La lingua (la copertina originale di Sticky Fingers del 1971) era stata realzzata da John Pasche, uno studente del Royal College of Art di Londra. Questa variazione sul tema di Shepard Fairey è il logo ufficiale per celebrare il 50mo del gruppo
Con questa infografica, nel febbraio del 2012 Drake Mortimer ha chiesto alla sua fidanzata Stacy Green di sposarlo. L’infografica è diventata virale (si stima sia stata vista 50 milioni di volte) e, sì, Stacy e Drake si sono sposati.
Harry Burns: I love that you get cold when it’s 71 degrees out. I love that it takes you an hour and a half to order a sandwich. I love that you get a little crinkle above your nose when you’re looking at me like I’m nuts. I love that after I spend the day with you, I can still smell your perfume on my clothes. And I love that you are the last person I want to talk to before I go to sleep at night. And it’s not because I’m lonely, and it’s not because it’s New Year’s Eve. I came here tonight because when you realize you want to spend the rest of your life with somebody, you want the rest of your life to start as soon as possible.
La vita è una dura maestra (o quella era la storia? o la luna?). Insomma, in genere non è molto clemente: se fai uno sbaglio, te la fa pagare duramente. A volte, per fortuna, l’errore è virtuale e le conseguenze che paghi sono minime. [Uno scherzo nello scherzo: è stato il romanzo di Robert Heinlein, The Moon Is a Harsh Mistress, a rendere popolare l’acronimo TANSTAAFL!, There Ain’t No Such Thing As A Free Lunch! – era il 1966.]
wikipedia.org
Ma andiamo con ordine. Da qualche giorno gironzola viralmente per la rete (io l’ho vista su Facebook) questa vignetta:
media.tumblr.com
L’altro ieri, dopo averla vista, commentandola, mi sono messo a polemizzare. Mi sembrava che l’organizzazione della seconda vignetta non fosse un’organizzazione vera, ma un’organizzazione soltanto apparente. In altro parole: sembra un pesce più grosso di quello che scappa, ma non lo è realmente. Basta che il predatore ora in fuga rifletta un secondo, che si gira e ti si mangia i pescetti in un boccone.
Pensavo di avere ragione, influenzato anche dal poeta che ammonisce che sì, “le acciughe fanno il pallone” ma che il tonno non si fa ingannare e se non sei veloce con la rete “non te ne lascia una.”
Le acciughe fanno il pallone
che sotto c’è l’alalunga
se non butti la rete
non te ne lascia una
alla riva sbarcherò
alla riva verrà la gente
questi pesci sorpresi
li venderò per niente
se sbarcherò alla foce
e alla foce non c’è nessuno
la faccia mi laverò
nell’acqua del torrente
ogni tre ami
c’è una stella marina
amo per amo
c’è una stella che trema
ogni tre lacrime
batte la campana
passano le villeggianti
con gli occhi di vetro scuro
passano sotto le reti
che asciugano sul muro
e in mare c’è una fortuna
che viene dall’oriente
che tutti l’hanno vista
e nessuno la prende
ogni tre ami
c’è una stella marina
ogni tre stelle
c’è un aereo che vola
ogni tre notti
un sogno che mi consola
bottiglia legata stretta
come un’esca da trascinare
sorso di vena dolce
che liberi dal male
se prendo il pesce d’oro
ve la farò vedere
se prendo il pesce d’oro
mi sposerò all’altare
ogni tre ami
c’è una stella marina
ogni tre stelle
c’è un aereo che vola
ogni balcone
una bocca che m’innamora
ogni tre ami
c’è una stella marina
ogni tre stelle
c’è un aereo che vola
ogni balcone
una bocca che m’innamora
le acciughe fanno il pallone
che sotto c’è l’alalunga
se non butti la rete
non te ne lascia una
non te ne lascia una
non te ne lascia
Poesia, poesia, “perché di tanto inganni i figli tuoi?”
Dopo essermi incaponito a vilipendere la virale vignetta e chi me l’aveva mandata, tornato sobrio sono andato ad abbeverarmi alla più affidabile scienza, e mi sono dovuto ricredere: la strategie delle acciughe funziona.
Ecco che cosa ho trovato, sull’archivio di Tuttoscienze, inserto scientifico de La Stampa.
SCIENZE DELLA VITA. STRATEGIE DIFENSIVE Acciughe, argento vivo
Banchi compatti contro i predatori
di Matteo Perelli
17 dicembre 1997
ERO a 15 metri sotto la superficie marina quando all’improvviso fui colpito dal luccicare di una massa argentea che si muoveva davanti a me. Non era un sommergibile nucleare né un grosso mammifero marino e nemmeno un grosso squalo bianco ma semplicemente un banco di acciughe. Mi tuffai allora dentro quella nuvola argentata, costituita da almeno un migliaio di individui, nel tentativo di toccarne qualcuna. Il banco di acciughe cambiò però rapidamente direzione e si dileguò lasciandomi a mani vuote. Come potevano tanti pesci spostarsi contemporaneamente così da costituire un unico insieme indivisibile sia nella forma sia nei movimenti? Le acciughe sono pesci dalle abitudini gregarie che trovano il loro meccanismo difensivo nel rimanere uniti in modo da confondere i predatori; il gioco di luci che si viene a creare sui loro corpi è uno spettacolo meraviglioso, ma tentare di fissare lo sguardo su una sola creatura in questa massa scintillante è quasi impossibile. I predatori rimanendo così confusi non riescono a catturare un singolo individuo perché non sanno scegliere la loro vittima.
Il colore argenteo è prodotto da microscopiche lamelle rifrangenti che ricoprono le loro squame. Esse sono formate da iridociti, sorta di cristalli opachi composti da un materiale chiamato Guanina (composto chimico presente anche negli acidi nucleici, come Dna ed Rna, comuni alle cellule di tutti gli esseri viventi). Questo cristallo riflette la luce in vari modi, tanto che a volte conferisce al pesce un colore argenteo mentre altre volte il colore è bianco. L’unione di diversi strati di Iridociti ad uno strato di pigmento normale, in cui si mescolano anche alcuni di questi cristalli opachi, produce l’iridescenza. Non è ancora ben chiaro come la luce è riflessa, ma probabilmente gli strati sovrapposti di cristalli permetterebbero ad alcune lunghezze d’onda, o colori, di essere riflesse con un angolo particolare, mentre altre verrebbero assorbite. L’acciuga (Engraulis encra sicholus) appartiene all’ordine dei Clupeiformi, pesci apparsi nel Cretaceo comprendenti le principali famiglie dei Clupeidi e degli Engraulidi. Ai Clupeidi appartengono specie come l’aringa (Clupea harengus), la sardina (S. pilchardus sardina), l’alaccia (Sardinella aurita) e l’alosa (Alosa alosa) con la quale non dobbiamo confondere invece l’acciuga. In particolare viene infatti spesso confusa dal profano con la sardina. Anche se si tratta di pesce azzurro, esistono alcune particolari diversità per le quali è pressoché impossibile incorrere nell’errore. È presente in tutto il Mediterraneo, nell’Oceano Atlantico, nonché nel Baltico e nel Mare del Nord.
L’acciuga, chiamata anche alice, ha il corpo affusolato, poco compresso, con la superficie ventrale liscia. L’occhio è grande e circolare. La bocca, apparentemente piccola, è in effetti molto grande. Il colore del dorso è azzurro-verdastro quando è ancora viva ma dopo pescata assume una colorazione bluastra. Fianchi e ventre sono argentati. Può raggiungere una lunghezza totale di 20 cm. La sardina invece ha una corporatura più massiccia con il ventre leggermente carenato, presenta varie macchie nere non ben definite dietro l’opercolo branchiale, che è nettamente striato. Inoltre ha il dorso verde oliva e lungo i fianchi corre una striscia bluastra. […]
Sull’argomento torna, due settimane dopo (nel numero del 31 dicembre 1997), Isabella Lattes Coifmann:
SCIENZE DELLA VITA. STRATEGIE DEI PESCI PICCOLI La salvezza è nel branco
E tanti sistemi per comunicare
di Isabella Lattes Coifmann
31 dicembre 1997
SI è parlato recentemente su queste pagine dell’esperienza di un biologo che, durante un’immersione, capita in mezzo a una miriade di acciughe. Un’esperienza affascinante, perché mette l’uomo a contatto diretto con quella che si può definire una delle più efficienti strategie difensive della natura. Al fenomeno del “banco di pesci” ha dedicato anni di ricerche una biologa americana, Evelyn Shaw della Stanford University. Cos’è il banco? E’ la forma più semplice di raggruppamento sociale. Non è una vera e propria società, come potrebbe essere quella delle api o dei babbuini, in cui c’è un ordine gerarchico e una suddivisione del lavoro. Non esiste un leader, un capofila che guida lo sciame, ma i pesci che nuotano in prima linea si scambiano frequentemente il posto con quelli che si trovano in posizioni arretrate. È come se i componenti del banco rispondessero a una misteriosa parola d’ordine: “Attenzione! Mantenere le distanze. Nuotare paralleli ai compagni di destra e di sinistra. Pronti a virare se gli altri virano. Sempre compatti e all’unisono in tutti i movimenti”. È la strategia vincente per sopravvivere in un mondo, come quello acquatico, popolato da predoni affamati. La adottano i pesci piccoli, come quei graziosi pesciolini giallo-rossi lunghi una decina di centimetri che rispondono al nome di Anthias squamipinnis, ma la adottano anche pesci più grossi come le acciughe, le aringhe, i merluzzi, i tonni e tanti altri. Sono banchi costituiti da esemplari di dimensioni pressoché identiche e quindi presumibilmente della stessa età, che possono contare anche milioni di individui e ricoprono allora superfici immense. Si è accertato che l’attrazione reciproca si basa su stimoli visivi. È l’immagine del conspecifico che determina la reazione dell’individuo e lo fa adeguare immediatamente alla posizione degli altri. Una così perfetta sincronia di movimenti si evolve durante lo sviluppo. Negli esperimenti fatti in laboratorio dalla ricercatrice americana sui piccoli pesci argentei del genere Menidia, è apparso evidente che le larve di questi pesciolini, che alla nascita misurano quattro millimetri e mezzo, incominciano a formare banchi riunendosi in gruppo soltanto quando raggiungono gli undici o dodici millimetri di lunghezza. Man mano che crescono, l’istinto gregario si fa sempre più accentuato e i banchi diventano più compatti. Indubbiamente il gruppo ha un effetto deterrente sul predatore, un banco di pesci piccoli che procede compatto simula un pesce grosso e la sua vista generalmente scoraggia il predatore. Ma anche nel caso che non raggiunga lo scopo di intimorirlo, riesce tuttavia a ridurre le perdite al minimo. Perché tutto quel turbinio di pesci che si muovono all’unisono intorno a lui, quel balenio di riflessi argentei finiscono per confonderlo. Non riesce a mangiarne che una minima parte, mentre ne mangerebbe assai di più se nuotassero isolati.
[…]
Per tutt’altro scopo si coalizzano le inoffensive e graziose donzelle (Coris julis). Non hanno nessuna intenzione di commettere un’azione teppistica come quella degli Zebrasoma. Vogliono semplicemente unire le proprie forze per scacciare un visitatore importuno. Lo fanno per esempio per mettere in fuga un grosso polpo che tenta d’insediarsi nella loro tana, oppure per cacciar via un barracuda che vorrebbe stabilirsi nel loro territorio. Queste coalizioni di creature inermi per combattere un nemico assai più forte di loro prende nome di “mobbing“. E’ un termine inglese che si può tradurre: ” raggrupparsi in bande”. Una strategia abbastanza diffusa nel mondo animale.
[…]
La straordinaria coesione del banco di pesci presuppone che esista un sistema di comunicazione tra i suoi membri. Qualche volta si tratta di una vera e propria comunicazione vocale a base di fruscii, di strofinii, di crepitii, in barba al detto che i pesci sono muti. Un altro canale di comunicazione è quello chimico. Come gli insetti e i mammiferi, anche i pesci emettono messaggi odorosi, i cosiddetti feromoni, che trasmettono messaggi di vario tipo. E infine vi sono pesci che comunicano mediante l’elettricità. Come i mormiridi africani che producono debolissime scariche elettriche. Non appena si profila all’orizzonte la sagoma di un predatore, l’avvistatore passa parola (elettrica, naturalmente) ai compagni che nuotano in ordine sparso e in men che non si dica si aggregano tutti a simulare un pesce grosso che tiene il nemico a distanza. La salvezza, dunque, sta nel numero.
Maria Popova (di cui abbiamo parlato più volte, da ultimo qui) recensisce su Brain Pickings un libro di Peter Toohey, Boredom: A Lively History.
brainpickings.org
Io non l’ho letto e quindi posso soltanto limitarmi a citare alcune delle considerazioni di Maria Popova:
Toohey argues that boredom, unlike primary emotions like happiness, sadness, fear, anger, surprise, or disgust, takes a secondary role, alongside “social emotions” like sympathy, embarrassment, shame, guilt, pride, jealousy, envy, gratitude, admiration, and contempt. He delineates between two main types of boredom — simple boredom, which occurs regularly and doesn’t require that you be able to name it, and existential boredom, a grab-bag condition that is “neither an emotion, nor a mood, nor a feeling” but, rather, “an impressive intellectual formulation” that has much in common with depression and is highly self-aware, something Toohey calls the most self-reflective of conditions.
Toohey examines the relationship between boredom and disgust, the former being a mild derivation of the latter — boredom is to disgust what annoyance is to anger. Boredom is also connected to surfeit — surfeit, coupled with monotony, predictability, and confinement, produces boredom.
«Boredom is an emotion usually associated with a nourished body: like satiety, it is not normally for the starving.»
But our reflexive means of alleviating boredom — novelty-seeking, drugs, extreme behaviors — are, as most of us are intellectually aware but have at some point been experientially blind to, remarkably ineffective. Toohey observes:
«As fast as the new is experienced…it is liable to become boring. The new becomes a variant of the infinite. It recedes infinitely.»
This touches on what’s perhaps the most transfixing aspect of boredom — its relationship with time:
«Infinity is of course temporal as well as spatial. Time has a very interesting relationship with boredom and its representations. We have all experienced the sluggishness of time when we have been confined in boring situations. According to one of the late Clement Freud’s famous witticisms, ‘if you resolve to give up smoking, drinking and loving you don’t actually live longer, it just seems longer.’»
Queste riflessioni portano Maria Popova a collocare la noia all’interno del noto schema di Mihaly Csikszentmihalyi , dove la noia sta quasi al polo opposto del flusso (flow), quello stato di grazia in cui entri quando fai qualcosa con grande gioia e concentrazione e perdi la misura del tempo che passa.
wikipedia.org
La noia ha una funzione adattiva quando è una reazione transitoria, ma diventa patologica quando si trasforma in una condizione cronica. Per contribuire a distinguere tra queste due forme, nel 1986 Richird Farmer e Norman D. Sundberg (“Boredom Proneness – The Development and Correlates of a New Scale”, Journal of Personality Assessment) hanno proposto un test (le rispioste vanno date su una scala che varia tra 1 – «non sono d’accordo per niente» – a 4 – «neutrale» – a 7 – «sono pienamente d’accordo»:
Trovo facile concentrarmi su quello che faccio.
Mentre sto lavorando spesso la mia mente divaga.
Mi sembra che il tempo non passi mai.
Spesso mi sento spaesato, non so che fare.
Mi trovo spesso in situazioni in cui devo fare cose senza senso.
Guardare le diapositive delle vacanze degli altri mi annoia a morte.
Ho in mente un sacco di progetti e di cose da fare.
Trovo facile intrattenermi con me stesso.
Molte delle cose che devo fare sono ripetitive e monotone.
Ho bisogno di più stimoli della maggior parte delle persone.
La maggior parte delle cose che faccio mi stimola molto.
Sono raramente intrigato dal mio lavoro.
In ogni situazione riesco a trovare qualche cosa da fare o che mi interessa.
Per la maggior parte del tempo sto seduto senza fare niente.
So aspettare con pazienza.
Spesso non ho niente da fare, con un sacco di tempo a disposizione.
Quando devo aspettare, come in una fila, divento irrequieto.
Spesso mi sveglio con un’idea nuova.
Sarebbe difficile per me trovare un lavoro abbastanza intrigante.
Mi piacerebbe dover fare più cose difficili nella vita.
Sento che per la maggior parte del tempo lavoro sotto le mie capacità.
Molti dicono che sono creativo o pieno d’immaginazione.
Ho così tanti interessi da non riuscire a fare tutto.
Tra i miei amici sono il più perseverante.
Se non faccio qualcosa di eccitante, addirittura pericoloso, mi sento opaco e mezzo morto.
Per essere veramente felice ho bisogno di un sacco di varietà e di cambiamento.
Alla televisione e al cinema è sempre la stessa solfa.
Quando ero giovane, mi trovavo spesso in situazioni monotone o pallose.
Per scoprire quanto siete propensi ad annoiarvi, rispondete al questionario (qui trovate un foglio excel, in inglese, che vi facilita il compito) e sommate i punteggi di ogni risposta. Io l’ho fatto e mi sono trovato patologicamente propenso alla noia.
Frans de Waal – probabilmente il più grande primatologo vivente – riproduce in questo breve filmato un esperimento fatto da lui e dai suoi collaboratori più di 10 anni fa.
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A due scimmie cappuccine, esposte per la prima volta a questo esperimento, viene dato un semplice compito: restituire un sasso che la sperimentratrice le ha dato. Se lo fa (e lo fa con grande facilità) riceve un premio una fettina di cetriolo.
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Fin qui tutto bene: nella prima replicazione dell’esperimento, entrambe le scimmie – che sono fianco a fianco in una gabbia trasparente e quindi si vedono tra loro – fanno l’esercizio e ricevono la loro fettina di cetriolo in premio.
Ma dalla seconda replicazione in avanti, la scimmia di sinistra continua ad avere il cetriolo, mentre la seconda viene premiata con un acino d’uva.
Guardate voi stessi che cosa succede:
Chiunque di voi abbia subito il trattamento del cetriolo, ormai proverbiale, sa la rabbia che si prova.
Fransiscus Bernardus Maria de Waal, conosciuto semplicemente come Frans de Waal (‘s-Hertogenbosch, 29 ottobre 1948), è un etologo e primatologo olandese. La sua attività scientifica verte principalmente sullo studio comportamento sociale dei primati, in particolare scimpanzè e bonobo. È professore di Primate behavior (comportamento dei primati) presso la Emory University, direttore del Living Links Center presso lo Yerkes National Primate Research Center e membro della Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen e della National Academy of Sciences. È inoltre autore di molti libri divulgativi su bonobo e scimpanzè. [dalla voce di wikipedia]
Una delle prime cose da dire su questo libro, è che il titolo è un po’ fuorviante. Non si dovrebbe chiamare The End of Money, ma The End of Cash – Non La fine del denaro, ma La fine del contante: questo è quello che l’autore ha fatto (con successo quasi totale) per un anno intero, e questo è il tema che sviluppa nei diversi capitoli.
C’è un sentore di gonzo journalism nel libro: ogni capitolo è segnato dall’incontro con un personaggio, spesso (ma non sempre) un estremista fanatico, detrattore o profeta di un futuro senza contante. A tratti, David Wolman sembra un Hunter S. Thompson senza additivi chimici.
Direi che è piuttosto chiaro che a Wolman il contante non piace – è proprio la fisicità del danaro che gli fa un po’ schifo. A me fa venire in mente un carissimo zio, morto ahimè da quasi vent’anni, che faceva il farmacista in un paese della bassa, che raccontava che la sera del martedì, giorno di mercato, giorno dunque di massimo affollamento della farmacia e dunque di maggiore incasso, gli piaceva prendere dal cassetto le banconote stropicciate e aspirarne l’odore. «Puzzano proprio di merda,» mi diceva, tutto compiaciuto (perché a lui i soldi piacevano anche nella loro materialità). E non pensava certo a Freud (che sicuramente non aveva letto) e nemmeno alla ragione più ovvia (quelle mani di allevatori che le avevano toccate mandavano un inesorabile odore di merda di vacca e concime, che non andava via neppure dopo accurati lavacri): pensava piuttosto a un mistico richiamo allo “sterco del diavolo” della tradizione cristiana (anche se mi sembra che sia una definizione di Martin Lutero).
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Il libro di Wolman è piacevole e si fa leggere volentieri (qualche momento di stanchezza e qualche ripetizione c’è, a ricordarti che l’industria culturale statunitense ha delle regole inesorabili).
L’elemento di maggior interesse, per noi, è che contribuisce a chiarire i termini del dibattito che in Italia si è aperto quando il governo Monti ha (re)introdotto un tetto alle transazioni in contanti, che il governo Berlusconi aveva invece innalzato (una dei primissimi provvedimenti dopo essere tornato al potere nel 2008 dopo la breve parentesi di Prodi). Naturalmente – in Italia come negli Stati Uniti – un cavallo di battaglia della destra è che il contante è libertà economica (e anzi libertà tout court, quanto meno nell’accezione di “libertà di fare quello che ci pare e piace”) e che gli altri mezzi di pagamento, più agevolmente “tracciabili”, sono un gravame sul libero scambio e soprattutto un’incarnazione tra le più odiose del “grande fratello” nella sua versione stalinista. [Dave Birch, direttore di Hyperion Consulting ed evangelista delle transazioni elettroniche, dice la parola definitiva sull’argomento: «People say anonymity is an advantage of cash, but what they really want is privacy.»]
[Va da sé che stiamo anche sommersi dalla fuffa e dalle lacrime di coccodrillo: tutto per farci credere che le vere vittime delle restrizioni nell’uso del contante erano i pensionati. Mentre Wolfan ci illustra molto chiaramente che in realtà il contante è un nemico dei poveri – lo chiarisce molto bene nella video-intervista che riporto sotto.]
Una seconda, apparentemente più meditata, linea di opposizione a ogni limitazione delle transazioni in contanti faceva leva sull’argomentazione che i mezzi di pagamento digitali costano: il riferimento era, per esempio, alle commissioni bancarie e a quelle applicate alle transazioni con le carte di credito. E naturalmente, la confusione (e non si sa mai se creata ad arte, per influenzare il popolo bue e ignorante, o se veramente i nostri giornalisti e politici sono così sprovveduti) era tra i costi e i benefici economici, e tra chi li pagava e ne godeva. Perché il costo delle commissioni è il risultato della forza contrattuale relativa della banca o dell’operatore finanziario, da una parte, e del cittadino o dell’impresa, dall’altra. Mentre il costo “reale” dell’uso del contante sopportato dall’economia e dalla società nel loro complesso è molto elevato. Wolman lo spiega molto bene in questa conversazione pubblicata da Gizmodo (Let’s Kill Cash: Q&A With Author David Wolman on Our Moneyless Future):
Everyone always thinks cash is cheap and fast and safe. It’s not cheap, and it’s not fast, and it’s not safe!
It can seem to be fast. If I owe you a ten dollars lunch and we’re sitting right there, and I give you the ten dollar bill, that is fast. But if you unpack that a little, to do that you have to make that ten available in an ATM from which you withdrew it, you have to secure the building that has that ATM and to make sure that money is circulating back to a place where it can be inspected so ensure it’s not deteriorated too much and has to be pulled from circulation. Every concentric circle outward, there are all these greater and greater costs. Distributing, inspecting, securing, reinspecting, threading, reissuing. And then eight years later, say we need some souped up security features. So let’s redesign and then we can reissue and reprint and reinspect and ship it all out again in our Belgian cash trucks. It’s one of those things—and that was why I wanted to do this project and the kind of writing I’m excited about—that’s staring you in the face and hiding in plain sight.
Se volete vedere che faccia ha David Wolman, ecco una sua intervista di presentazione del libro:
* * *
Qualche citazione. Il riferimento è come di consueto alle posizioni sul Kindle:
In God we better trust. [399]
Cash is a black hole for tax revenue. [854]
Noncompliance, or taxes not paid, can result from underreporting (accidental or intentional), underpayment (accidental or intentional), and nonfiling (accidental or intentional […] [876]
The Wall Street Journal reported in July 2010: “Gangsters, drug dealers and money launderers appear to be playing their part in helping shore up the financial stability of the euro zone. That is thanks to their demand, according to European authorities, for high-denomination euro bank notes, in particular the €200 and €500 bills. The European Central Bank issues these notes for a hefty profit that is welcome at a time when its response to the financial crisis has called its financial strength into question.” Banking executives as mainstream as Citigroup’s chief economist have taken note of the euro’s role as “currency of choice for underground and black economies.” [922]
One such forger was William Chaloner, an enterprising seventeenth-century British charlatan and sex-toy salesman. After his capture and conviction by Sir Isaac Newton, then head of the Royal Mint, Chaloner was hanged, drawn, and quartered. [1009]
That warring countries try to exploit paper money’s fragile worth is a reminder that without a supply of authentic cash—and trust in it—countries fall apart. Most money may be digital nowadays, but I don’t think anyone wants to run the experiment of obliterating the integrity of the greenback with a massive flood of fakes to see just how uncritical paper money’s trustworthiness has become. Do we really want to eliminate one of the last remaining tactile symbols that ties us together as one nation, under God, transacting peacefully? [1042]
The technology quest must be fun for the engineers, but I feel sorry for the cops and central bankers who have to spend their careers speaking out of both sides of their mouths. They have to make us simultaneously vigilant about counterfeits and ignorant of them. Put another way: Please keep a sharp eye out for this threat, even though it isn’t a threat because we have everything under control. Our currency is totally trustworthy. [1284]
A tax incorporated into a price tag on supermarket shelves makes us more frugal, whereas an equivalent tax added at checkout is virtually ignored. [1431]
Cash and electronic money may both be liquid, but they differ in their degree of slipperiness […] [1453]
Words, a dictionary editor once told me, are a palimpsest. Their etymologies contain the shadows of words and people from ages past. [1707]
Money and currency don’t discriminate between what we might describe as real versus virtual currencies, the way an online avatar is virtual but a hole in your roof is real. Currency is simply that which is accepted as payment, and its legitimacy and global reach is only limited by the extent of that acceptability. [2199]
[…] money is really more like a verb than a noun […] [2249]
People say anonymity is an advantage of cash, but what they really want is privacy. [2915]
There is no perfect equilibrium between the individual need for privacy and government interest in information. The best we can do is try to engineer systems that are as fair as possible and chockablock with checks and balances. [2932]
C’è anche qualche buffo errore (Caucuses per Caucasus [1655]) e qualche curiosità che fa sorridere (i figli di Bernard von NotHaus si chiamano Random e Xtra! [1981]), ma anche qualche errore un po’ più grave: “100 kWh is how much energy you need – exactly – to keep a 100-watt light bulb illuminated for 100 hours.” [2123: spiacente, per 1000 ore!]
Abbiamo già parlato, in questo blog, della scomparsa e dell’uccisione di centinaia di donne a Ciudad Juárez, nello stato messicano di Chihuahua, vicino al confine degli Stati Uniti, a partire dal 1993. Ne avevamo parlato recensendo lo sterminato romanzo 2666 di Roberto Bolaño, di cui quei fatti sono un’ispirazione importante.
La strage non è mai cessata, anche se sono passati vent’anni e Bolaño non è più qui a parlarcene.
Ciudad Juárez became infamous for attacks beginning in the 1990s that left hundreds of women dead, but as international attention moved on, the killings have continued.
Amis, Martin (2012). Lionel Asbo: State of England. London: Jonathan Cape. 2012. ISBN 9780224096201. Pagine 288. 14,28 €
totallydublin.ie
Quanto a me piaccia Martin Amis l’ho già detto altrove (qui e qui), come ho già detto che capita, e abbastanza spesso, di restare un po’ delusi.
Direi che nel caso di Lionel Asbo è anche peggio: Amis torna a raccontare la Londra contemporanea (come il sottotitolo, che era stato anche il titolo con cui il romanzo era noto nei circoli letterari mentre Amis lo stava scrivendo) e la mia speranza era che si tornasse ai fasti di quello che io considero il suo capolavoro (London Fields). Invece, nonostante l’indiscussa capacità mimetica e il perfido sarcasmo, sparsi a piene mani, il libro è molto deludente. Anzi, se mi permettete il francesismo, fa proprio incazzare. Tutto questo talento sprecato, Martin Amis: potresti essere il più grande scrittore inglese vivente, come praticamente ti scrivi da solo sui risvolti di copertina, e invece ti abbandoni alla strada più facile.
Fa rabbia vedere sprecato un talento che è capace di scrivere frasi memorabili come questa:
He took one last look around. Yes, the luxury of the garden was the luxury of space and silence; and the luxury of the library was the luxury of thought and time. [3308]
Come ha scritto Amanda Craig nella sua recensione pubblicata sull’Independent del 10 giugno 2012:
A satirical novel needs archetypes, not clichés.
E per me questa è l’ultima parola e la condanna definitiva di un romanzo che vorrebbe essere morale, e riesce a essere soltanto profondamente angosciante e spesso compiaciutamente disgustoso.
Se siete di animo sensibile, non leggete questo romanzo: non vi piacerà e vi risparmierete un bel po’ di angoscia.
* * *
Non sto a raccontarvi la vicenda. Vi basti la presentazione di Einaudi, che lo sta traducendo e lo pubblicherà a fine anno:
Lionel vince il primo premio della lotteria. È una cifra astronomica che lo trasforma di colpo in uno degli uomini più ricchi del Regno, un’improbabile figura pubblica tallonata dai paparazzi, dai tabloid e dall’ormai proverbiale circo mediatico di “nani e ballerine”. L’ignorante, rozzo, sboccato, volgare, criminale (e forse assassino), cafonissimo ma irresistibile Lionel, del resto, è esattamente quello che il pubblico brama, accogliendolo con la stessa morbosa attenzione che fino a quel momento era stata dedicata ai calciatori e alle loro mogli, ai membri della famiglia reale e alle loro amanti. Un Martin Amis mai così polemico, disperatamente divertente e sarcastico, intinge la penna nell’inchiostro della grande tradizione inglese della satira sociale (da Swift a Ballard) e disegna il ritratto ultra realistico di una vera e propria “egemonia sottoculturale globale”.
Lionel si chiama in realtà Pepperdine, come la mamma Grace (una ragazza-madre con 7 figli), ma al compimento del diciottesimo anno d’età cambia il suo cognome in Asbo, l’acronimo per Anti-Social Behaviour Order.
* * *
Giusto un paio di citazioni. Il riferimento è come di consueto alle posizioni sul Kindle:
Well, Grace Pepperdine, Granny Grace, had not attended all that closely to her education, for obvious reasons: she was the mother of seven children by the age of nineteen. Cilla came first. All the rest were boys: John (now a plasterer), Paul (a foreman), George (a plumber), Ringo (unemployed), and Stuart (a seedy registrar). Having run out of Beatles (including the ‘forgotten’ Beatle, Stuart Sutcliffe), Grace exasperatedly christened her seventh child Lionel (after a much lesser hero, the choreographer Lionel Blair). Lionel Asbo, as he would later become, was the youngest of a very large family superintended by a single parent who was barely old enough to vote. [277]
NEETs were those Not in Employment, Education or Training. NEDs were Non-Educated Delinquents. [4369]
* * *
Piccola innovazione. Ho “curato” una pagina di recensioni del romanzo su Scoop.it – Lionel Asbo.