Ai tempi dell’Università si discuteva vivacemente dell’attuazione dei principi costituzionali: se ne discuteva tra studenti, ma l’argomento era anche oggetto di studio nell’ambito del diritto costituzionale. Un punto dolente era la contraddizione tra i principi di libertà enunciati nel Titolo I della Costituzione (Diritti e doveri dei cittadino) e il nostro Codice penale, che risaliva al ventennio fascista (Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398) ed era profondamente intriso di quella ideologia, fondata sul carattere etico dello Stato e fortemente repressiva. Il codice penale era universalmente noto come Codice Rocco, dal nome del ministro Guardasigilli dell’epoca, Alfredo Rocco.

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C’era, allora e adesso, un vasto consenso sull’incompatibilità tra Costituzione repubblicana e Codice penale fascista. Non lo dicevamo mica solo noi ultrasinistri gruppettari (mi pare di ricordare un mandato di cattura contro Mario Capanna per vilipendio del Presidente della Repubblica), ma anche la sinistra borghese moderata e integerrima di Giorgio Bocca e di Camilla Cederna. Sulla necessità di correggere profondamente e diffusamente il Codice penale, o addirittura di predisporne uno nuovo, c’era vasto consenso nel mondo accademico e tra gli operatori del diritto (si veda ad esempio la voce Codice penale su Wikipedia).
Tra le parti che apparivano in più stridente contrasto con la Costituzione c’erano quelle che contraddicevano il principio della libertà di manifestazione del pensiero (Art. 21, comma 1: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.»). Nacque un’etichetta per mettere insieme questo tipo di reati, che – come vedremo – nel Codice Rocco sono sparpagliati qua e là: reati d’opinione.