Agli albori di questo blog, oltre 5 anni fa, ho scritto un post melanconico e compiaciuto sull’assenza di sapore delle albicocche. Se vi va di rileggerlo lo trovate qui.
Ci torno sopra perché quello che è successo ieri, se credessi ai miracoli, lo chiamerei miracolo. Ma ai miracoli non ci credo, come immagino ormai i più assidui sapranno, e ho una spiegazione quasi razionale. Quella che nel nel post del 2007 ho chiamato “l’albicocca che ricordo, che deliziava la mia giovinezza” non era un artifizio retorico, ma esisteva veramente, all’inizio del filare centrale che bipartiva la poca terra davanti alla casa dei nonni. I filari furono espiantati e l’albicocco con loro (era anche vecchio e malandato). ma mio zio sosteneva di averne conservato un albero, e molti anni fa innestò con quello 2 piante. Non ebbero mai fortuna: malate da sempre di gommosi, trascurate, senza mai un trattamento… Non le avevo mai viste produrre un’albicocca.
Ieri, nel bel mezzo dell’anticiclone africano Caronte, o Minosse, o Scoreggia del demonio, 38 gradi all’ombra (per fortuna c’era un sole che spaccava le pietre), l’alberello superstite di albicocche esibiva un gran numero di frutti piccoli, coperti di cocciniglia ma rosso mattone una volta lavati e dal sapore indimenticabile e indimenticato della mia gioventù.
Ricorderete che l’albicocca prende il nome dal latino praecócum, variante di praecócem, perché matura prima della pesca, attraverso l’arabo al-barquq o al-berquq. Saprete altresì che la pesca si chiama così per la sua ascendenza persiana.
Restava per me un mistero perché in dialetto modeno-mantovano l’albicocca, soprattutto quella piccola e saporita (quelle grando e patatose si chiamano baricocui) si chiami mügnaga. L’ho appreso oggi qui:
Come forse pochi ormai sanno, specialmente fra i giovani, questa parola indica in quasi tutti i dialetti lombardi, con piccole differenze fonetiche e grafiche, l’albicocca. Va anche detto che in italiano antico esisteva l’armenìaca, con lo stesso significato. Il termine, scomparso nella lingua nazionale, perdura nelle parlate locali, come nel valtellinese armignäga, nel lodigiano mügnaga, nel bergamasco bignaga, nel bresciano ambrognaga, nell’emiliano mügnaga ecc. Resta da capire da dove derivi questa strana parola che ha avuto così larga fortuna. Occorre rifarsi a una regione dell’Asia anteriore, l’Armenia, dalla quale questo frutto ci è pervenuto. In latino, infatti, si diceva: Prunus Armeniaca ossia “susina proveniente dall’Armenia”. Dal latino si è quindi passati all’italiano armenìaca e da qui ai vari termini che indicano l’albicocca in molti dialetti. L’esito più meridionale di questa parola è quello abruzzese, dove l’albicocca è chiamata menacë, rifatto sul plurale armenìace. Certo non è facile capire che la nostra mugnaga e l’abruzzese menacë sono la stessa parola derivata da un termine assai antico che continua a vivere ancorché sotto forme apparentemente diverse. A conferma del fatto che le lingue non muoiono, ma si trasformano.

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