Agibilità politica: espressione d’attualità, ma piuttosto fumosa. Serve infatti a chiedere – senza chiederlo esplicitamente – l’impossibile: che non si tenga conto di una sentenza passata in giudicato. Giusto per memoria: la pubblica accusa (e ammettiamo pure, senza concederlo, che fossero le famigerate toghe rosse, mosse dal fumus persecutionis e non da indizi di reato) ha formulato un’ipotesi e l’ha portata in dibattimento, dove si è confrontata alla pari con i difensori dell’imputato. Per tre volte i giudici hanno ritenuto indizi e prove sufficienti a condannare l’imputato. L’imputato ora dice che il giudizio era politico, non accetta il verdetto, non riconosce la legittimità delle corti che lo hanno condannato (quando lo facevano i brigatisti si gridava all’eversione e si scrivevano tonanti editoriali) e si vuole difendere almeno un’altra volta ancora (ulteriormente, cioè pretendendo una sede e un livello di giudizio in più rispetto a quello di cui godono gli altri cittadini – «La legge è uguale per tutti» era la millesima e ultima delle battute di Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano). E Violante gli dà ragione, dimenticando che agli altri cittadini la possibilità di tornare sulle sentenze passate in giudicato non la si dà.

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Agibilità politica si usa allora per menare il can per l’aia: intanto – sottintende chi la usa, costringendoci a pensare all’elefante – stiamo parlando di politica, e di una soluzione politica, e lungi da noi anche soltanto il sospetto che si voglia mancar di rispetto o peggio ancora delegittimare la magistratura e il suo operato. E poi: agibilità, come quando un sisma o una catastrofe naturale ha danneggiato un edificio e noi, cittadini di buona volontà, ci rimbocchiamo la maniche per ripristinarlo, mettendolo in sicurezza e rendendolo di nuovo agibile. Una cosa buona, dunque. E chi non la vuole, o è pigro, o è sfascista…
Per la verità, il Vocabolario Treccani ci fa sapere che questo significato del termine agibilità è soltanto il secondo, e che per di più andrebbe riferito soltanto agli edifici pubblici (per quelli privati si deve parlare, più propriamente, di abitabilità):
Di luogo o impianto pubblico, l’essere in condizione di poter essere aperto o adibito agli scopi per cui è stato costruito: agibilità di un teatro, d’un campo sportivo; agibilità di un nuovo aeroporto (o di una sua pista); agibilità di un pozzo; richiedere il certificato di agibilità (alle autorità competenti); negare il permesso di agibilità. Per estensione è talora riferito, impropriamente a edifici di abitazione privata, come sinonimo di abitabilità (in senso generico), soprattutto in frasi negative (cfr. inagibilità).
Il primo significato, invece, è tecnico-giuridico: l’agibilità di un diritto è la possibilità che esso sia fatto valere in giudizio.
Ma non è evidentemente di questo primo significato che si sta parlando (sotto questo profilo, il nostro pregiudicato non dispone di alcun diritto agibile, da far valere in giudizio: semmai l’opposto). Il riferimento è al secondo, utilizzato in senso metaforico e “suggestivo.”
In questa accezione, non è l’invenzione di nessuno dei ben pagati consulenti del condannato, né dei suoi pur immaginifici parlamentari. È la reinvenzione o il riaffiorare di un concetto che risale al famigerato Sessantotto (forse è vero, allora, che quella generazione, che è anche la mia, va ormai rottamata).

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Ho un ricordo puntuale, anche se non metterei la mano sul fuoco per la precisione dei dettagli. Ho cominciato a frequentare l’università, la leggendaria Statale di Milano di via Festa del Perdono, nell’anno accademico 1971-1972. In quegli anni, e per la verità in tutti e quattro quelli della mia frequenza e frequentazione, la Statale – quanto meno quella sede, perché alle facoltà scientifiche di Città Studi le cosa andavano un po’ diversamente – coincideva con il Movimento studentesco di Mario Capanna. L’MS era di ispirazione marxista-leninista e venerava la figura di Stalin, rifiutando la destalinizzazione sovietica e aderendo al pensiero maoista (nella manifestazioni scandivano «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung, viva il compagno Giuseppe Stalin»). Questo per farvi capire che l’assemblearismo dell’MS della Statale, che pure c’era, aveva una forte venatura di autoritarismo da partito unico, nascosta da una concezione di egemonia che si diceva ispirata a Gramsci ma lo era ben poco. In questo contesto nacque l’espressione agibilità politica e fu sviluppata una dottrina secondo la quale la possibilità di esprimere le proprie opinioni e di “agirle” politicamente (cioè in forma organizzata) non era un diritto costituzionale acquisito (art. 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.»; art. 17: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.»; art. 18: «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.») – anzi in questo apparente liberalismo emergeva, secondo l’MS, la natura borghese e di classe del diritto – ma qualcosa che andava volta per volta deliberato dall’assemblea. E cioè, in sostanza, dai capi dell’MS, Capanna e Toscano.
Ora, forse qualcuno ricorderà un dibattito e una polemica sull’agibilità politica di Gioventù studentesca, il movimento di Don Giussani precursore di Comunione e liberazione. Quella polemica, se non ricordo male, è di qualche anno più tardi, forse durante la campagna elettorale per il referendum sul divorzio del 1974. Ma l’agibilità politica non era garantita neppure, anzi non era garantita innanzi tutto, agli altri gruppi extraparlamentari, direi (col senno di oggi) per 2 motivi: primo, perché erano percepiti come potenziali rivali nella competizione per l’egemonia del movimento (l’MS non a caso si definiva Movimento studentesco tout court e gli scontri di piazza anche fisici e “militari” con Avanguardia operaia illustrano bene il punto); secondo, perché l’MS non si considerava un gruppo al di fuori delle organizzazioni storiche della sinistra, ma una componente, o meglio una frazione, della sinistra politica e sindacale (PCI-PSI e CGIL-UIL). All’epoca militavo nel Manifesto, e il leader milanese del gruppo era Lidia Menapace. Lidia Menapace – si diceva – era stata in Università Cattolica insegnante di Mario Capanna e aveva condiviso con lui e con altri leader dell’MS l’esperienza dell’allontanamento da quell’ateneo per motivi politici: per questi meriti (e probabilmente per sentimenti di stima e di amicizia, che però l’atmosfera del tempo portava a tener nascosti) fu concessa a noi sparuto manipolo di studenti simpatizzanti per il Manifesto l’agognata agibilità politica. Che consisteva – se non ricordo male – nella possibilità di riunirci, dopo le 18 e per un paio d’ore, il martedì e il venerdì, sul pianerottolo del terzo piano della scala vicino all’aula magna.
Sergio Soave (che scrive di sé: «Dopo un’esperienza nelle organizzazioni politiche, sindacali e cooperative della sinistra lombarda, ora è editorialista del “Foglio” e di “Avvenire”») la racconta così (giusto per farvi capire che non mi sono inventato tutto):
All’interno del recinto di via Festa del Perdono, però, l’egemonia fu assunta dal Movimento Studentesco di Mario Capanna (arrivato alla Statale dopo essere stato espulso dall’Università cattolica), Luca Cafiero e Salvatore Toscano, che utilizzarono l’assemblea delle facoltà umanistiche (in quelle scientifiche, decentrate a Città studi, il movimento ebbe uno sviluppo più simile a quello degli altri atenei italiani) come una sorta di Parlamento dominato da un partito unico. Spettava all’assemblea concedere ‘l’agibilità politica’, cioè il diritto di espressione all’interno dell’Ateneo. Fu su questo discutibile principio che alla fine si infranse il disegno egemonico del Movimento Studentesco, quando, per l’elezione degli organismi rappresentanti degli studenti, il diritto anche degli studenti cattolici, organizzati in Comunione e Liberazione, di partecipare al voto fu sostenuto da un ampio comitato di forze politiche cittadine.
La mia opinione personale è che chi ha riesumato l’espressione agibilità politica per spostare il dibattito dalla condanna definitiva di Berlusconi per evasione fiscale alla pretesa che a trovare il modo di permettergli di continuare a sedere in Senato debbano essere le istituzioni (Governo e Presidente della repubblica in primis) fosse ben consapevole dei riferimenti storici che ho provato a richiamare: non mancano, nelle file dei sostenitori del Cavaliere, sessantottini e ciellini. Al di là dell’uso a sproposito, l’espressione suona bene e svolge egregiamente il suo compito di “arma di distrazione di massa”. Dubito invece che Berlusconi stesso sia consapevole di quest’origine e che, se lo fosse, la cosa gli farebbe piacere.
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