L’esperienza inganna [Proverbi pessimisti 17]

Robin Dunbar – Grooming, Gossip and the Evolution of Language

Dunbar, Robin (1996). Grooming, Gossip and the Evolution of Language. London: Faber and Faber. 1996. ISBN: 9780571265183. Pagine 240. 6,18€.

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Non ho trovato l’edizione italiana di questo libro, ma sarei molto stupito se non fosse stato tradotto.

Di Robin Dunbar conoscevo la tesi, secondo la quale (sulla base del rapporto tra volume della neocorteccia e volume del resto del cervello, 4:1 negli umani) la dimensione dei gruppi umani stabili è di 150 membri. In realtà, questa scoperta era già stata pubblicata in un articolo scientifico (R. I. M. Dunbar (1993). “Coevolution of neocortical size, group size and language in humans“. Behavioral and Brain Sciences. Volume 16, Issue 4, dicembre 1993. pp. 681 – 694. DOI: https://doi.org/10.1017/S0140525X00032325).

La tesi del libro è affascinante (la riassumo saccheggiando la nota editoriale su amazon.it, liberamente tradotta da me):

I primati si distinguono dagli altri animali per l’intensità delle loro relazioni sociali, per la quantità di tempo che passano a curarsi il pelo l’un l’altro. Non è solo una questione di igiene; è anche per cementare i legami, fare amicizia e influenzare i propri simili. I primi esseri umani, nei loro caratteristici grandi gruppi di circa 150 persone, avrebbero dovuto passare quasi la metà del loro tempo nella toelettatura reciproca. Invece, sostiene Robin Dunbar, hanno evoluto un meccanismo più efficiente: il linguaggio. Non c’è nulla di ozioso nelle chiacchiere inutili: assicurano che un gruppo dinamico – di cacciatori-raccoglitori, soldati, compagni di lavoro – rimanga coeso.

Uomini e donne “spettegolano” allo stesso modo, ma gli uomini tendono a parlare di sé stessi, mentre le donne parlano di più delle altre persone, lavorando per rafforzare le relazioni tra donne e uomini alla base delle società. Fino a ora, la maggior parte degli antropologi ha ipotizzato che il linguaggio si sia sviluppato nelle relazioni uomo-uomo, durante attività come la caccia. La ricerca di Dunbar suggerisce che, al contrario, il linguaggio si è evoluto tra le donne.

La tesi di Dunbar è affascinante e ben argomentata, e il libro è pieno di informazioni e spunti interessanti, anche al di là del tema centrale. Ma la sua posizione è controversa e criticata da più parti: ad esempio, da Sverker Johansson, autore di in L’alba del linguaggio, un libro di cui mi riprometto di parlare un’altra volta.

Paolo Giordano – Nel contagio

Giordano, Paolo (2020). Nel contagio. Torino: Einaudi. 2020. ISBN: 9788858434208. Pagine 47. 6,99€.

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Non ho letto i romanzi di Paolo Giordano (e non so se lo farò, anche se adesso La solitudine dei numeri primi mi tenta un po’, sebbene le note di copertina me ne allontanino). Avevo molto apprezzato i suoi interventi sul Corriere della sera. Per questo ho letto questo libro, nella (falsa) convinzione che raccogliesse tutte le sue riflessioni sulla Covid-19.

Ma, come spesso mi accade, la fretta è stata una cattiva consigliera. Il volumetto è del marzo 2020, una specie di diario scritto a caldo nei primi giorni della pandemia. Questa circostanza e la brevità del testo lasciano insoddisfatti. Eppure ci sono alcune considerazioni molto belle e interessanti, come questa sulla matematica:

la matematica non è davvero la scienza dei numeri, è la scienza delle relazioni.

E questa sulla complessità:

mentre la realtà diventa sempre piú complessa, noi diventiamo sempre piú refrattari alla complessità.

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Gianni Celati – Narratori delle pianure

Celati, Gianni (1985). Narratori delle pianure. Milano: Feltrinelli. 1985-2000. ISBN: 9788807810275. Pagine 160. 6,99€.

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Non conoscevo Gianni Celati se non per sentito dire e non avevo mai letto niente di scritto da lui. Dopo la sua morte, il 3 gennaio 2022, mi sono incuriosito. Sono della Bassa, anche se sono nato a Milano, e tutta la mia infanzia e tutte le mie estati vengono da lì. Poi ho visto il breve omaggio di Davide Ferrario e Celati mi ha affascinato, per il modo di parlare e le cose che diceva.

Da Narratori delle pianure sono rimasto un po’ deluso, forse perché non mi piacciono tanto i racconti. Ma alcune storie sono belle e lo stile è molto “parlato” e “padano”, un po’ stralunato, molto ironico.

Richard Wrangham – Catching Fire

Wrangham, Richard (2009). Catching Fire: How Cooking Made Us Human. New York (NY): Basic Books. 2009. ISBN: 9780786744787. Pagine 320. 13,99€.
[L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo. Trad. it. Daria Restani. Torino: Bollati Boringhieri. 2011. ISBN: 9788833925721. Pagine 293. 9,99€]

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La tesi è quella che cominciare a cuocere gli alimenti, controllando il fuoco, è stato alla radice del passaggio dagli australopitechi al genere Homo. Ma l’excursus è veramente completo e comprende aspetti come la nascita della divisione del lavoro tra uomo e donna, oppure perché il modo che abbiamo di misurare i nutrienti è sbagliato, o la fisiologia (e la chimica, e la fisica) della digestione.

Vivamente raccomandato, anche se farà storcere il naso a qualche culture delle scienze sociali.

Stuart Isacoff – A Natural History of the Piano

Isacoff, Stuart (2011). A Natural History of the Piano: The Instrument, the Music, the Musicians – from Mozart to Modern Jazz and Everything in Between. New York (NY): Alfred A. Knopf. 2011. ISBN: 9780307701428. Pagine 385. 9,96€.
[Storia naturale del pianoforte. Lo strumento, la musica, i musicisti da Mozart al modern jazz, e oltre. Trad. it. Marco Bertoli. Torino: EDT. 2012. ISBN: 9788860409195. Pagine 338. 20,90€]

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Riprendo a pubblicare sul blog recensioni dei libri che ho letto. Saranno molto più brevi che in passato, per alleviarne l’onere per voi e per me. Scrivetemi nei commenti se volete saperne di più.

Sarà un lavorone, perché ho un sacco di arretrati.

Veniamo al libro di oggi. L’ho acquistato e iniziato a leggere quasi dieci anni fa, nell’aprile del 2013. Sotanto di recente l’ho ripreso in mano e finito.

L’idea è buona, il libro è documentato, ricco di informazioni interessanti (soprattutto nella prima parte). Eppure mi ha deluso. Troppo idiosincratico, troppo sbilanciato sul mondo statunitense. Forse anche troppa enfasi sul jazz, che pure a me piace molto. Nella musica ‘classica’ (eh sì, scare quotes), troppa mescolanza (e un po’ di confusione) tra autori e interpreti.

E poi ci sono le mie idiosincrasie. Troppo poco Sviatoslav Richter, liquidato in poche pagine. Va peggio a Emil Gilels, citato due volte e per due aneddoti, uno sullo stesso Richter e uno su Van Cliburn. Non va meglio a Maurizio Pollini, anche lui citato due volte, una come allievo di Arturo Benedetto Michelangeli e l’altra come dedicatario di …sofferte onde serene… di Luigi Nono.

Vi risparmio le mie citazioni e annotazioni: anche quelle, se volete, a richiesta.

Contro gli emblemi

Readwise mi ripropone un passaggio di Consider Phlebas di Iain M. Banks che mi sembra interessante e tuttora attuale:

It would have helped if the Culture had used some sort of emblem or logo; but, pointlessly unhelpful and unrealistic to the last, the Culture refused to place its trust in symbols. It maintained that it was what it was and had no need for such outward representation. The Culture was every single individual human and machine in it, not one thing. Just as it could not imprison itself with laws, impoverish itself with money or misguide itself with leaders, so it would not misrepresent itself with signs.

Sarebbe stato utile se la Cultura si fosse avvalsa di un qualche tipo di emblema o logo. Ma – rigida fino all’ultimo – si rifiutava di avere fiducia nei simboli. Sosteneva di essere ciò che era, e di non aver bisogno di una rappresentazione esteriore. La Cultura non era una cosa, ma ogni singolo individuo che ne faceva parte, uomo o macchina che fosse. Allo stesso modo in cui non poteva vincolarsi con le leggi, impoverirsi con il denaro o mettersi fuori strada con i leader, così non poteva ammettere di essere mal rappresentata da un segno. [libera traduzione mia]

Il punto è radicalmente libertario (o forse anarchico). Gli emblemi riducono la complessità, e come tali sono utili, alla stregua dei modelli che adoperiamo continuamente, nel metodo scientifico e nella vita quotidiana. Ma quando sono applicati alla individualità dei soggetti e alla molteplicità dei comportamenti – come accade nelle imprese, nelle istituzioni e nelle società – ne impoveriscono la ricchezza e ne banalizzano la rappresentazione.

Portare la sposa in braccio attraverso la soglia

La tradizione è diffusa in molte culture e in molti paesi.

Secondo Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Nozze#La_sposa_varca_la_soglia_in_braccio_allo_sposo) fu Plutarco di Cheronea (intorno all’anno 100 dell’era comune) a formulare tre possibili spiegazioni dell’uso, ma l’affermazione (sempre secondo Wikipedia) è priva della fonte.

Io ho scovato il passo in cui Plutarco ne parla, e ne sono abbastanza orgoglioso: è nella sua opera Moralia, al paragrafo 29. del capitolo 20, Questioni romane. Cito dall’edizione curata da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani per l’editore Bompiani (Tutti i Moralia, 2017):

Perché non consentono che la sposa varchi da sola la soglia della casa, ma gli accompagnatori la prendono in braccio? Forse perché così portarono in casa le prime mogli, dopo averle rapite, mentre esse non entrarono da sole? o vogliono mostrare che entrano costrette, e non volontariamente, dove sono destinate a perdere la verginità? o è un simbolo del non uscire e non lasciare la casa da sola, se non fosse costretta, così come costretta è entrata?

Di Pietro da Cortona – Web Gallery of Art:   Immagine  Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6489179

Per quanto pittoresco sia il riferimento al Ratto delle sabine nella prima ipotesi, dalle altre due emerge chiaramente una concezione patriarcale del matrimonio, né poteva essere diversamente nella cultura romana e anche in quella ellenistica di Plutarco. Non si può certo giudicare il passo alla luce delle sensibilità (e suscettibilità) di oggi.

A me – però – sembra molto più poetica e curiosa la spiegazione che ne dà Svetlana Aleksievič (Nobel per la letteratura 2015) nel suo Tempo di seconda mano:

Lo sposo porta la sposa tra le braccia come fosse un bambino per non farsi accorgere dallo spirito della casa. Il domovoj non ama gli estranei, li scaccia. È lui il padrone della casa, bisogna piacergli. A-a-ah… (posizione Kindle 1493)

File:Domovoi Bilibin.jpg
Ivan Jakovlevič Bilibin, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

Il domovoj è nella mitologia slava una creatura maschile, spesso di piccola taglia e coperta di peli, che alligna tra le mura domestiche e protegge l’unità familiare. In quanto nume tutelare, il domovoj era tenuto in grande considerazione dagli abitanti della casa e trattato con ogni riguardo (https://it.wikipedia.org/wiki/Domovoj).

La morte di Avicenna

Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā, più noto in Occidente come Avicenna, iraniano, attivo a cavallo dell’anno Mille, è stato il più famoso medico dell’epoca d’oro dell’Islam, oltre che chimico, fisico, astronomo, filosofo e studioso di Aristotele. Dante lo celebra nella Divina Commedia (Inferno, canto IV, v. 143), collocandolo nel Limbo tra gli spiriti magni, e in particolare tra i filosofi (presieduti da Aristotele).

Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;

Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;

e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;

Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che ’l gran comento feo.

Unknown authorUnknown author, Public domain, via Wikimedia Commons

Avicenna morì nel 1037, a meno di sessant’anni, abbastanza malamente. Lo racconta un testo curioso, che trovo citato in Curiosity di Philip Ball (qui la mia recensione: https://borislimpopo.com/2013/11/21/philip-ball-curiosity-how-science-became-interested-in-everything/): il Musaeum clausum o Bibliotheca abscondita, pubblicato postumo da Sir Thomas Browne nel 1684. Il testo è una presa in giro degli antiquari che – senza alcuna conoscenza scientifica e con una buona dose di dabbenaggine – raccattavano qua e là oggetti strani, testimonianze di prodigi, reliquie di dubbia provenienza e libri antichi contraffatti. Lo stesso Athanasius Kircher, il grande gesuita tedesco, aveva allestito al Collegio romano una Wunderkammer – il nòcciolo originario del Museo kircheriano, considerato il primo al mondo (1651) – dove esponeva una testa parlante e una macchina per il moto perpetuo. Altri autori presero in giro la stessa mania, primo tra tutti (e ben prima di Browne) François Rabelais con la lista di libri inventati, con titoli tra il buffo e l’osceno, che occupa pagine e pagine del Capitolo VII del libro di Pantagruele. Il tutto sembra un’invenzione di Jorge Luis Borges, cui si attribuisce la frase: “Scrivere grandi libri è una faticosa assurdità; molto meglio è offrirne un riassunto come se quei libri esistessero davvero”.

Nell’elenco di Browne, accanto a rarità come “una pelle di serpente generato dal midollo spinale di un uomo” e “un grande uovo di struzzo, sul quale è dettagliatamente rappresentata la famosa battaglia di Alcazar, dove persero la vita tre re”, si cita tra i libri rari e sconosciuti “An exact account of the Life and Death of Avicenna confirming the account of his Death by taking nine Clysters together in a fit of the Colick” (Un resoconto esatto della vita e della morte di Avicenna, che conferma il resoconto della sua morte per aver preso nove clisteri contemporaneamente durante una colica intestinale).

Una solenne panzana, direte voi. E invece la notizia è confermata dall’autorevole Encyclopedia Britannica, in un articolo a firma di Michael Flannery, Professor and Associate Director for Historical Collections, University of Alabama at Birmingham:

While in the company of ʿAlā al-Dawlah, Avicenna fell ill with colic. He treated himself by employing the heroic measure of eight self-administered celery-seed enemas in one day. However, the preparation was either inadvertently or intentionally altered by an attendant to include five measures of active ingredient instead of the prescribed two. That caused ulceration of the intestines. Following up with mithridate (a mild opium remedy attributed to Mithradates VI Eupator, king of Pontus [120–63 BCE]), a slave attempted to poison Avicenna by surreptitiously adding a surfeit of opium. Weakened but indefatigable, he accompanied ʿAlā al-Dawlah on his march to Hamadan. On the way he took a severe turn for the worse, lingered for a while, and died in the holy month of Ramadan.

Mentre era in compagnia di ʿAlā al-Dawlah, Avicenna si ammalò di coliche. Si curò impiegando la misura eroica di otto clisteri di semi di sedano autosomministrati in un giorno. Tuttavia, la preparazione fu inavvertitamente o intenzionalmente alterata da un assistente, che vi mise cinque misure dell’ingrediente attivo invece delle due prescritte. Questo causò un’ulcerazione dell’intestino, che tentò di curare con il mitridato (un blando rimedio a base di oppio attribuito a Mitradate VI Eupatore, re del Ponto [120-63 a.C.]). Ma uno schiavo tentò di avvelenare Avicenna aggiungendo surrettiziamente una dose eccessiva di oppio. Indebolito ma instancabile, accompagnò ʿAlā al-Dawlah nella sua marcia verso Hamadan. Durante il tragitto ebbe un grave peggioramento, resistette un po’ ma poi morì nel mese sacro di Ramadan.

Insomma, l’unica inesattezza di Browne era sul numero di clisteri (soltanto otto, non nove). E Avicenna è un martire del metodo scientifico, anche se è lecito qualche dubbio sulle sue scelte terapeutiche e soprattutto sulla capacità di selezionare assistenti fidati.

Convincere e persuadere

Convincere e persuadere hanno significati sottilmente diversi. D’altra parte, i sinonimi perfetti non esistono, ed è per questo che – soprattutto quando si ricerca la precisione, o in ambito tecnico – è meglio ripetere un termine piuttosto che cercare un sinonimo imperfetto (o, peggio, una perifrasi). Con buona pace della vostra maestra delle elementari.

In inglese, la distinzione è molto netta, tanto che alcuni considerano un errore usare i due verbi come sinonimi.

  • To convince is to cause (someone) to believe firmly in the truth of something.
  • To persuade is to induce (someone) to do something through reasoning or argument.
  • Some traditionalists deplore the blurring of distinction between convince and persuade, maintaining that convince should be reserved for situations in which someone’s belief is changed but no action is taken as a result (he convinced me that he was right) while persuade should be used for situations in which action results (he persuaded me rather than he convinced me to seek more advice). [lexico.com]

In italiano, la stessa distinzione, ancorché più tenuemente, è implicita nelle definizioni del Vocabolario Treccani:

  • Convincere è (primariamente) “indurre uno a riconoscere una cosa, ad ammettere un fatto, vincendo con prove o con buoni argomenti ogni suo dubbio o opinione contraria” e solo in secondo luogo “anche, persuadere uno a fare o non fare una cosa, a seguire un comportamento, dimostrandone la necessità o l’opportunità”.

La maestra delle elementari aveva ragione sull’accento: persuadére, non persuàdere.

Le elucubrazioni che trovate qua e là sul web, secondo cui persuadere (che contiene la radice di soave) è più delicato di convincere (che è un composto di vincere), per cui nel marketing e nel corteggiamento è meglio persuadere che convincere, non mi sembrano molto fondate: in entrambi i casi si cerca di indurre un comportamento, non di cambiare un’opinione…