Mulholland Drive

Mulholland Drive (Mulholland Dr.), 2001, di David Lynch, con Naomi Watts, Laura Harring e Justin Theroux.

Naomi Watts in Mulholland Dr. (2001)
imdb.com

Visto quando uscì (a Parigi, ricordo) e rivisto pochi giorni fa.

La prima volta mi era sembrato molto più incomprensibile che in questa seconda visione. Ero uscito dalla sala affascinato dalle immagini, dalla maestria del regista, dalla bellezza delle scene e della musica, dalla bravura delle attrici (e soprattutto di Naomi Watts). Ma ero confuso: che cosa avevo visto? che storia mi avevano raccontato? Mi ero rifugiato in poche certezze impressionistiche: il rinvio a un film di culto (almeno per me: Eva contro Eva di Mankiewitz), il cinema sul cinema (troppi esempi e riferimenti per citarli tutti), Hollywood come bosco sacro, La tempesta di Shakespeare (“We are such stuff / As dreams are made on, and our little life / Is rounded with a sleep.”). Poco più. D’altra parte, come raccomanda lo stesso Lynch: Silencio!

C’era poi un fondo d’irritazione: la suspension of disbelief può tutto. Ci fa credere a Biancaneve e i sette nani, a Babbo natale e alla Befana, all’intero pantheon delle divinità, alla “favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude”. E può tanto più, quanto più si mettono al suo servizio le tecnologie (in senso lato): la voce ipnotizzante di Omero che racconta la guerra di Troia, la scrittura romanzesca, il cinema (lo specifico filmico di Pudovkin). E adesso la realtà virtuale. Epperò – mi dicevo e mi dico ancora – al di là di un certo limite non vale. Il narratore, lo scrittore, il regista si prende gioco di noi. Non è facile stabilire la linea di confine, eppure c’è. Per il romanzo poliziesco ce n’è più d’una (ne ho parlato in questo blog, in un post chiamato proprio Regole del buon romanzo poliziesco)

In quasi vent’anni, a me e al mendo sono successe tante cose.

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