Giacomo Papi – Inventario sentimentale

Papi, Giacomo (2013). Inventario sentimentale. Bari-Roma: Laterza. 2013. ISBN 9788858108505. Pagine 188. 8,99 €

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Chi mi conosce nella vita reale oppure è un lettore assiduo od occasionale di questo blog sa, e ha toccato almeno metaforicamente con mano, la mia dabbenaggine. Fin dalle prime pagine e via via in misura crescente al procedere della lettura, mi chiedevo: ma come ho fatto a comprare questo libro? come sono caduto nella trappola dell’acquisto e della lettura di un genere letterario che sta molto in basso nella mia scala (pur onnivora) delle preferenze letterarie? un genere, che a essere sincero, un po’ disprezzo?

Ricordavo, piuttosto vagamente, un consiglio. Un consiglio non personale, piuttosto un articolo che avevo letto. Forse su Facebook un “amico” (sì, inutile sottolinearlo, sono scare quotes)? Un amico in carne e ossa mi sentivo di escluderlo. Più probabilmente una recensione: La Lettura del Corriere? Tuttolibri della Stampa? Poi mi si è accesa la lampadina: Il post! Ma certo! Un articolo su Il Post: Le madeleines di Giacomo Papi, di Giacomo Pai stesso, nella pagina della cultura, proprio il 25 aprile scorso. E d’impulso – perché se metti insieme che stai leggendo sull’iPad e che puoi acquistare l’e-book da Amazon con 1 click, letteralmente, non puoi che acquistare d’impulso – l’ho comprato.

Non l’ho letto immediatamente: avevo altro da fare e altri libri da finire. Quando l’ho finalmente preso in mano non ricordavo più molto bene le circostanze dell’acquisto e comunque il danno era fatto.

Perché Papi, a modo suo, è innocente. Nel suo articolo su Il Post lo dice addirittura già alla sesta riga:

Per tre anni ho scritto su «D di Repubblica» una rubrica intitolata Cose che non vanno più di moda (questo libro nasce così).

Certo, che il libro nasca così è una mezza verità, che potrebbe far pensare a uno sprovveduto (com’io sono e fui) che Papi abbia proceduto a una qualche rielaborazione o riscrittura, a una riorganizzazione dei materiali. Niente di tutto questo. Sono un centinaio di articoletti riprodotti tal quale: il colophon del volume, più onestamente, afferma che «[i] testi qui pubblicati, rivisti e modificati, sono apparsi su D di Repubblica tra il 2010 e il 2012». Il che mi fa pensare, dal momento che in 2 anni ci sono per l’appunto 104 settimane, che il nostro Papi non abbia fatto nessuna scrematura o abbia fatto una cernita quasi plebiscitaria: non si butta niente, come nel maiale.

Il genere è quello dell’elzeviro da terza pagina: cioè quello che, con rarissime eccezioni, mi sento di indicare come al tempo stesso sintomatico e responsabile del declino delle patrie lettere. Con l’aggravante di essere stato scritto per una di quelle riviste patinate che si allegano ai quotidiani per poter vendere pubblicità e i cui testi non pubblicitari spaziano tra l’assoluta irrilevanza e la tossicità.

Va detto a suo parziale merito che Giacomo Papi non è il peggiore, se lo paragoniamo ad esempio a Luca Goldoni che scriveva sul Corriere quando ero ragazzo e che mi irritava come la sabbia nelle brachette del costume da bagno, o alle platitude dell’immancabile e inarrivabile articolo del lunedì di Francesco Alberoni. Ma d’altro canto, leggere di seguito 100 componimenti scritti originariamente per essere letti, o meglio scorsi, a distanza di una settimana l’uno dall’altro non aiuta a gustare il libro. Ache se è prezioso per capire le tecniche narrative dell’autore: la descrizione dell’abitudine o della cosa che non c’è più, una dose di rimpianto un po’ crepuscolare (nel senso letterario, gozzanian-gucciniano, del termine), una spiegazione economico-sociologica sul perché le cose siano cambiate (naturalmente in peggio, come è sempre alla radice di ogni pensiero reazionario), qualche aforisma, e poi …

E poi il piccolo colpo di genio di Giacomo Papi, quello che alla fine lo salva dalla bocciatura senza esame di riparazione.

Poi la citazione, o l’aneddoto, di un personaggio rigorosamente inventato, di cui alla fine del volume si presenta una “bibliografia fantastica.” E, raffinatamente, come quei seduttori che sanno che la bellezza più preziosa è quella che rivela una minuscola imperfezione, accanto al raffinato poeta francese Jean-Pierre-Albert Bitouz e al monaco bizantino Esichio Cerulario, compare [posizione 279 sul Kindle] l’improbabile gesuita tolemaico ferrarese Giovanni Riccioli, che è invece un personaggio storico!

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Alcune citazioni, divertenti se prese a piccole dosi:

Alle cabine telefoniche sono cresciute le ruote e si sono tramutate in automobili. [626]

[…] il dandy di massa […] [772]

L’esorcismo contro l’entropia e il caos si compie attraverso la sostituzione più che con la manutenzione. [826]

Il bello è il ridicolo visto di spalle. [1193]

Il tempo lungo della proprietà lascia spazio alla gioia breve dell’acquisto. [1230]

[…] brasarsi il cervello […] [1401]

Conoscere è un’attività, l’informazione invece si riceve. [1412]

Se ne può ricavare una specie di regola: se le macchine fanno un lavoro da uomini, tendono a comportarsi in modo umano; ma quando gli uomini fanno lavori da macchine, tendono a comportarsi da automi. [1904]

[…] fatichiamo ad accettare che la vita è una sola, non molte. Esistono più desideri di quanti possa contenerne un’esistenza […] [2217]

«Settembre, è l’ultima pesca, l’eterno si sgretola». [2237]

La vanità è una forza che non coincide con la stupidità, però le assomiglia parecchio, perché costituisce sempre un impedimento all’esercizio dell’intelligenza. [2342]

«Dicono che i giovani guardano lontano perché sono nani sulle spalle dei giganti (se fossero i giganti a sedersi sui nani sarebbe peggio)», annota nel 1937 Jules Les Jour in Je n’existe pas. «In verità siamo bruchi che sfottono farfalle, siamo farfalle che sfottono bruchi». [2681]

Gerald Durrell – La mia famiglia e altri animali

Durrell, Gerald (1956). La mia famiglia e altri animali (trad. A. Motti). Milano: Adelphi. 2012. ISBN 9788845907333. Pagine 352. 10,00 €

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Tra le mie abitudini più inveterate c’è quella (decadente, sibaritica, huysmaniano-dannunziana) di passare una parte consistente della mattina della domenica immerso in una vasca da bagno colma d’acqua calda. Ammetto anche che, da parecchi anni ormai, stiamo parlando di una jacuzzi (non hollywoodiana, ma parva sed apta mihi). Non faccio il bagno per lavarmi, per quello è molto più efficiente (e igienica) la doccia. Lo faccio per rammollirmi: in senso letterale, le unghie dei piedi; in senso figurato, i pensieri (come se ne avessi bisogno).

I pensieri, già, che ogni volta mi corrono irresistibilmente alla versioncina milanese della celebre Magic Moments portata al successo da Perry Como (ne ho già parlato qui; adesso una versione su YouTube c’è, ma non vale nulla e quindi non la riporto qui sotto: se la volete sentire la trovate qui).

In questi ozi non mi accompagnano né tartarughe vive (la scelta, immagino, di Huysmans) né paperelle di plastica gialla, ma le letture. Letture rigorosamente cartacee, perché non mi sembra prudente portarsi il Kindle o l’iPad nella vasca da bagno.

Per alcuni mesi, un capitolo per volta, mi ha accompagnato nelle mie abluzioni festive questo libro, il regalo di una giovane amica e collega , che lasciando il lavoro e la città per seguire la sua vocazione scientifica e accademica a scapito di qualche immediato vantaggio monetario, me l’ha dato aggiungendo, lusingandomi, che trovava il mio senso dell’umorismo vicino a quello di Gerald Durrell.

È un libro giustamente famosissimo e di lungo e duraturo successo: pubblicato originariamente nel 1956, la traduzione italiana di Adelphi è del 1975. La versione nella collana economica Gli Adelphi, del 1990, è giunta alla 24ª edizione.

La fama del libro non è certo usurpata: è una lettura divertente e piacevole, anche se di un umorismo a volte un po’ démodé. Ci sono anche momenti di sincera commozione (anche se Durrell non è uno da far trasparire troppo facilmente i suoi sentimenti), come in questo celebre passo sulla mamma di Kralefsky, che richiama irresistibilmente la Miss Havisham di Great Expectations.

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Già da qualche settimana studiavo con Kralefsky quando scoprii che non viveva solo. Di tanto in tanto, nel corso della mattinata, lui s’interrompeva tutt’a un tratto nel bel mezzo di una somma o di una filastrocca di capoluoghi di contea e piegava la testa da un lato come se tendesse l’orecchio.
«Scusami un momento» diceva. «Devo andare a vedere mia madre».
A tutta prima questo mi lasciò un po’ perplesso, perché ero convinto che Kralefsky fosse troppo vecchio per avere una madre ancora vivente. Dopo averci almanaccato sopra, arrivai alla conclusione che quello fosse soltanto un modo garbato di dire che desiderava andare al gabinetto, perché mi rendevo conto che non tutti avevano la disinvoltura della mia famiglia quando si toccava quel tasto. Non pensai affatto che, se la mia conclusione era giusta, Kralefsky si appartava molto più spesso di qualunque altra persona di mia conoscenza. Una mattina, a colazione, avevo mangiato nespole a tutto spiano, e cominciai a sentirne gli spiacevoli effetti mentre eravamo nel mezzo d’una lezione di storia. Visto che Kralefsky era tanto schizzinoso sull’argomento dei gabinetti, decisi che dovevo esprimere la mia richiesta in modo educato, e la soluzione migliore mi parve quella di adottare lo strano termine che usava lui. Lo guardai fermamente negli occhi e gli dissi che avrei desiderato fare una visita a sua madre.
«A mia madre?» ripeté lui stupefatto. «Una visita a mia madre? Adesso?».
Non riuscii a capire che cosa ci fosse di tanto strano, sicché mi limitai ad annuire.
«Be’,» disse in tono dubbioso «sono certo che mamma sarà felice di vederti, naturalmente, però sarà meglio che vada a vedere se non le è di disturbo».
Uscì dalla stanza, con un’aria ancora un po’ perplessa, e tornò dopo qualche minuto.
«Mamma sarà felice di vederti,» annunciò «ma dice che devi scusarla se è un po’ in disordine».
Pensai che parlare del gabinetto come se fosse un essere umano significava spingere la buona creanza un po’ troppo in là, ma visto che Kralefsky su quell’argomento era palesemente un tantino eccentrico, sentii che era meglio assecondarlo. Gli dissi che non me ne importava neanche un po’ se sua madre era in disordine, perché anche la nostra lo era molto spesso.
«Ah… ehm… sì, sì, lo immagino» mormorò lui dandomi un’occhiata un po’ allarmata. Mi accompagnò lungo un corridoio, aprì una porta e, con mia enorme sorpresa, mi fece entrare in una vasta camera da letto in penombra. La stanza era una foresta di fiori; vasi, conche e recipienti di coccio erano posati un po’ dappertutto, e da ognuno traboccava una massa di splendide corolle che scintillavano nell’oscurità, come pareti di gioielli in una grotta ombreggiata di verde. A un capo della stanza c’era un letto enorme, e nel letto, appoggiata a un mucchio di cuscini, giaceva una minuscola figura non più grande di un bambino. Quando mi avvicinai capii che doveva essere vecchissima, perché i suoi tratti fini e delicati erano coperti da un intrico di rughe che solcavano una pelle morbida e vellutata come quella di un fungo neonato. Ma in lei la cosa stupefacente erano i capelli. Le ricadevano sulle spalle come una gonfia cascata e poi si spargevano per un tratto giù dal letto. Erano d’un intenso e bellissimo color rame, luminosi e scintillanti come se fossero in fiamme, e mi fecero pensare alle foglie d’autunno e al vivido pelo invernale delle volpi.
«Mamma cara,» disse dolcemente Kralefsky, attraversando la stanza e sedendosi su una sedia accanto al letto «mamma cara, Gerry è venuto a trovarti».
La minuscola figura sul letto sollevò le palpebre trasparenti e pallide e mi guardò con grandi occhi bruni, vispi e intelligenti come quelli di un uccello. Trasse dal folto della sua ramata capigliatura una mano sottile e bellissima, appesantita di anelli, e me la porse, sorridendo maliziosamente.
«Sono così lusingata che tu abbia chiesto di vedermi» disse con una voce sommessa e velata. «Al giorno d’oggi, tanta gente considera una persona della mia età una vera seccatura».
Imbarazzato, mormorai qualcosa, e gli occhi brillanti mi guardarono ammiccando, e lei diede in una garrula risatina da merlo e batté la mano sul letto. «Siediti qua,» mi invitò «siediti e chiacchieriamo un momentino».
Con grande cautela raccolsi la massa di capelli ramati e la spostai da una parte per potermi sedere sul letto. I capelli erano morbidi, serici e pesanti, come un’onda color fiamma che mi scorresse tra le dita. La signora Kralefsky mi sorrise e ne prese una ciocca, facendosela rigirare tra le dita perché scintillasse.
«L’unica vanità che mi sia rimasta,» disse «tutto quel che resta della mia bellezza».
Contemplò quell’ondata di capelli come se fosse un cucciolo, o qualche altra bestiolina che non avesse nulla a che fare con lei, e se li accarezzò affettuosamente.
«È strano,» disse «molto strano. Io ho una teoria, sai? Che alcune cose belle s’innamorano di se stesse, come Narciso. E quando questo succede, non hanno nessun bisogno di aiuto per vivere; diventano così prese dalla propria bellezza che vivono soltanto per quella, nutrendosi di se stesse, per così dire. In questo modo, più si fanno belle e più forti diventano; vivono in un circolo. I miei capelli hanno fatto proprio questo. Sono autosufficienti, crescono soltanto per se stessi, e il fatto che il mio corpo sia andato in rovina non li turba minimamente. Quando morirò, se ne potrà colmare tutta la mia bara, e probabilmente loro continueranno a crescere anche quando il mio corpo sarà ridotto in polvere». [pp. 260-263]

Jonathan Ive, il designer della Apple

Il Financial Times del 9 marzo 2012 ha dedicato un articolo di April Dembosky a Jonathan Ive, vice-presidente della Apple e responsabile del suo (fantastico) design industriale.

Apple’s invisible aesthete emerging from Jobs’ shadow – FT.com

The value of an iPhone or an iPad is not the object itself, despite the price tag. The value is the information held within it: the photos, the friend updates, the news articles, all accessible with the swipe of a finger. The object itself is designed with that in mind: sleek, smooth, and above all simple, so that what’s inside defines the experience.

The device’s architect is much like that himself: introverted and, to the vast majority of people who carry one of his creations, all but invisible. But inside Apple’s tightly guarded design studios, Jonathan Ive is complex and powerful, much like the inner workings of an iPhone.

Jonathan Ive

ft.com / Cummings

Ive è anche uno dei protagonisti di Objectified, un documentario di Gary Hustwit, presentato nel marzo del 2009 al festival del cinema di South by Southwest (SxSW per gli amici).

Qui potete vedere la parte dedicata ad Ive: