Cafarnao – Caos e miracoli

Cafarnao – Caos e miracoli(Capharnaüm), 2018, di Nadine Labaki, con Zain Al Rafeea, Yordanos Shiferaw e Boluwatife Treasure Bankole.

Capharnaüm (2018)
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Un pugno nello stomaco, ma anche un melodramma curato e ben riuscito (ma perché melodramma ha ormai sempre una connotazione negativa? non ci sono capolavori anche tra i melodrammi?). Un film che ha vinto molti premi (come si vede nella locandina qui sopra), ma che ha anche ricevuto critiche negative, o quanto meno perplesse. Gioca sui sentimenti, si dice. Probabile, ma le situazioni rappresentate sono reali. Siamo noi che non vogliamo vederle, ci giriamo dall’altra parte o semplicemente le ignoriamo. Non compaiono mai nelle bolle informative e cognitive in cui viviamo.

Si è parlato di neorealismo e si è citato Ladri di biciclette. Ma al di là del fatto che, in entrambi i film, il protagonista è un ragazzino, attore non professionista preso dalla strada (e i due hanno in comune l’intensità espressiva), le similitudini finiscono qui. Nadine Labaki ha piena padronanza delle tecniche, che nei 70 anni intercorsi tra i due film hanno fatto progressi importanti, e ha uno stile proprio, completamente diverso da quello della “scuola neorealista”.

Enzo Staiola in Ladri di biciclette (1948)
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Cafarnao è un film sullo sguardo.

Lo sguardo del protagonista Zain, prima di tutto: in gran parte è girato con la macchina da presa all’altezza degli occhi di un bambino di 12 anni. In questo modo vediamo una Beirut caotica, sporca, polverosa. Siamo costretti a soffermarci sulle strade male asfaltate e piene di buche (manco fossimo a Roma), i gradini e le soglie sbrecciate, le scale, le porte aggiustate alla bell’e meglio, il traffico automobilistico all’altezza delle ruote e delle fiancate. Anche quando, a volte, vediamo la città dall’alto (dalla ruota del luna park, ad esempio), sono tetti e terrazzi sgarrupati, ingombri di cisterne, serbatoi, casotti, teli trattenuti da copertoni.

E poi il nostro sguardo, guidato dalle inquadrature della regista, che si sofferma sui volti: di Zain, del piccolo Yonas, di sua madre Rachil, e di quelli che sono a diverso titolo i “cattivi” (i genitori di Yonas, il “figlio di puttana” Assaad, Aspro il trafficante di esseri umani).

Infine lo sguardo della regista: perché questo è tutt’altro che un film ingenuo. È un film di sapiente artigianato, se non d’arte. Ti costringe a guardare in faccia, a voler vedere (le oltre due ore del film mi sono passate senza che mai mi venisse la tentazione di guardare sull’orologio quanto mancasse alla fine) quello che di solito – come dicevamo all’inizio – preferiamo ignorare. La strada scelta dalla regista non è certo quella dello straniamento brechtiano, ma quella del coinvolgimento emotivo (i pugni nello stomaco), cioè del melodramma (cui manca, forse, un po’ di cinismo e in cui, tutto sommato, il lieto fine stona e suona un po’ consolatorio). E questo forse – più delle scelte stilistiche – è quello che avvicina maggiormente Cafarnao al sentimentalismo di Vittorio De Sica e di Cesare Zavattini (ma non certo all’austera secchezza di Roberto Rossellini).

Per chiudere con una divagazione e un flashback sul neorealismo, eccovi il celeberrimo (ma poco letto) articolo che un trentatreenne Giulio Andreotti pubblicò su Libertas il 28 febbraio 1952 a proposito di Umberto D. Quello in cui De Sica è accustato di aver reso “un pessimo servigio alla sua patria”. C’è già tutta l’untuosa capziosità dell’Andreotti che abbiamo poi conosciuto fin troppo bene. Buona lettura.

«Piaghe sociali e necessità di redenzione»
Che nel valutare un film si debbano tenere presenti essenzialmente i canoni dell’arte e della tecnica, è poi per noi una norma che non dovrebbe neppure discutersi. Ed in particolare siamo sempre stati contrari agli sconfinamenti più o meno critici della “politica” nel campo cinematografico, reputando assai pericoloso le confusioni che si determinano tutte le volte che ci si pone dinanzi ad una pellicola senza concedere in partenza quelle libertà specifiche che derivano dal carattere di opera di fantasia e non di documentazione che un film spettacolare, normalmente, deve avere.
È però altrettanto indiscutibile che quando una Nazione produce, in qualità e quantità, tanto da attrarre l’attenzione sia degli esperti che di larghe masse di pubblico-spettatore, la produzione cinematografica (nelle sue espressioni più qualificate) venga ad assumere una importanza nei valori nazionali che obbliga ad integrare i suddetti canoni con qualche considerazione, o se volete con qualche preoccupazione, aggiuntiva.
Questo spiega perché in una rivista di natura tipicamente politica noi ci occupiamo oggi dell’ultimo film di De Sica, narrante la vicenda triste di un pensionato. Il nome di Vittorio De Sica è tra i pochi della cultura italiana contemporanea che hanno internazionalmente grande notorietà e forti progressive correnti di simpatia. Siamo lietissimi di constatarlo, tanto più che –- sia pure, parzialmente, per ragioni di indiretta polemica – questa fama è condivisa anche in Paesi dai quali non siamo abituati a vedere esaltati uomini di pensiero e di scienza italiani, se non appartengano e fin tanto che restino aderenti ad un qualificato partito nazional-internazionalista.
Ogni film di De Sica è riguardato pertanto da noi con la premessa interiore che il mondo, vedendolo, parlerà oltre che di arte e di tecnica, dell’Italia, dell’Italia di oggi.
Domandiamo all’uomo di cultura di sentire la sua responsabilità sociale che non può limitarsi a descrivere i vizi e le miserie di un sistema e di una generazione ma deve aiutare a superarli. Missione imprescindibile del dotto è infatti l’insegnamento.
De Sica mostra chiaramente – e chi potrebbe dargli torto? – di non considerare quello attuale come il migliore tra i possibili ordinamenti terreni, gravato com’è da contrasti violenti, da sperequazioni paurose,da esplosioni di odio e di insincerità.
Ma la stragrande maggioranza degli italiani desidera con altrettanto intensa aspirazione, magari subcosciente, la costruzione di una società migliore che colmi gli abissi e cancelli le esasperate divisioni. Il difficile sta nel saper individuare le strade e nel riuscire a far valere i programmi per questa moderna «redenzione» che deve esser fatta senza annullare le grandi conquiste delle libertà democratiche.
Vediamo, così, il pensionato Umberto D. Egli si muove in un mondo in cui manca completamente un qualunque principio di solidarietà umana. Lo Stato dà al suo antico servitore un trattamento economico insufficiente a pagare il modesto alloggio e a procurarsi alle mense dell’Assistenza pubblica un pasto che il vecchio tra l’altro generosamente divide con il suo vecchio cane. Tirannica e dura l’affittacamere, gentile solo con compiacenti avventori; asprigna la custode della mensa, esoso il compratore di libri, profittatore lo stesso compagno di guai quando si veste dei panni del piccolo commerciante, spietato e convenzionale tutto l’ambiente dell’ospedale. Restano una servetta di paese ed un cane; l’una e l’altro però egualmente mossi in un solo meccanismo di sensazioni buone e reazioni vegetative.
De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l’ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento che giovi nella realtà a rendere domani meno freddo l’ambiente che circonda le moltitudini di quanti in silenzio si consumano, soffrono e muoiono.
E se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria.

È stato detto, in questo dopoguerra, che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale , bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un tipo di produzione, ma sempre con il limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni; senza del quale ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione. De Sica ha ora annunciato un suo giro d’Italia in cerca di cinematografiche rivelazioni. Noi ci auguriamo sinceramente che egli non si fermi a raccogliere soltanto le male arti delle donne traviate, i furfantelli della cronaca nera, l’isolamento sterile dell’una o dell’altra sotto-classe. Ma che faccia spaziare invece il suo obbiettivo sopra un campo più vasto di esperienze, rammentando che ovunque ci sono rivoli di bene che, individuati, fruttificano e che bilanciano la marea del male, in una sintesi che egli può e sa comprendere e descrivere. Era, del resto, il dono divino di un suggestivo raggio di sole che faceva sorridere gente diseredata nel precedente film di De Sica tra i barboni di Milano. Non dispiaccia a De Sica se noi lo preghiamo di non dimenticar mai questo minimo impegno di un ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l’umanità a sperare e a camminare. Ci sembra che il ruolo mondiale dal nostro regista meritatamente acquistato dia a noi il diritto di richiederlo e a lui il dovere di perseguirlo.

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