Notre-Dame, la bibbia di pietra e lo stormo d’uccelli

Dopo l’incendio della cattedrale di Notre-Dame a Parigi sono state dette e scritte molte cose, spesso irrilevanti o stupide. Non voglio aggiungermi al coro.

Però vorrei dire che – nella mia modesta opinione – un punto centrale delle riflessioni che la distruzione della cattedrale già sta suscitando è quello dell’identità. Non tanto del rapporto tra il monumento e l’identità francese, che pure esiste ed è rilevante, ma della stessa identità della cattedrale stessa. L’identità di cui parliamo qui non è l’identità nella sua accezione logico-matematica di perfetta eguaglianza, ma in quella propria del linguaggio comune quando si fa riferimento all’identità di una persona come “entità distinta dalle altre e continua nel tempo”, come la definisce il Vocabolario Treccani. Non c’è dubbio che ognuno di noi ha il senso della propria identità, “il senso e la consapevolezza di sé” (è sempre i Vocabolario Treccani che ci soccorre), anche se in “un essere umano adulto ogni giorno muoiono dai 50 ai 100 miliardi di cellule” e in “un anno la massa delle cellule ricambiate è pari alla massa del corpo stesso” (lo afferma qui il prof. Paolo Pinton). E anche a fronte di un evento traumatico, come l’amputazione di un arto, non smettiamo neppure per un secondo di pensare che, nonostante quella perdita, siamo rimasti noi stessi.

Lo stesso – è quello che voglio dire – accade per le città e per gli edifici. L’identità di una città, nel senso che ho cercato di argomentare, non cambia al mutare delle vicende demografiche o dell’estensione dell’abitato. L’identità di una cattedrale non cambia per effetto dei periodici interventi di manutenzione cui è sottoposta. E, secondo me, non cambia neppure quali che siano le travagliate vicende che attraversa nella sua vita: dalla fantasia neogotica di Viollet-le-Duc nella seconda metà del XIX secolo a quella che sarà la ricostruzione da intraprendere ora.

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Border – Creature di confine

Border – Creature di confine (Gräns), 2018, di Ali Abbasi, con Eva Melander, Eero Milonoff, Jörgen Thorsson.

Eero Milonoff and Eva Melander in Gräns (2018)
imdb.com

Diciamolo sùbito, è un film molto bello, originale, fa riflettere senza essere didascalico. Vi consiglio vivamente di andarlo a vedere.

Ma cominciamo con una divagazione.

Dio si muove per vie misteriose, secondo la tradizione e un inno scritto dall’inglese William Cowper nel 1773.

God moves in a mysterious way
His wonders to perform;
He plants His footsteps in the sea
And rides upon the storm.

Congregational singing (Michael Mahoney) Grace Community Church – Sun Valley, California Text: William Cowper / K. Jason French

Anche la luna e le donne lo fanno, secondo gli U2:

She’s the wave
She turns the tide
She sees the man inside the child, yeah
It’s alright, it’s alright, it’s alright
She moves in mysterious ways

Anche il marketing si muove per vie altrettanto misteriose: altrimenti, come spiegare che un titolo in svedese (Gräns, che significa “confine”, come persino la mia limitata conoscenza del tedesco Grenz e un minimo di intuito mi permettono di inferire) è stato tradotto nell’inglese Border, non solo in Italia, ma sugli schermi di quasi tutto il mondo? Comprese Francia e Germania, di solito così gelose della loro lingua (ma esclusi portoghese, basco, turco, malese, russo, bielorusso e ucraino, secondo Wikipedia)? Forse per mantenere quel modicum di ambiguità consentito dalla polisemia (il tedesco Grenz, e quindi forse anche lo svedese Gräns, significano sia “confine” sia “frontiera”, come l’inglese border)?

Tina, infatti, lavora ai controlli di frontiera, alla dogana di un porto. Ha un’abilità straordinaria: ha fiuto. Letteralmente. Fiutando l’aria individua le persone che cercano di far entrare illegalmente in Svezia cose proibite, dall’alcool a una scheda di memoria piena di immagini di pedofilia…

Di più non posso raccontarvi perché – anche se il film non è un thriller – ve ne guasterei la visione.

La frontiera di cui si parla, però (e questo ve lo posso dire), non è soltanto la linea di demarcazione tra Stati: è anche quella che utilizziamo per separare le categorie che strutturano il nostro modo di pensare, e soprattutto quelle che hanno a che vedere con l’identità.

Chi è come noi, e chi è diverso da noi? Che cosa concorre a definirlo?

L’aspetto fisico, innanzitutto. E poi certe regolarità di comportamento, come le abitudini alimentari. Troviamo disgustoso che un umano si nutra di insetti vivi e di lombrichi; e ancora più disgustoso che gli piacciano, che li mangi con evidente delizia. Ma lo troviamo normale, e dunque non ci disgusta, che lo faccia un formichiere o un uccello. Quanto all’aspetto fisico, applichiamo agli animali e agli umani canoni di bellezza diversi: un umano che si discosta da questi canoni è brutto, se se ne discosta poco (chi di noi non lo ha detto o pensato vedendo una ragazza o un ragazzo brutto? quanto del bullismo che dilaga soprattutto tra gli adolescenti – a scuola per esempio – si fonda su un giudizio estetico? è brutto/a, è grasso/a, è brufoloso/a?). e se se ne discosta molto è un mostro (e le parole sono pietre: un mostro sotto l’aspetto fisico lo è certo, almeno implicitamente, per un automatismo mentale, anche sotto quello morale). Dentro o dietro a questo giudizio c’è insicurezza sulla nostra identità: io non sono così, vero? E la sicurezza ce l’offre il gruppo dei pari, o sarebbe meglio dire, degli eguali. Mi omologo (pensiamo ancora agli adolescenti) negli outfit, nella musica che sento, nelle opinioni (cento anni fa il fascismo, cinquanta anni fa il comunismo, oggi…) e il gruppo mi considera uno dei suoi membri; non lo faccio, perché non voglio (raramente) o non posso (quasi sempre) e allora non sono soltanto escluso, ma anche (spesso) attivamente perseguitato.

Non lo facciamo con gli animali: loro sono abbastanza diversi da non mettere in questione la nostra identità. Se e quando li perseguitiamo è perché li percepiamo come sporchi (i piccioni, i topi, gli scarafaggi, le mosche) o dannosi (a suo tempo i lupi e gli orsi, ma anche le donnole e le volpi). A volte li troviamo anche brutti, ma come specie o sottospecie (gli gnu, i mandrilli, certe razze di cani): ma non ci viene in mente di dire di un singolo esemplare di scimpanzé “ma quanto è brutto quello”; né di una coppia di bonobo intenti a copulare “che abitudini disgustose” (anche se una mia collega, una ventina di anni fa, lo disse vedendo una coppia di lontre di mare che lo facevano all’Oceanário di Lisbona).

E già, dimenticavo. Tra le abitudini, oltre a quelle alimentari, ci sono quelle sessuali: i nostri tabù in materia sono ancora più forti. Il sesso si fa tra maschio e femmina, adulti, fuori dalla vista di spettatori anche casuali (quante tende alle nostre finestre!), e secondo i promotori del Congresso mondiale delle famiglie esclusivamente a fini riproduttivi. Tutto il resto è perversione, anzi fa schifo (“Schifosi!”, è il commento delle comari benpensanti). È la forza del tabù sessuale che indusse quella mia collega, per quanto laureata e dirigente in un istituto di ricerca, a stigmatizzare i giochi erotici delle lontre di mare.

La frontiera tra uomini e animali è quindi abbastanza netta. Poco problematica, quanto meno (anche se le immagini di Border sono lì a mostrarci che – tra addomesticarli e allontanarli dalla nostra vista in un loro regno selvaggio – un diverso rapporto con gli animali è possibile). E se ci fosse una terra di mezzo che ci mette in difficoltà, rispetto alla quale non sappiamo come comportarci? Se esistessero dei “quasi umani”, mitici o reali? I Neanderthal con cui i nostri antenati Homo sapiens si mescolarono, riproducendosi, anche se alla fine ne causarono l’estinzione? O le antiche popolazioni europee che le migrazioni degli Yamnaya soppiantarono (ne abbiamo parlato qui)?

Border, senza essere didascalico, ci fa riflettere su questo, presentandoci tutte le possibili “strategie” a nostra disposizione, che abbiamo applicato e applichiamo ai selvaggi, ai nativi, ai pellirosse, ai musi gialli, ai negri, agli ebrei, ai rom: ieri che colonizzavamo le loro terre e oggi che paventiamo un’invasione. Strategie che vanno dallo sterminio, all’istituzionalizzazione (galere, campi o manicomi, non importa poi tanto, come insegna Foucault), all’assimilazione forzata (dalla mutilazione alla stiratura dei capelli, all’imposizione di vestiti “decenti” e della “posizione del missionario”…). Ci invita (anche qui senza forzature) a chiederci dove passano questi confini, e se sono proprio necessari, e a quale scopo. Ed evita la scorciatoia “buonista” di farci pensare che i diversi sono, per il solo fatto di essere diversi, anche benevoli o comunque irresponsabili delle loro azioni.

Non dà risposte. E infatti io, che il film l’ho visto ieri sera, sono ancora qui a pormi le domande. Mi spiego meglio: non solo non ho tutte le risposte, non ho ancora neppure tutte le domande. E questo – credetemi – in un libro, in un film, in uno spettacolo teatrale, per me è un segno certo di grandezza.