario fitto di eventi, che spaziano dagli incontri con scienziati (lectio magistralis e dialoghi) agli spettacoli, ai concerti, alle installazioni, ai laboratori per le scuole, alle presentazioni di libri. C’è persino una lezione di cucina.

Quest’anno il programma era interessante e il tema (La scienza e l’importanza di non sapere) piuttosto accattivante. È un periodo in cui sono molto impegnato su una ricerca mia e poiché non lavoro da Google (dove il 20% dell’orario di lavoro può essere dedicato ai propri progetti personali) questa attività tende ad assorbire tutto il mio tempo libero. Però uno degli incontri era per me imperdibile: quello con Daniel Dennett di cui – come i lettori di questo blog ben sanno – sono un appassionato lettore (ne ho parlato da ultimo qui, ma anche qui e qui e, anche se per inciso, molte altre volte).

Ecco come il sito dell’Auditorium di Renzo piano presentava l’evento (un dialogo, badate bene):

25/01/2015 Sala Petrassi ore 19:00

Fondazione Musica per Roma in collaborazione con Codice. Idee per la Cultura presenta

Daniel Dennett, Erin Kelly
“(In)certezze su libertà e responsabilità”
Dialogo

Daniel Dennett, Erin Kelly

introduce Mario De Caro

Penetrare l’ignoto è da sempre la grande sfida del conoscere umano. La natura del procedere verso ciò che non sappiamo è però fondamentale. La scienza nel suo essere un sapere intrinsecamente provvisorio ci insegna a muoverci attraverso la porta dell’ignoto rispettando la nostra ignoranza e coltivando, e persino amando, i nostri dubbi e incer tezze. Il metodo scientifico stesso, si fonda infatti sul lasciare la porta aperta al dubbio. Ciò che ignoriamo diventa così spinta propulsiva a domande sempre nuove, sulla base di risposte che sono solidamente basate sulle nostre migliori evidenze ma che sono, al tempo stesso per loro natura potenzialmente errate. D’altronde, come dice il fisico Stephen Hawking, “il piu grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, ma l’illusione di sapere.” Dobbiamo rispettare quindi ciò che non sappiamo e non solo, dobbiamo persino imparare a essere a nostro agio nell’incertezza. Il poeta John Keat la chiamava “negative capability”: l’essere capaci di restare nell’incertezza e nel dubbio, senza cercare frettolosamente fatti e ragioni e la indicava come strumento fondamentale per il progredire della conoscenza. Questa decima edizione del Festival delle Scienze di Roma vuole essere, dunque, una celebrazione del dubbio, dell’incertezza e dell’ignoto e del modo di penetrarlo che è proprio del metodo scientifico. Il programma del Festival si concentrerà attorno a domande tra fisica, biologia, psicologia e linguistica: che rapporto c’è tra incertezza e indeterminatezza? Tra incertezza e caso? Cosa si nasconde in ciò che chiamiamo materia oscura o nei buchi neri? Cosa nel concetto di infinito? E poi ancora come ci rapportiamo cognitivamente con l’incertezza e l’ignoto e quale linguaggio usiamo per parlarne? Come calcoliamo con precisione l’incertezza? Come usiamo la segretezza nella politica? Come sempre la prospettiva sarà quella della ricerca più avanzata, riunendo i grandi nomi della ricerca scientifica italiana e internazionale, ma anche filosofi e storici della scienza, giornalisti ed esperti per capire e discutere quali domande guidano oggi il nostro cammino verso la conoscenza, lasciando “socchiusa la porta verso l’ignoto”.

Biglietti: Posto unico 2.00€

Non mancava questa bella foto:

Quell’errore così marchiano (il riferimento al tema della negative capability nel poeta John Keat, scritto così, senza la s finale: e dire che è morto e sepolto qui a Roma!) mi avrebbe dovuto insospettire. Mi avrebbe anche dovuto insospettire che il testo si ripeteva tal quale per molti degli eventi in programma.

E invece no. Mi sono precipitato a comprare il biglietto: che cosa sono 2 euro di fronte alla possibilità di ascoltare dal vivo un filosofo che ti interessa molto discutere con un’altro (che purtroppo non conoscevo) temi così interessanti? Potere seguire dal vivo, da pochi metri, il suo modo di reagire agli stimoli di Erin Kelly e agli umori del pubblico? seguirne il modo di argomentare e di parlare, ma anche il linguaggio del corpo? E anche se poi si scopre che gli euro sono 3, perché Listicket si fa pagare un altro euro per una fantomatica “Commissione di servizio” (dev’essere per il privilegio di interagire con il suo sito web, peraltro piuttosto malfatto)?

E dunque la sera di domenica 25 gennaio 2015 ho attraversato Roma (l’Auditorium non è precisamente al centro della città), ho cercato un parcheggio, ho atteso che il dialogo iniziasse con 15-20 minuti di ritardo (siamo a Roma: le cose non cominciano alle sette, ma verso le sette, il che significa ben dopo le sette). Solo allora, spentesi le luci, Mario De Caro ci ha spiegato che era presente la sola Erin Kelly, e che Daniel Dennett si sarebbe collegato via skype.

Tutti sono rimasti. Io me ne sono andato, con la precisa sensazione di essere stato truffato (Dennett insegna a Boston e sono sicuro che giovedì 22, quando ho acquistato il biglietto, era noto agli organizzatori che non sarebbe venuto a Roma).

Forse non tutti troveranno calzante l’esempio, ma se Musica per Roma avesse venduto i biglietti per un concerto di St. Vincent e poi si fosse scoperto che la musicista era collegata via skype da New York si sarebbe alzato minaccioso e unanime il grido:

ARIDATECE LI SORDI!

Io mi sono rassegnato,  ma voglio almeno additare al pubblico ludibrio i nomi dei responsabili (che traggo da un articolo trionfalistico di Giulia Felici pubblicato da repubblica.it il 25 gennaio 2015: «Auditorium, in 20 mila al Festival della Scienza
Il tema dell’Ignoto porta il sold out per tutti gli appuntamenti della rassegna»):

“L’evento meritatamente più longevo dell’Auditorium” afferma l’amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, Carlo Fuortes. “Una volta di più – continua Fuortes – la sua formula ha conquistato il nostro pubblico che ha potuto condividere il piacere della conoscenza scientifica con grandi scienziati capaci di divulgare contenuti complessi in maniera semplice”. Questa celebrazione della Scienza è stata prodotta dalla Fondazione Musica per Roma in collaborazione con Codice, Idee per la Cultura, e la direzione scientifica di Vittorio Bo e Jacopo Romoli.

Cani a bordo

Che non mi piacciano particolarmente i cani, a questo punto dovreste averlo capito.

Che sia un vecchio hippy libertario, incanutito ma non domo, forse era un po’ più difficile da capire, ma confido sul vostro intuito. Eppure, a volte, si impossessa di me lo spirito che, qualche anno fa, indusse Gianfranco Fini a scandire le-ga-li-tà.

Sono sul treno Italo 9959, da Milano a Roma, 2 dicembre 2014, dalle 19:54 alle 23:09. Carrozza 2. Insieme a me sale una coppia, ragazzo e ragazza con la loro creatura, un volpino bianco.
Lo piazzano ai loro piedi, tra il posto 5 e il posto 6. Sta abbastanza buono, tranne qualche sortita.
Il conduttore li ammonisce: «Deve stare nel suo trasportino». I due, semplicemente, se ne stracatafottono.

Il conduttore non dice più niente. Italo è in difficoltà economiche, si parla di esuberi, il suo posto è tutt’altro che garantito.

Giusto per memoria, quello che Italo scrive sul sito:

Animali di piccola taglia
A bordo di Italo puoi trasportare – negli appositi contenitori da viaggio – animali domestici, quali cani di piccola taglia, gatti e altri piccoli animali da compagnia, purchè di peso non superiore ai 10 kg.

Modalità di trasporto
Gli animali devono essere trasportati negli appositi contenitori
(“trasportini”), che – nella misura di uno a Viaggiatore – possono essere alloggiati a bordo treno nelle bagagliere o nelle immediate vicinanze del tuo posto.
Per il trasporto dei cani dovrai essere in possesso del certificato di iscrizione all’anagrafe canina. Nel caso di Viaggiatori provenienti da paesi esteri, gli animali dovranno essere muniti dei sistemi di identificazione e del passaporto di cui al Reg. (CE) n. 998/2003, laddove applicabile.
Sono esclusi dal trasporto gli animali domestici pericolosi o affetti da patologie trasmissibili all’uomo.

Le riforme e il tappetone di Mucciante

Ho sempre più spesso la sensazione che i cambiamenti, piccoli o grandi, che la “politica” imprime alla rotta del nostro povero Paese siano dettati da una ricerca (abbastanza automatica) della linea di minor resistenza o dei minimi locali del paesaggio delle possibili opzioni.

governo.it/Presidenza

Prima di entrare nel vivo, però, permettetemi due digressioni:

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Qualcuno ricorda che cos’era l’ISDN?

Immagino di no. Le tecnologie morte finiscono a impolverarsi come le musicassette ai tempi dell’mp3.

wikimedia.org/wikipedia

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Caetano Veloso nel paese delle gabelle

Salvo imprevisti, sarò al concerto che Caetano Veloso terrà a Roma, all’Auditorium di via della Conciliazione il 7 maggio 2014.

wikimedia.org/wikipedia/commons

Ho comprato 2 biglietti in prevendita, spendendo in tutto 119,20 €, cioè 59,60 € a biglietto.

Cominciamo da qui: il prezzo del singolo biglietto è di 47,50 €. Questo prezzo include l’IVA al 22%, i diritti SIAE e non so quali altre tasse. Posso permettermelo e trovo giusto che il musicista, la sua band e i componenti della sua organizzazione siano retribuiti. Tra l’altro, so bene che i proventi della vendita di dischi in vinile, CD e musica in streaming sono ormai ben poca cosa, poco più di uno strumento di traino ai concerti dal vivo. Anzi, vorrei – se possibile – che ai musicisti e alla loro organizzazione arrivasse una quota maggiore e che ai pasciuti parassiti della SIAE arrivasse di meno. Ma non è di questo che voglio parlare qui.

Qui voglio parlare dei misteri delle “prevendite” (ne ho già parlato, ad esempio qui) e di chi ci si ingrassa. Se possibile, vorrei che qualche innovatore o rottamatore o paladino del liberismo si occupasse anche di questo, uno dei tanti lacci e lacciuoli che tengono inchiodato a terra il nostro paese, come Lemuel Gulliver.

wikimedia.org/wikipedia/commons

Allora, vediamo come si arriva da 47,50 a 59,60 € (un’ulteriore gabella del 25.5%, che intasca TicketOne):

  • diritti di prevendita 7,50 € (badate alla logica economica della cosa: io pago in anticipo e, sempre con largo anticipo, dò agli organizzatori la certezza che quel posto è venduto. Mica poco, tant’è vero che non è raro che un evento venga cancellato “perché la prevendita è stata inferiore alle aspettative”. Ma basterebbe l’aver pagato anticipato, nella logica economica, per dovermi aspettare uno sconto al tasso d’interesse corrente: in fin dei conti, io pago profumatamente la banca, con fior d’interessi, per avermi prestato i soldi del mutuo in anticipo sulle mie future disponibilità. Anche quando acquisto un biglietto del treno o dell’aereo, pago meno quando acquisto in anticipo. Non è così? Se non è così, almeno cambiate il nome agli odiosi diritti di prevendita!)
  • spese per commissioni di servizio 3,35 € (questo, suppongo, è il margine d’intermediazione che TicketOne si attribuisce: un bel 7,1%, ammesso che i diritti di prevendita non li intaschi, almeno in parte, sempre TicketOne)
  • spese per Stampa@Casa 1,25 € (questo è oltraggioso: è quanto TicketOne si fa pagare per darmi il privilegio di stampare – dal mio computer, con la mia stampante, con il mio toner e con l’energia elettrica che pago io – il biglietto in anticipo ed evitare la coda al botteghino. Non ho parole).

Io non ho parole. E questo paese non ha speranze.

Cedevole

«La norma è cedevole», cinguetta una fine giurista.

wikimedia.org/wikipedia/commons

Si scopre così che la legge, un tempo incisa su tavole di bronzo, è ora cedevole, come la virtù di una demi-mondaine in un romanzo francese del XIX secolo…

La concorrenza, la trasparenza e i buchi nelle piastrelle

La mia sede di lavoro – in un ente pubblico: do per scontato che l’aveste capito da soli anche se non ho mai fatto coming out – è in un seminterrato all’estrema periferia; ma è un seminterrato luminoso e silenzioso, da poco rinnovato negli infissi e negli arredi. E, naturalmente, anche nei servizi igienici. È anche una sede molto silenziosa. Mi sono quindi molto sorpreso quando, da lunedì, è iniziato un rumore continuo e molto fastidioso. Mi sono affacciato al corridoio e ho visto una squadra di operai al lavoro nei bagni: stavano sostituendo tutti i distributori del sapone, i rotoli porta-asciugamani, i porta-rotoli di carta igienica, i distributori di copri-ciambella di carta, e così via. Mi spiego meglio: stavano togliendo quelli “vecchi” (in realtà in uso da pochi mesi, da quando questa sede è stata ristrutturata), che erano fissati al muro con degli stop, e sostituendoli con oggetti nuovi, dalla stessa funzione ma di diversa marca. E anche di diversa forma, talché era comunque necessario forare di nuovo muro e piastrelle. Uno scempio, che nel mio bagno di casa avrei cercato di evitare a ogni costo.

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Perché? Perché questo spreco (perché di uno spreco si tratta in ogni caso, anche se il costo dei lavori gravasse sulla ditta che fornisce il servizio)?

* * *

La risposta in breve: perché una legge italiana (basata sul recepimento di un principio comunitario) vieta il rinnovo dei contratti della pubblica amministrazione per la fornitura di beni e servizi. Pertanto, al termine della durata del contratto, la pubblica amministrazione deve indire una nuova gara.

* * *

La risposta un po’ più lunga: si deve partire dall’art. 6, 2° comma, della legge n. 537 del 24 dicembre 1993, come modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 23 dicembre 1994:

È vietato il rinnovo tacito dei contratti delle P.A. per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano le ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente le volontà di procedere alla rinnovazione.

Sulla base di questa norma, il Consiglio di Stato ha distinto dalla mera proroga (estensione della durata del contratto) il rinnovo contrattuale (che implica una rinegoziazione con il medesimo contraente, in modo che la P.A. interessata ne tragga vantaggio. Che cosa costituisca un vantaggio per la P. A. è stato interpretato in modo molto restrittivo, prima dal Consiglio di Stato che ha stabilito che la mera proroga è consentita solo in circostanze determinate e circoscritte senza che si realizzi nessun vantaggio per la P. A., poi dallo stesso legislatore che ha stabilito (art. 27, 6° comma, della legge n. 488 del 23 dicembre 1999: tutte queste leggi natalizie sono le famose “leggi finanziarie”) che, nel triennio 2000-2002, sarebbe stato possibile procedere ai rinnovi dei contratti della P.A. una sola volta e solo ove si fosse ottenuto uno sconto (almeno del 3%) sul prezzo riportato nel contratto originario.

La situazione era già abbastanza incasinata di suo (tra la seconda parte dell’art. 6, 2° comma, della legge n. 537 del 24 dicembre 1993 e s. m. e l’art. 27, 6° comma, della legge n. 488 del 23 dicembre 1999, se ci riflettete un attimo, c’è più di una differenza importante), quando è intervenuta la Commissione europea aprendo una procedura istruttoria (n. 2110/2003) nei confronti dell’Italia per accertare l’incompatibilità “comunitaria” della disciplina scaturente dell’art. 6, 2° comma, della legge n. 537 del 24 dicembre 1993 e s. m. e della sua applicazione nella prassi amministrativa e giurisprudenziale.

Il legislatore italiano non ha battuto ciglio e – incurante delle conseguenze pratiche – con l’art. 23 della legge n. 62 del 18 aprile 2005 ha abrogato la seconda parte (quella che diceva: «Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano le ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente le volontà di procedere alla rinnovazione.) dell’art. 6, 2° comma, della legge n. 537 del 24 dicembre 1993 e s. m.

E qui i giuristi si incasinano. Io ho letto qui sul web un commento firmato da Dionisio Pantano – sicuramente degnissima persona ma dal cognome ominoso – che illustra bene i corni del dilemma. La legge del 2005 – spiegano i giuristi – ha abrogato quella parte dell’articolo della legge del 1993 che consentiva il rinnovo entro 3 mesi dalla scadenza del contratto se esistevano ragioni accertate di convenienza e pubblico interesse a sostegno del rinnovo. Fin qui li seguo.

Con questa abrogazione è stata cancellata l’unica norma ad hoc che regolava i rinnovi. Ma, in assenza di una norma ad hoc, ne esiste una di carattere generale, un principio generale, che consenta i rinnovi? Oppure esiste una norma generale opposta, un principio che vieti la prosecuzione di un rapporto contrattuale con lo stesso contraente? Secondo Dionisio Pantano la risposta è negativa per entrambi i quesiti. Dunque – conclude – fermo restando il divieto del rinnovo tacito (che è quanto rimane dell’art. 6, 2° comma, della legge n. 537 del 24 dicembre 1993 e s. m. dopo l’abrogazione del periodo successivo) occorre fare riferimento a principi più generali dell’ordinamento comunitario e nazionale: il principio della libertà di concorrenza; il principio di gara nell’aggiudicazione degli appalti pubblici; il principio di pubblicità, di trasparenza, di efficienza, di economicità e di buon andamento dell’azione amministrativa.

Ottimo. Con un po’ di sforzo, mi pare comunque di aver capito. Ma non è per nulla scontato che i 3 grandi principi enunciati siano in tutti i casi e in tutte le situazioni compatibili tra loro. Quando si sostiene, come fa Dionisio Pantano, che il rinnovo contrattuale è ammissibile in alcuni casi, si sostiene implicitamente che in quei casi il principio di gara nell’aggiudicazione degli appalti pubblici è sacrificato a un altro principio, che in quei casi è valutato come preminente.

A me, economista di mestiere, interessa quello dell’economicità. A me pare che economicità, in questo caso, significhi che la P. A. deve trarre dal rinnovo un vantaggio non soltanto rispetto alle condizioni iniziali del contratto di fornitura di beni e servizi – come avviene nell’ipotesi dello sconto (del 3%, precisava la legge del 1999) o (ragionando per analogia) dell’aumento dei beni e servizi erogati a parità di corrispettivo – ma anche rispetto a una valutazione complessiva dei costi e dei benefici del rinnovo rispetto ai costi e ai benefici della nuova gara. I giuristi forse non lo sanno, non so se è incluso nel programma dei corsi di economia che pure hanno frequentato all’università, ma le transazioni costano. È un caposaldo della teoria economica (e soprattutto della teoria dell’impresa, ed è valso 2 “premi Nobel” per l’economia, a Ronald H. Coase nel 1991 e a Oliver Williamson nel 2009). Tutti i contratti costano, a entrambi i contraenti: raccolta di informazioni, calcoli economici, tempo… Le gare di aggiudicazione sono tra le procedure più costose, proprio per le garanzie di pubblicità, trasparenza, libertà di concorrenza, parità delle opportunità iniziali, correttezza dell’azione amministrativa che devono offrire. Di questo si tratta, e non di tutelare «l’interesse di qualche dirigente a non indire nuove gare e quindi non lavorare…», come ironizza (a sproposito) Dionisio Pantano. 

E allora? Allora penso che se si facesse un esercizio rigoroso di analisi dei costi e dei benefici delle due ipotesi (rinnovo contrattuale vs. nuova gara di aggiudicazione dei medesimi beni e servizi), condotto secondo le tecniche suggerite dalla letteratura in materia, si scoprirebbe che i casi in cui il rinnovo contrattuale trova giustificazione nella sua economicità («ragioni accertate di convenienza e pubblico interesse a sostegno del rinnovo», come si esprime il nostro Pantano) sarebbero prevalenti.

E penso anche che questa sarebbe una strada che darebbe un forte contributo al contenimento della spesa pubblica a parità di beni e servizi erogati.

E che sarebbe una strada compresa e approvata da molti cittadini, che considerano le procedure della pubblica amministrazione (che loro identificano tout court con la burocrazia) inutilmente macchinose e costose.

E sono fiducioso che si possa trovare il modo di farlo nel pieno rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale e comunitario: ma questo è un compito per i giuristi, e non per l’umile economista.

E si eviterebbe anche di bucare le piastrelle dei bagni ogni 2-3 anni.

No, per favore, il vilipendio no

Ai tempi dell’Università si discuteva vivacemente dell’attuazione dei principi costituzionali: se ne discuteva tra studenti, ma l’argomento era anche oggetto di studio nell’ambito del diritto costituzionale. Un punto dolente era la contraddizione tra i principi di libertà enunciati nel Titolo I della Costituzione (Diritti e doveri dei cittadino) e il nostro Codice penale, che risaliva al ventennio fascista (Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398) ed era profondamente intriso di quella ideologia, fondata sul carattere etico dello Stato e fortemente repressiva. Il codice penale era universalmente noto come Codice Rocco, dal nome del ministro Guardasigilli dell’epoca, Alfredo Rocco.

wikimedia.org/wikipedia

C’era, allora e adesso, un vasto consenso sull’incompatibilità tra Costituzione repubblicana e Codice penale fascista. Non lo dicevamo mica solo noi ultrasinistri gruppettari (mi pare di ricordare un mandato di cattura contro Mario Capanna per vilipendio del Presidente della Repubblica), ma anche la sinistra borghese moderata e integerrima di Giorgio Bocca e di Camilla Cederna. Sulla necessità di correggere profondamente e diffusamente il Codice penale, o addirittura di predisporne uno nuovo, c’era vasto consenso nel mondo accademico e tra gli operatori del diritto (si veda ad esempio la voce Codice penale su Wikipedia).

Tra le parti che apparivano in più stridente contrasto con la Costituzione c’erano quelle che contraddicevano il principio della libertà di manifestazione del pensiero (Art. 21, comma 1: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.»). Nacque un’etichetta per mettere insieme questo tipo di reati, che – come vedremo – nel Codice Rocco sono sparpagliati qua e là: reati d’opinione.

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