Gerald Durrell – La mia famiglia e altri animali

Durrell, Gerald (1956). La mia famiglia e altri animali (trad. A. Motti). Milano: Adelphi. 2012. ISBN 9788845907333. Pagine 352. 10,00 €

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Tra le mie abitudini più inveterate c’è quella (decadente, sibaritica, huysmaniano-dannunziana) di passare una parte consistente della mattina della domenica immerso in una vasca da bagno colma d’acqua calda. Ammetto anche che, da parecchi anni ormai, stiamo parlando di una jacuzzi (non hollywoodiana, ma parva sed apta mihi). Non faccio il bagno per lavarmi, per quello è molto più efficiente (e igienica) la doccia. Lo faccio per rammollirmi: in senso letterale, le unghie dei piedi; in senso figurato, i pensieri (come se ne avessi bisogno).

I pensieri, già, che ogni volta mi corrono irresistibilmente alla versioncina milanese della celebre Magic Moments portata al successo da Perry Como (ne ho già parlato qui; adesso una versione su YouTube c’è, ma non vale nulla e quindi non la riporto qui sotto: se la volete sentire la trovate qui).

In questi ozi non mi accompagnano né tartarughe vive (la scelta, immagino, di Huysmans) né paperelle di plastica gialla, ma le letture. Letture rigorosamente cartacee, perché non mi sembra prudente portarsi il Kindle o l’iPad nella vasca da bagno.

Per alcuni mesi, un capitolo per volta, mi ha accompagnato nelle mie abluzioni festive questo libro, il regalo di una giovane amica e collega , che lasciando il lavoro e la città per seguire la sua vocazione scientifica e accademica a scapito di qualche immediato vantaggio monetario, me l’ha dato aggiungendo, lusingandomi, che trovava il mio senso dell’umorismo vicino a quello di Gerald Durrell.

È un libro giustamente famosissimo e di lungo e duraturo successo: pubblicato originariamente nel 1956, la traduzione italiana di Adelphi è del 1975. La versione nella collana economica Gli Adelphi, del 1990, è giunta alla 24ª edizione.

La fama del libro non è certo usurpata: è una lettura divertente e piacevole, anche se di un umorismo a volte un po’ démodé. Ci sono anche momenti di sincera commozione (anche se Durrell non è uno da far trasparire troppo facilmente i suoi sentimenti), come in questo celebre passo sulla mamma di Kralefsky, che richiama irresistibilmente la Miss Havisham di Great Expectations.

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* * *

Già da qualche settimana studiavo con Kralefsky quando scoprii che non viveva solo. Di tanto in tanto, nel corso della mattinata, lui s’interrompeva tutt’a un tratto nel bel mezzo di una somma o di una filastrocca di capoluoghi di contea e piegava la testa da un lato come se tendesse l’orecchio.
«Scusami un momento» diceva. «Devo andare a vedere mia madre».
A tutta prima questo mi lasciò un po’ perplesso, perché ero convinto che Kralefsky fosse troppo vecchio per avere una madre ancora vivente. Dopo averci almanaccato sopra, arrivai alla conclusione che quello fosse soltanto un modo garbato di dire che desiderava andare al gabinetto, perché mi rendevo conto che non tutti avevano la disinvoltura della mia famiglia quando si toccava quel tasto. Non pensai affatto che, se la mia conclusione era giusta, Kralefsky si appartava molto più spesso di qualunque altra persona di mia conoscenza. Una mattina, a colazione, avevo mangiato nespole a tutto spiano, e cominciai a sentirne gli spiacevoli effetti mentre eravamo nel mezzo d’una lezione di storia. Visto che Kralefsky era tanto schizzinoso sull’argomento dei gabinetti, decisi che dovevo esprimere la mia richiesta in modo educato, e la soluzione migliore mi parve quella di adottare lo strano termine che usava lui. Lo guardai fermamente negli occhi e gli dissi che avrei desiderato fare una visita a sua madre.
«A mia madre?» ripeté lui stupefatto. «Una visita a mia madre? Adesso?».
Non riuscii a capire che cosa ci fosse di tanto strano, sicché mi limitai ad annuire.
«Be’,» disse in tono dubbioso «sono certo che mamma sarà felice di vederti, naturalmente, però sarà meglio che vada a vedere se non le è di disturbo».
Uscì dalla stanza, con un’aria ancora un po’ perplessa, e tornò dopo qualche minuto.
«Mamma sarà felice di vederti,» annunciò «ma dice che devi scusarla se è un po’ in disordine».
Pensai che parlare del gabinetto come se fosse un essere umano significava spingere la buona creanza un po’ troppo in là, ma visto che Kralefsky su quell’argomento era palesemente un tantino eccentrico, sentii che era meglio assecondarlo. Gli dissi che non me ne importava neanche un po’ se sua madre era in disordine, perché anche la nostra lo era molto spesso.
«Ah… ehm… sì, sì, lo immagino» mormorò lui dandomi un’occhiata un po’ allarmata. Mi accompagnò lungo un corridoio, aprì una porta e, con mia enorme sorpresa, mi fece entrare in una vasta camera da letto in penombra. La stanza era una foresta di fiori; vasi, conche e recipienti di coccio erano posati un po’ dappertutto, e da ognuno traboccava una massa di splendide corolle che scintillavano nell’oscurità, come pareti di gioielli in una grotta ombreggiata di verde. A un capo della stanza c’era un letto enorme, e nel letto, appoggiata a un mucchio di cuscini, giaceva una minuscola figura non più grande di un bambino. Quando mi avvicinai capii che doveva essere vecchissima, perché i suoi tratti fini e delicati erano coperti da un intrico di rughe che solcavano una pelle morbida e vellutata come quella di un fungo neonato. Ma in lei la cosa stupefacente erano i capelli. Le ricadevano sulle spalle come una gonfia cascata e poi si spargevano per un tratto giù dal letto. Erano d’un intenso e bellissimo color rame, luminosi e scintillanti come se fossero in fiamme, e mi fecero pensare alle foglie d’autunno e al vivido pelo invernale delle volpi.
«Mamma cara,» disse dolcemente Kralefsky, attraversando la stanza e sedendosi su una sedia accanto al letto «mamma cara, Gerry è venuto a trovarti».
La minuscola figura sul letto sollevò le palpebre trasparenti e pallide e mi guardò con grandi occhi bruni, vispi e intelligenti come quelli di un uccello. Trasse dal folto della sua ramata capigliatura una mano sottile e bellissima, appesantita di anelli, e me la porse, sorridendo maliziosamente.
«Sono così lusingata che tu abbia chiesto di vedermi» disse con una voce sommessa e velata. «Al giorno d’oggi, tanta gente considera una persona della mia età una vera seccatura».
Imbarazzato, mormorai qualcosa, e gli occhi brillanti mi guardarono ammiccando, e lei diede in una garrula risatina da merlo e batté la mano sul letto. «Siediti qua,» mi invitò «siediti e chiacchieriamo un momentino».
Con grande cautela raccolsi la massa di capelli ramati e la spostai da una parte per potermi sedere sul letto. I capelli erano morbidi, serici e pesanti, come un’onda color fiamma che mi scorresse tra le dita. La signora Kralefsky mi sorrise e ne prese una ciocca, facendosela rigirare tra le dita perché scintillasse.
«L’unica vanità che mi sia rimasta,» disse «tutto quel che resta della mia bellezza».
Contemplò quell’ondata di capelli come se fosse un cucciolo, o qualche altra bestiolina che non avesse nulla a che fare con lei, e se li accarezzò affettuosamente.
«È strano,» disse «molto strano. Io ho una teoria, sai? Che alcune cose belle s’innamorano di se stesse, come Narciso. E quando questo succede, non hanno nessun bisogno di aiuto per vivere; diventano così prese dalla propria bellezza che vivono soltanto per quella, nutrendosi di se stesse, per così dire. In questo modo, più si fanno belle e più forti diventano; vivono in un circolo. I miei capelli hanno fatto proprio questo. Sono autosufficienti, crescono soltanto per se stessi, e il fatto che il mio corpo sia andato in rovina non li turba minimamente. Quando morirò, se ne potrà colmare tutta la mia bara, e probabilmente loro continueranno a crescere anche quando il mio corpo sarà ridotto in polvere». [pp. 260-263]