Hamid, Mohsin (2007). Il fondamentalista riluttante (trad. Norman Gobetti). Torino: Einaudi. 2008. ISBN 9788858402061. Pagine 134. 1,99 €

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Mannaggia alle promozioni quotidiane di Kindle e alla mia dabbenaggine. Un giorno o l’altro finirò sul lastrico per colpa di Amazon e della mia dabbenaggine. Per mia fortuna, spesso le proposte riguardano libri che non leggerei neppure se me li regalassero. Anzi, dovrebbero pagarmi, e bene, per farmeli leggere.
Qui era il titolo a incuriosirmi: un titolo bellissimo. Riluttante è una parola bellissima. Fa venire voglia di riluttare tutta la vita, e non è escluso che prima o poi lo faccia. Anche quando era uscito il film, il titolo attirava la mia attenzione.
Chissà perché poi, quando ho letto il nome dell’autore, ho dato per scontato che scrivesse nella sua lingua, arabo, urdu o punjabi che fosse. Invece l’autore ha vissuto a lungo e studiato negli Stati Uniti prima di tornare a Lahore (sotto questo profilo, il romanzo è in parte autobiografico) e scrive in inglese. E così ho anche violato la regola che mi sono dato di leggere i libri in originale quando sono scritti in una lingua che leggo correntemente (cioè l’inglese).
Il romanzo non è brutto, ma neppure memorabile. È scritto e strutturato in modo molto tradizionale, a meno che non si voglia considerare “sperimentale” il ricorso alla cornice narrativa: il protagonista racconta la sua storia nel corso di una serata a Lahore, un po’ come Marlow racconta Cuore di tenebra su una nave che aspetta la marea favorevole per uscire dal porto di Londra. Ci deve avere pensato anche Hamid, perché cita il romanzo di Conrad nel suo. Potrebbe essere una coincidenza, però, ed è curioso che commetta l’errore (per la verità molto frequente) di confondere il Charlie Marlow conradiano con il Philip Marlowe investigatore privato creato da Raymend Chandler:
Da allora mi sono sentito un po’ come un Kurtz in attesa del suo Marlowe. [pos. Kindle 1767]
Poco altro da dire. Una scrittura piacevole, senza scosse, che scorre come l’acqua. Alla fine non resta quasi niente, se non l’irritazione per l’11 settembre, che è un luogo comune tanto comune da far venir voglia di chiudere subito il libro. Trovo sorprendente che il romanzo sia stato selezionato (short-listed) per il Booker Prize.
Una citazione sola, che però riassume tutto il romanzo:
«Hai mai sentito parlare dei giannizzeri?» «No», dissi io. «Erano ragazzi cristiani, – spiegò, – catturati dagli ottomani e addestrati per essere soldati in un esercito musulmano, a quel tempo il piú potente esercito del mondo. Erano feroci ed estremamente leali: avevano lottato per cancellare dentro di sé la propria cultura, perciò non avevano piú nient’altro a cui rivolgersi».
Fece cadere la cenere della sigaretta in un piattino. «Quanti anni avevi quando sei andato negli Stati Uniti?» mi chiese. «Ci sono andato a fare l’università, – dissi. – A diciotto anni». «Ah, molto piú vecchio, – rifletté lui. – I giannizzeri venivano presi da bambini. Sarebbe stato molto piú difficile farne dei devoti all’impero adottivo se avessero avuto ricordi che non potevano dimenticare». [1463]
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