È il brano celeberrimo in cui si racconta il mito dell’uomo dimezzato, che va cercando la metà perduta. Tutti lo ricordano e lo citano, ripescandolo dai ricordi scolastici, ma in genere vagamente e, soprattutto, dimenticando che il discorso lo fa il commediografo Aristofane, e quindi è fondato il sospetto che non stia parlando sul serio, ma vi sia un intento satirico.
Il brano occupa il capitoli XIV-XVI e io riporto qui la traduzione di Francesco Acri pubblicata da Liber Liber.
[XIV]
E cominciò cosí Aristofane:
Certo, o Erissimaco, io ho in mente di parlare in modo diverso di come avete fatto tu e Pausania. Perché a me pare che gli uomini non la sentano la possanza dell’Amore; ché se davvero la sentissero, gli fabbricherebbero grandissimi templi e altari, e gli farebbero sacrifici grandissimi: cosa che ora non si fa e si dovrebbe fare, conciossiaché egli sia di tutti gli Iddii il piú benigno inverso gli uomini, essendo guardiano loro e medico; e, quando e’ fossero sanati da lui, conseguirebbero la maggior beatitudine che mai fu al mondo. Io dunque mi proverò di contarvi la sua possanza; e voi, facendola da maestri, la conterete poi agli altri.
Primieramente conviene che voi conosciate la natura umana, e i mutamenti ch’ella ha patito. Una volta la natura nostra non era qual’è ora, ma tutt’altra; imperocché prima eran tre i generi degli uomini, non già due come ora, maschio e femmina. E’ ce n’era anche un terzo, fatto di tutti e due insieme misti, il quale oggimai è spento, e ne rimane solo il nome. In vero, quest’altro genere era uomodonna; e la figura sua, come il nome, aveva e del maschio e della femmina: ora, come detto è, il nome solo rimane e ad infamia. E tutta la figura dell’uomo era arritondata, avendo ella torno torno il dorso ed il costolame; e aveva quattro mani e gambe, e sopra il tondo collo due facce, simiglianti in tutto. E fra le due facce, rivoltate di contro l’una all’altra, aveva un solo capo, e orecchie quattro, e vergogne due: e da ciò ch’io dico, il resto ve lo potete figurare. Camminava ritto come ora per quel verso che aveva voglia; ma quando si cacciava a correre, non altrimenti che quei tali che facendo del corpo ruota e buttando attorno ritte le gambe si rigirano in cerchio, cosí si rigirava in cerchio pur esso; ma molto ratto, da poi che si appoggiava sovra a otto membra. Pertanto erano tre i generi, e cosí fatti; perciò che il maschio trasse nascimento dal sole, e la femmina dalla terra, e quello che della femmina aveva e del maschio, dalla luna, siccome quella che ha della terra e del sole. E però tutti e tre i generi avevano figura tonda e il camminare a modo di ruota, imperocché essi somigliavano ai loro parenti; e per la forza e la gagliardia erano terribili, e avevano grandi idee.
Or bene, saltò loro in capo di pigliarsela nientemeno che con gl’Iddii: e quello che Omero narra di Efialte e di Oto, narrasi di loro, cioè ch’ei tentarono di montare su in cielo per porre le mani addosso agli Iddii.
[XV]
Il Giove e gli altri Iddii ebbero consiglio sopra quello che s’avea a fare, e avevan la testa abbaruffata: ché, d’una via non potevano, fulminandoli come i giganti, ammazzarli, e spegnere la loro razza (perché, una volta spenta, addio onori e sacrificii); d’altra via non potevano lasciarli baldanzeggiare. Cerca, cerca, – Pare a me l’ho trovato un modo, – cosí disse Giove, – per far ch’eglino, senza cessar d’esser uomini, pure, per sentirsi un po’ men di gagliardia in corpo, pongano giú la baldanza. Perché io or ora fenderò ciascuno di loro per lo mezzo, sí che essi ne saranno sgagliarditi, e insieme, moltiplicando in numero, a noi altri renderanno di piú, e cammineranno su due gambe: e se ancora e’ mi faranno gli spavaldi, se non la finiscono, un’altra volta dimezzerolli, in maniera che cammineranno su una gamba sola, saltacchiando come si fa al giuoco degli otri.
Cotali cose dette, preso ciascun uomo lo sparò come fan quelli che taglian per lo mezzo frutta per acconciarle, o come quelli che con un crine taglian le uova per lo mezzo. Qualunque egli tagliasse, commise ad Apollo di risvoltargli la faccia e lo smezzato collo dalla parte del taglio, acciocché l’uomo, in quello riguardando, si sbaldanzisse: e commisegli di richiuder la piaga. E Apollo istravoltò la faccia, e tirando d’ogni parte la pelle verso alla pancia, che cosí ora ella ha nome, come un che restrigne una borsa, aggroppolla in sul mezzo di essa pancia, sí che i margini, raccolti insieme, fecero una boccuccia la quale s’addimanda umbilico; e le molte crespe spianò e lisciò, e raddrizzò i petti, avendo in mano un cotale istrumento quale usano i calzolai per istirare sulla forma le pieghe del cuoio; ma non sí che non ne lasciasse alcune per la pancia e attorno all’umbilico, per ricordanza dell’antico castigo. Poi che fummo noi tagliati per lo mezzo, ciascuna metà desiderando la sua compagna, elle si congiungevano, e, gittandosi attorno le braccia e forte avviticchiandosi tra loro per la voglia d’appiccicarsi, si morivano dalla fame e dall’ozio per non voler nulla fare l’una senza dell’altra. E quando una delle metà moriva e l’altra rimaneva, la rimasta cercavane un’altra, e se le abbarbicava, vuoi ch’ella s’abbattesse a una metà d’intera donna, ciò che si chiama ora una donna, vuoi che alla metà d’un intero uomo; e per tal modo si consumavano.
Impietosito Giove, ritrovò un nuovo argomento: trasferisce le loro vergogne dalla parte davanti; imperocché insino allora le avevano avute di fuori, generando, non già fra loro, ma in terra, come le cicale. Trasferí dunque le lor vergogne dalla parte davanti, e ordinò che la faccenda della generazione se la spicciassero fra loro, il maschio fecondando la femmina; per questa ragione, acciocché se mai un uomo s’avviticchiasse a una donna, e’ dovessero procreare e per tal modo salvare la sementa umana; se poi un maschio ad un maschio, e’ dovesse venir loro sazietà degli abbracciamenti, e dovessero smettere e rivolgere la mente al lavoro e alle faccende della vita. Tanto tempo è dunque che l’Amore ci s’è piantato in noi; l’Amore che ci rinfranca nell’antica nostra condizione; l’Amore che, facendo a piú potere di due uno, risana la natura dell’uomo.
[XVI]
Ciascuno di noi pertanto è un simbolo d’uomo, da poi che, da un che era, fu tagliato in due come le sogliole; e però ciascuno cerca sempre l’altra metà sua. E tutti quegli uomini che son taglio di quello che era allora uomodonna, sono donnaiuoli: e a questo genere appartengono la piú parte degli adulteri, e similmente le donne omaiuole e adultere. Le donne poi che son taglio di donna, agli uomini non ci abbadano tanto, ma stanno piuttosto coll’animo rivolto alle donne: appartengono a questo genere le donne donnaiuole. Quelli poi che son taglio di maschio, sono mascaiuoli; e in sino a tanto ch’e’ son piccoli, appunto perché e’ son taglio di maschio, son vaghi d’uomo, e a giacere e ad avviticchiarsi con uomini prendono diletto: questi son fanciulli e giovinetti i piú bravi del mondo, perciò che hanno maschia natura. C’è, è vero, di quelli che li chiamano sfacciati: e’ mentono per la gola, perciocché costoro fanno quel che fanno, non per isfacciataggine, ma per ardire e fortezza e maschiezza, amando poi in fin de’ conti il lor simile. Una prova ella è che solo cotali uomini, venendo a età perfetta, riescono nelle faccende del comune, poi che non li tira la voglia di nozze e figliuoli, e per conto loro sono assai contenti di fare insieme vita da scapoli. Son cosí fatti dunque l’amator di fanciulli, e il fanciullo che ama l’amatore suo, come quelli che solo del loro simile son vaghi. E quando l’amator di fanciulli, o chicchessia, e la metà sua, s’abbattono insieme, subitamente nasce in cuor loro meravigliosa benevolenza, dimestichezza, amore; tanto che, per dirla, non voglion piú discostarsi manco un momento d’ora. E quelli che perseverano tutta la vita stando insieme sono appunto costoro, i quali neanco sanno essi quello che si vogliono: ché non pare sia l’amoroso piacere quello che li fa stare insieme con tanto affetto; anzi è chiaro che la loro anima è desiosa di qualcosa altra che non sa dire, ma pure indovina e significa ombratamente. Imperocché, se in quello che si giacciono insieme, Vulcano si facesse innanzi co’ suoi ferramenti e loro dimandasse: – O uomini, che è che volete voi l’un dall’altro? – E, se stando essi dubbiosi, dimandasse loro di nuovo: – Forse desiderate diventare una cosa medesima, tal che mai vi abbiate a spiccare né di notte né di giorno? Se questo desiderate, io vo’ struggervi, fondervi in maniera che diveniate da due uno, e, siccome uno, ve ne stiate insin che c’è vita, in comunella; e tosto che sarete morti, poiché morti insieme, in cambio di due siate uno anche laggiú in inferno. Badate, se è questo quello che desiderate voi, e se, dopo conseguitolo, sarete contenti -. Cotali cose udendo, si sa, niuno direbbe di no, né farebbe segno di volere altro; anzi e’ crederebbe d’avere veramente udito profferirsi quello che desiderava da tanto tempo, cioè d’esser liquefatto e mescolato col diletto suo, acciocché da due divengano uno. E la cagione è che noi eravamo cosí anticamente, interi: e il desiderio e lo struggimento di tornare interi, chiamasi Amore.
E, come dico, una volta eravamo uno; ora per l’iniquità nostra, Dio ci ha sparti, come i Lacedemoni gli Arcadi; e ci è da aver paura che, se non si è umili con gli Iddii, essi non ci spacchino nuovamente; e, poveri noi, c’è da andare attorno sfiguriti come quelle facciacce scolpite ne’ cippi, che hanno il naso fesso simiglianti a tessere ospitali spezzate. Per queste ragioni, ciascuno ha a confortar gli altri a essere pio inverso gli Dei, acciocché noi si scampi da questo male, e si raggiunga il bene, al quale Amore ci mena e guida. E però, all’Amore niuno sia ardito fare oltraggio; chi glielo fa, egli è in odio agl’Iddii. Per contrario, se noi siamo suoi amici, e con lui pigliamo dimestichezza, ritroveremo e riabbracceremo i nostri proprii giovinettini, ventura che oggidí tocca a pochi. Ed Erissimaco qua non canzoni queste parole mie, come se io avessi l’occhio a Pausania eAgatone. Forse anch’eglino sono dei bene avventurati e ambedue maschieggiano, ma io intendo di tutti, uomini e donne: voglio dire che la nostra specie sarebbe felice se ciascuno riuscisse nel suo amore e ricuperasse il diletto suo, ritornando cosí nella condizione antica. E, se questo è il maggior bene, ne seguita che fra i beni che si può avere oggidí, quello che piú se gli accosta è piú grande, cioè che ciascuno ritrovi giovinettini alla natura sua conformati. E se inneggiare vogliamo al Dio che ci può far avere cosí lieta ventura, inneggiamo all’Amore: il quale presentemente ci giova assai assai, rimenandoci a quello ch’è sangue nostro; e per lo avvenire ci dà grandissime speranze che, se noi saremo pii verso gli Dei, egli, rinfrancata e sanata l’antica nostra natura, ci farà felici e beati.
E poi disse: – Questo è, o Erissimaco, il discorso mio, diverso dal tuo. Ora, te n’ho già pregato, non istare a canzonarmelo, ché vogliamo sentire quello che diranno gli altri, o, meglio, i due; perché non rimane che Agatone e Socrate.
lunedì, 21 marzo 2011 alle 7:33
kazzata
kazzata grande kazzata
sabato, 2 aprile 2011 alle 21:48
Opinione argomentata in modo non del tutto convincente. Ma non sono un censore.
sabato, 5 novembre 2011 alle 20:00
[…] cosa però che mi è piaciuta di più è la rivisitazione del mito platonico-aristofaneo del Simposio. Ve ne offro una piccola sintesi tagliuzzata giusto per darvi l’idea. Gallanos woke up curled […]
domenica, 15 gennaio 2012 alle 18:58
[…] ancora più radicali (a questo punto, do per scontato che siate corsi a leggere il racconto) è il mito platonico-aristofaneo dell’uomo dimezzato e dell’amore […]