Empirico [2]

Secondo il Vocabolario Treccani:

  1. Nel linguaggio filosofico, di ciò che appartiene all’esperienza, opposto a innato, razionale, sistematico, puro. In particolare:
    a.
    In antitesi a razionale, che si riferisce alla metodologia di alcune scienze (per es. la fisica), le quali esigono il concorso attuale dell’esperienza (in questo senso è sinonimo di sperimentale).
    b.
    Nella filosofia kantiana, in antitesi a puro, di ciò che nel complesso della conoscenza non deriva allo spirito dalle sue stesse forme, ma perviene ad esso dal di fuori (in questo senso è sinonimo di a posteriori).
    c. In contrapposizione a sistematico, che risulta immediatamente dall’esperienza e non si deduce da altra legge o proprietà conosciuta: criterî empirici; norme empiriche; spiegazioni empiriche; con significato peggiorativo, che è il risultato di osservazione superficiale, priva di principî e norme metodiche: metodo empirico; medicina empirica; medico empirico (in questo senso anche sostantivo maschile: si è fatto curare da un empirico); rimedî empirici, tratti dalla comune esperienza, non scientifici.
  2. In botanica, diagramma empirico, la rappresentazione grafica di un fiore costruita in base a quanto si osserva effettivamente (in contrapposizione a diagramma teorico).
  3. In fisica, detto di relazione o legge descrivente un certo fenomeno, la quale derivi dall’esperienza diretta e, almeno inizialmente, non trovi esatta giustificazione nell’ambito di una teoria generale del fenomeno in questione. Grandezze empiriche, grandezze il cui valore e le cui relazioni con altre grandezze non possono essere valutate altrimenti che con l’esperienza.
  4. Nella tecnica, formule empiriche, le relazioni dedotte dall’esperienza con le quali si riesce a dimensionare con una certa approssimazione elementi strutturali di cui risulterebbe difficile, se non impossibile, il calcolo esatto.
  5. In chimica, formula empirica, sinonimo meno comune di formula bruta.

Insomma, anche dal brevissimo excursus che un vocabolario può consentire si comprende che il termine empirico non ha sempre avuto la connotazione positiva che tendiamo ad attribuirgli ora. Ma questo lo dico per inciso, e del resto ne avevmo già parlato in un altro post.

Ci torno su perché vorrei diffondermi di più sugli strani percorsi e detour (sugli strani viaggi, come vedremo) che ci consente l’etimologia. La derivazione immediata è abbastanza lineare e comune a molte parole della nostra lingua: da latino dal empirĭcus, a sua volta ripreso dal greco ἐμπειρικός, che è l’aggettivo derivato dal sostantivo ἐμπειρία , “esperienza”. Qui le cose si fanno appena più interessanti, perché ἐμπειρία è una parola composta da ἐν, ἦν (“in, all’interno”) e πεῖρα (“prova”): come a dire che con l’esperienza siamo posti in grado di saggiare la realtà all’interno, dall’interno. La radice proto-indoeuropea di πεῖρα è  apparentata con significati che ruotano intorno a “tentare, rischiare” e ci ha dato parole come perito e perizia, esperto ed esperire, sperimentare, pratico, prova. Fin qui tutto bene, siamo pur sempre nel medesimo ambito semantico. Ma poi, anche in italiano, ci ha dato anche pericolo, e persino pirata. In inglese abbiamo fear (paura, strettamente collegata al pericolo, quindi) e in tedesco fahren (viaggiare). Viaggiare era e resta un’attività pericolosa, ma consente di accumulare esperienza: e il cerchio si chiude.

Da Psycho di Alfred Hitchcock

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Gli anziani e i giovani

Mentre scrivo non so se la contestata norma che cancella il cosiddetto “riscatto” degli anni di laurea (e di naja) ai fini del computo dell’anzianità lavorativa è ancora viva o se sia stata soffocata nella culla, a fronte dell’ondata di proteste che ne hanno accompagnato l’annuncio.

Ho notato però che la maggior parte dei commenti (cito tra i tanti che ho letto quello dello Scorfano ) si concentrano sul torto (proprio nel senso di contrario del diritto, e di tradimento di un’obbligazione presa) subito da chi la laurea (e/o la naja) l’aveva “riscattata” pagando il riscatto di tasca propria, e ora si vede costretta a lavorare più anni per raggiungere l’anzianità che permette di andare in pensione. E semmai si parla dei giovani, come fa anche lo Scorfano, è per sottolineare il danno che anch’essi subiranno in termini di protrarsi dell’attesa che si rendano disponibili le posizioni aperte dal turnover per pensionamento.

Non mi sembra invece di aver trovato un’altra considerazione. La norma che ci si accinge ad abrogare costitutiva un incentivo al proseguimento degli studi e al completamento dell’istruzione terziaria (come si chiama l’insieme delle variegate prospettive universitarie). Un incentivo tutto sommato sano, che svuotava di significato economico l’alternativa per il giovane al termine dell’istruzione secondaria (sì, lo so, in un mercato del lavoro funzionante e il nostro è oggi ben lontano da essere così) tra iniziare a lavorare sùbito, accumulando anni di anzianità lavorativa ma senza arricchire il proprio capitale umano, e proseguire gli studi nell’istruzione terziaria, accumulando capitale umano al costo degli anni d’anzianità. La norma sul “riscatto” annullava questo costo (in modo virtuoso, cioè facendo riferimento alla durata standard dei costi, e quindi incentivando a restare “in corso”).

Un incentivo che andava nella direzione giusta, perché uno dei problemi dell’Italia è la bassa quota persone che hanno un titolo d’istruzione terziaria. L’obiettivo dell’Unione europea per il 2020 è che abbiano un titolo terziario il 40% delle persone tra i 30 e i 34 anni. L’Istat ha fatto il punto della situazione nel suo Rapporto annuale presentato lo scorso maggio (io cito dalla Sintesi letta dal presidente Giovannini in Parlamento, ma potete trovare il testo completo qui).

Nel 2009 più di un terzo dei paesi dell’Unione europea aveva già raggiunto la quota del 40 per cento di 30-34enni in possesso di un’istruzione terziaria: l’Italia presenta, invece, un valore molto basso di questo indicatore (19,8 per cento nel 2010), collocandosi al quart’ultimo posto nella graduatoria europea. Il livello attuale dista più di 12 punti percentuali dalla media dell’Ue.

Grazie all’introduzione dei nuovi cicli universitari, negli ultimi anni la quota di laureati mostra per l’Italia una contenuta crescita (meno di cinque punti in sei anni), ma questo non ha chiuso né il forte divario territoriale esistente a sfavore del Mezzogiorno, né quello di genere, questa volta a favore delle donne, per le quali l’indicatore è più elevato di circa nove punti rispetto a quello calcolato per gli uomini (24,2 per cento contro 15,5 per cento nel 2010). Peraltro, le tendenze più recenti indicano un affievolimento sia della domanda potenziale di istruzione terziaria, con un calo dei diplomati tra i 19enni, sia di quella effettiva, con una continua riduzione, dopo il picco nel 2002/2003, delle immatricolazioni universitarie rispetto alla popolazione dei diplomati.

Scusate se l’ho fatta lunga, ma adesso dovrebbe essere chiaro che l’abrogazione del “riscatto” – oltre a danneggiare gli “anziani” prossimi a ritirarsi dal lavoro e i “giovani” in attesa di occupare il loro posto – introduce un ostacolo al conseguimento degli obiettivi europei (a parole condivisi e accettati dal nostro Governo) e contribuisce a peggiorare una situazione già critica. È di fatto un incentivo a non proseguire gli studi.

Gli economisti hanno versato fiumi di inchiostro sulla possibilità che gli incentivi generino effetti perversi e indesiderati, e hanno sviluppato tutta una terminologia appropriata. Noi persone comuni che parliamo la lingua della strada diciamo semplicemente: Complimenti, bella stronzata!