Williams, John (1972). Augustus. London: Vintage. 2003. ISBN: 9781448180967. Pagine 337. 9,03€
[Augustus. Trad. it. Stefano Tummolini. Roma: Fazi. 2017. ISBN: 9788893252836. Pagine 410. 9,99€]
![Augustus: A Novel (English Edition) di [Williams, John]](https://images-eu.ssl-images-amazon.com/images/I/51TvHiPj37L.jpg)
John Williams ha incontrato una (relativa) popolarità postuma con Stoner: romanzo del 1955 riscoperto e ripubblicato dalla New York Review of Book. Libro triste e molto bello, che ho letto e recensito qui.
Augustus è un romanzo molto diverso, meno folgorante di Stoner, ma comunque molto bello. È un romanzo storico (l’Augustus del titolo è proprio lui, Ottaviano Augusto, quello che abbiamo studiato a scuola, il nipote di Giulio Cesare, suo vendicatore e primo imperatore romano), scritto in forma epistolare. È innanzitutto un’opera di grande sapienza artigianale.
È forse più facile dire che cosa non vi dovete aspettare dalla lettura di Augustus, che non provare a definirlo. E per farlo – perdonatemi – dovrò di necessità fare riferimento ad altre mie letture. Non ho letto nessuno, mi pare, dei polpettoni storici o pseudo-storici che sono diventati best-seller: non ho letto niente di Valerio Massimo Manfredi, per capirci, e nemmeno Il gladiatore mi è piaciuto un gran che. Le cose che ci sono andate più vicino sono un romanzo (Priestess of Avalon) in cui Marion Zimmer Bradley racconta a modo suo la storia di Elena, madre di Costantino (ma siamo dentro il ciclo di Avalon, e dunque la realtà storica è piegata al programma narrativo dell’autrice) e I, Claudius di Robert Graves (e per la verità anche il sèguito, meno riuscito, Claudius the God). Ma Robert Graves è un fuoriclasse, anche nelle sue opere minori (come io considero queste): da un certo punto di vista Williams è vicino a Graves nell’onesto tentativo di capire le pulsioni umane che guidano personaggi storici così lontani (checché se ne pensi) dalla nostra cultura e dalla nostra sensibilità.
Sul versante speculare, chi segue questo blog conosce la mia manìa, o forse passione, di andare alla fonte delle cose. Ne ho parlato molte volte, e ho persino dedicato un articolo all’esortazione di Ugo Foscolo – mai attuale come oggi, in questa era di iper-semplificazione delle notizie, riportate per sentito dire (la presunta eutanasia di Noa Pothoven) – «O Italiani, io vi esorto alle storie». E così, in un passato abbastanza remoto (fatto, allora come ora, di letture compulsive) ho letto prima il leggendario Theodore Mommsen (Storia di Roma antica, nell’edizione Sansoni) e poi Tito Livio (Storia di Roma dalla sua fondazione, nell’edizione Rizzoli).
Questo per dire semplicemente che, per le caratteristiche e la cultura dei due autori, sono stato esposto (non precocemente, ma comunque da dilettante allo sbaraglio) a una storia romana sui generis, una sorta di storiografia narrata, molto événementielle, a tratti più attenta alle storie che alla storia. C’è molto di questo approccio storiografico dietro al romanzo di Williams. Senza dimenticare che Tito Livio era parte organica, insieme a Virgilio, del programma augusteo di riscrivere la storia delle origini di Roma per legittimare il destino imperiale della Gens Julia.
Strano tipo, poi, questo Augusto. A scuola era facile appassionarsi alle vicende di Giulio Cesare. Aspirante dittatore, certo. Affossatore della repubblica e delle istituzioni democratiche. Inventore del cesarismo. Demagogo. Ma scriveva meravigliosamente. Le sue versioni erano una pacchia. Come si poteva simpatizzante per quel borioso e noioso avvocaticchio di Cicerone?
OK Giulio Cesare, allora, magari vergognandosene un po’. Ma Ottaviano? Meglio Marco Antonio, allora, che dalla sua aveva l’orazione funebre shakespeariana e gli amori di Cleopatra (cui da liceali si era molto sensibili). Ma Ottaviano, dicevamo? Un ragazzino, almeno all’inizio. Poi – certo – ci rivedremo a Filippi, e Azio. E poi una noiosissima pax romana. Difficile farsi impressionare. Difficile, soprattutto, dargli un’identità.
Williams ci riesce con il sapiente artigianato di cui parlavamo prima. Per dare conto delle innumerevoli sfaccettature del suo protagonista, e di quasi 60 anni di storia romana, costruisce il romanzo con una pluralità di voci, che emergono dalle lettere e dai messaggi che si scambiano tra loro una moltitudine di persone. Ognuna ha in mente un suo Ottaviano e pretende di averne colto, lei sola, l’essenza. Dai compagni della giovinezza (Agrippa e Mecenate), ai protagonisti delle vicende storiche (Cicerone, Antonio, Lepido, più tardi Tiberio), alle donne (soprattutto Livia e Giulia). Nessuno, in realtà, detiene intera la verità storica. Noi soli, alla fine del romanzo, possiamo provare a guardare nel suo insieme il mosaico, come emerge da una miriade di tessere. Ottaviano prende la parola soltanto nel capitolo finale, nel viaggio in nave da Ostia a Capri che sarà anche il suo viaggio estremo.
Il romanzo cresce pagina dopo pagina. Le prime parti, quelle in cui Ottaviano prende coscienza di sé e prende il potere , sono secondo me le più noiose: la sequenza degli eventi comunque prevale sui dilemmi morali che attanagliano Ottaviano. Il romanzo viene fuori alla distanza.
Per inciso: sono particolarmente grato a Williams per aver tenuto fuori dal quadro la nascita di Cristo e tutto il resto: anche ammessa la verità storica di Gesù di Narareth, Ottaviano non ne sarebbe mai potuto venire a conoscenza, perché evento ben al di sotto della soglia di rilevanza. Ma Williams è americano e la sua scelta deve aver comunque richiesto un po’ di riflessione e un po’ di coraggio. Lo aspettavo al varco e non è caduto nella trappola: bravo!
Williams non nasconde la sua simpatia per le donne. C’è l’incontro fortuito con la vecchia compagna di giochi, Hirtia, la figlia della balia. Incontro che ci viene prima raccontato da lei – ed è un momento di grande intensità e commozione, e una pagina memorabile – e poi ricordato da Augusto, da una prospettiva non meno commovente, e anzi sconvolgente, nell’ultimo viaggio.
Ma soprattutto c’è Giulia, la figlia prediletta ma sacrificata alla ragion di Stato, che ha anch’essa l’onore di un lungo monologo, in cui emerge come donna libera e consapevole. Diamole il titolo (insieme alla Morgaine delle Nebbie di Avalon della stessa Marion Zimmer Bradley che abbiamo citato all’inizio) di prima icona femminista della storia.
Ringrazio chi mi ha consigliato la lettura di questo Augustus e lo raccomando a mia volta.
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Come di consueto, un po’ di citazioni:
“He plots; he doesn’t plan,” […] (p. 38)
He was our enemy — yet after so long, the death of an old enemy is curiously like the death of an old friend. (p. 111)
I come to you at last, and count the hours as if they were days. (p. 127)
Were we “deceived” (and therefore fools), or did we “withhold” some information (and were therefore liars)? (p. 128)
And it seems to me that the moralist is the most useless and contemptible of creatures. He is useless in that he would expend his energies upon making judgments rather than upon gaining knowledge, for the reason that judgment is easy and knowledge is difficult. He is contemptible in that his judgments reflect a vision of himself which in his ignorance and pride he would impose upon the world. (p. 128: il moralista coniuga l’inutile con lo spregevole)
These are extraordinary people . . . . It is as if they cannot endure safety and peace and comfort. (p. 247)
“Well, our comedy is almost over,” he said. “But there can be much sadness in a comedy.” (p. 248)
It has served me well, this body, over the years — though it began its service later than it might have done. It began its service late, for it was told that it had no rights, and must by the nature of things be subservient to dictates other than its own. (p. 256)
Yes, it has served me well, this body that is blurred by the water, that I can see as I lie supine in my pelagic bath. It has served me, while seeming to serve others. It has always served me. The hands that roamed upon these thighs roamed there for me, and the lover to whom I gave pleasure was a victim of my own desire. (p. 257)
To one who has not become adept at the game, the steps of a seduction may appear ludicrous; but they are no more so than the steps of a dance. The dancers dance, and their skill is their pleasure. All is ordained, from the first exchange of glances until the final coupling. And the mutual pretence of both participants is an important part of the elaborate game — each pretends helplessness beneath the weight of passion, and each advance and withdrawal, each consent and refusal, is necessary to the successful consummation of the game. And yet the woman in such a game is always the victor; and I believe she must have a little contempt for her antagonist; for he is conquered and used, as he believes that he is conqueror and user. (p. 261)
Nothing changes here except the seasons. (p. 267)
I have lived longer than I have wished to do, and such mortal boredom does not augment longevity. (p. 276)
There are no untruths in any of them, and there are few errors of fact; but they are lies. (p. 279)
We have dropped anchor at a little cove just north of Puteoli; and farther north is Naples, where some years ago Marcus Agrippa constructed a causeway between the sea and the Lucrine Lake […] (p. 297: qualche inesattezza geografica…)
Horace once told me that laws were powerless against the private passions of the human heart […] (p. 302)
Perhaps you were right after all, my dear Nicolaus; perhaps there is but one god. But if that is true, you have misnamed him. He is Accident, and his priest is man, and that priest’s only victim must be at last himself, his poor divided self. (p. 303)
For contrary to what we may believe, erotic love is the most unselfish of all the varieties; it seeks to become one with another, and hence to escape the self. (p. 304)
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