«O Italiani, io vi esorto alle storie»

Una frase che mio padre citò più volte. A tavola, perché pranzare e cenare insieme (mio padre veniva sempre anche a pranzo, benché per stare un’oretta con noi si dovesse sobbarcare altrettanto di tram, tra andata e ritorno) era l’occasione per parlare insieme.

Erano altri tempi, e avevamo un atteggiamento più laico nei confronti del lavoro e della produttività: ne ha scritto il 20 luglio 2012 ilNichilista sul suo blog in un post intitolato Dalla fine del lavoro alla fine del tempo libero. Non ritengo necessario aggiungere niente, se non l’invito a rileggere l’editoriale che Luigi Pintor – penso – scrisse per il primo 1° maggio del quotidiano il manifesto, nel 1971 (l’ho ripubblicato qui il 1° maggio 2007). E vorrei anche dire che la produttività del lavoro aumenta realmente quando al lavoro vengono messi a disposizione strumenti (mezzi di produzione, avrebbe detto quello) più efficienti, non quando viene aumentata a dismisura la giornata lavorativa cancellando ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero …

Pranzi e cene erano spesso occasioni per discussioni, anche accese, sui massimi e sui minimi sistemi. Spero di essere riuscito a trasferire questa abitudine anche alla famiglia che poi ho formato e che i miei figli se ne ricordino in futuro come lo ricordo io: ma mi rendo conto, mentre lo scrivo, che al massimo ne ricorderanno la metà, perché io invece non sono mai tornato a pranzo, e sono spesso mancato anche a cena …

Quello che devo confessare è che non ho mai approfondito chi e in che contesto avesse pronunciato o scritto quella frase. Non lo chiesi mai allora (per timidezza o per superbia o per neghittosità – comunque già all’epoca “l’uomo che non deve chiedere mai,” e perciò rischia di non sapere e di non ottenere nulla), né lo andai a cercare su qualche enciclopedia. Vagamente, pensavo che l’avesse scritto qualche uomo di lettere del Risorgimento (non ero lontanissimo dalla verità) o magari un Machiavelli (questo sì sbagliatissimo), e che il senso fosse quello di invitare gli italiani a studiare il proprio passato per non ripeterne gli errori.

Poi passarono gli anni (sono più di 35 ormai da quando mio padre non c’è più). Sporadicamente la frase mi è tornata in mente, ma non la ricordavo esattamente, in ogni caso non abbastanza esattamente per Google. Ieri l’illuminazione. Una rapida ricerca e so quasi tutto.

Siamo nel 1809. L’anno prima Ugo Foscolo ha interrotto la sua carriera militare e si è candidato alla cattedra vacante di eloquenza dell’Università di Pavia (era stata di Vincenzo Monti). Il 18 marzo 1808 la ottiene e il 22 gennaio 1809 vi pronuncia l’orazione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (l’esperienza accademica del nostro dura per poche lezioni perché Napoleone, ormai sospettoso di ogni libero pensiero, gli sopprime la cattedra – non si chiamava ancora riforma o manovra o spending review, ma gli effetti erano gli stessi).

Riprendo da wikipedia:

Nell’appassionata orazione sull’importanza della parola, che Foscolo legge il 22 gennaio 1809 alla lezione inaugurale del corso che è chiamato a tenere all’Università di Pavia, si trovano tutte le linee della sua poetica. Il fulcro tematico dell’orazione è l’esaltazione della parola che l’autore ritiene uno strumento insostituibile per rappresentare il pensiero e dare forma alla fantasia. Egli sostiene che l’esigenza di comunicare sia tipica dell’uomo e abbia una funzione sociale utile a mantenere l’ordine e l’armonia. Con la parola, dice Foscolo, si fanno nascere le leggi, vengono fondate le religioni, si tramandano le conoscenze. Se la società si sviluppa è perché c’è stato lo sviluppo della lingua che è indice di progresso, di civilizzazione e di letteratura. Nell’orazione Foscolo tratta anche del rapporto tra scienza e letteratura, che ritiene essere complementari e quindi necessarie. Infine prende in analisi il fiorire delle lettere nella Grecia antica e le cause della sua corruzione che individua nell’opera dei sofisti, colpevoli di aver ridotto la poesia in retorica e di aver condannato il pensiero di Socrate.

Ugo Foscolo

wikipedia.org

Se capisco bene, Foscolo – in modo sorprendentemente moderno per me, che evidentemente su di lui so ben poco al di là dei Sepolcri e dei Sonetti – ritiene che la parola sia una facoltà innata e senza parola non vi possa essere pensiero:

Ogni uomo sa che la parola è mezzo di rappresentare il pensiero; ma pochi si accorgono che la progressione, l’abbondanza e l’economia del pensiero sono effetti della parola. E questa facoltà, di articolare la voce, applicandone i suoni agli oggetti, è ingenita in noi e contemporanea alla formazione de’ sensi esterni e delle potenze mentali, e quindi anteriore alle idee acquistate da’ sensi e raccolte dalla mente; onde quanto più i sensi s’invigoriscono alle impressioni, e le interne potenze si esercitano a concepire, tanto gli organi della parola si vanno più distintamente snodando. Ché le passioni e le immagini nate dal sentire e dal concepire o si rimarrebbero tutte indistinte e tumultuanti, mancando di segni che nell’assenza degli oggetti reali le rappresentassero, o svanirebbero in gran parte per lasciar vive soltanto le pochissime idee connesse all’istinto della propria conservazione, ed accennabili appena dall’azione o dalla voce inarticolata.

Nell’articolare questo ragionamento, Foscolo giunge a teorizzare un rapporto di complementarità tra letteratura e scienza e, di conseguenza, l’origine della decadenza del pensiero nella trasformazione della letteratura in retorica a opera dei sofisti. Assume di conseguenza a modello del suo insegnamento Socrate, anch’egli vittima dei sofisti:

O Ateniesi, adorate Dio, e non aspirate a conoscerlo: amate il paese ove la natura vi ha fatto nascere, e seconderete le leggi dell’universo: non disputate sull’anima, ma dirigete le vostre passioni verso le cose che giovarono a’ nostri padri. O miei concittadini, non a tutti è dato di essere oratore o poeta: coltivate i vostri poderi, permutate i frutti e le merci, poiché tutti abbiamo necessità della terra e a pochi manca l’industria: tutti i padri possono educare i loro figliuoli a venerare gl’iddii, ad obbedire alle leggi, ad amare la patria, e tutti i giovani possono difenderla co’ loro petti; ma in ogni studio ascoltate il proprio Genio, e sarete onorati e benemeriti cittadini.

Con la condanna e la morte di Socrate – secondo Foscolo – «la sapienza fuggì dal governo, e l’eloquenza ammutì, e Atene fu serva de’ retori, che fecero esiliare tutti i filosofi». Lo stesso accadde in Italia, quando Domiziano nominò il retore Quintiliano console (ricevendone immediatamente un immeritato elogio nelle Istitutiones: le radici della piaggeria e del lèche-culismepardon my french – sono profonde).

Così l’arte andò deturpando sino a’ dì nostri le lettere: non però valse ad annientare il decreto della natura che le destinò ministre delle immagini, degli affetti e della ragione dell’uomo.

E finalmente siamo al punto. Perché Foscolo vede nella storia la scienza che può ristabilire il legame di complementarità con la parola e la letteratura e risollevare le sorti della cultura italiana, ma non vede – al di là di tentativi limitati e parziali («e cronache e genealogie e memorie municipali, e le congerie del benemerito Muratori, ed edizioni obbliate di storici di ciascheduna città d’Italia») – una storia d’Italia.

Mi viene da commentare che, anche più di 200 anni fa, gli intellettuali più avveduti individuavano i vizi di fondo della cultura italiana (i) nell’accondiscendenza al potere politico e (ii) nella preferenza per la retorica esercitata «nelle arcadie e nei chiostri» rispetto al lavoro della ricerca scientifica (perché la scienza storica era, per la cultura e la sensibilità di Foscolo, la cosa più vicina alle discipline scientifiche che potesse concepire).

Di qui, finalmente, l’esortazione. È lettura faticosa, ma merita.

O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri. Io vi esorto alle storie, perché angusta è l’arena degli oratori […] Ma nelle  storie, tutta si spiega la nobiltà dello stile, […] tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell’italiano sapere. […] Forse la sola poesia e la magnificenza del panegirico potranno rimunerar degnamente il principe che vi dà leggi e milizia e compiacenza del nome italiano? […] Quali passioni frattanto la nostra letteratura alimenta, quali opinioni governa nelle famiglie? Come influisce in que’ cittadini collocati dalla fortuna  tra l’idiota ed il letterato, tra la ragione di Stato che non può guardare se non la pubblica utilità, e la misera plebe che ciecamente obbedisce alle supreme necessità della vita, in que’ cittadini che soli devono e possono prosperare la patria, perché hanno e tetti e campi ed autorità di nome e certezza di eredità, e che, quando possedono virtù civili e domestiche, hanno mezzi e vigore d’insinuarle tra il popolo e di parteciparle allo Stato? L’alta letteratura riserbasi a pochi, atti a sentire e ad intendere profondamente; ma que’ moltissimi che per educazione, per agi e per l’umano bisogno di occupare il cuore e la mente sono adescati dal diletto e dall’ozio tra’ libri, denno ricorrere a’ giornali, alle novelle, alle rime; così si vanno imbevendo dell’ignorante malignità degli uni, delle stravaganze degli altri, del vaniloquio de’ verseggiatori; così inavvedutamente si nutrono di sciocchezze e di vizi, ed imparano a disprezzare le lettere. Ma indarno […] e i Germani e gl’Inglesi ci dicono che la gioventù non vive che d’illusioni e di sentimenti, e che la bellezza non è immune dalle insidie del mondo; e che, poiché la natura e i costumi non concedono di preservare la gioventù e la bellezza dalle passioni, la letteratura deve, se non altro, nutrire le meno nocive, dipingere le opinioni, gli usi e le sembianze de’ giorni presenti, ed ammaestrare con la storia delle famiglie. Secondate i cuori palpitanti de’ giovinetti e delle fanciulle, assuefateli, finché sono creduli ed innocenti, a compiangere gli uomini, a conoscere i loro difetti ne’ libri, a cercare il bello ed il vero morale: le illusioni de’ vostri racconti svaniranno dalla fantasia con l’età;  ma il calore con cui cominciarono ad istruire, spirerà continuo ne’ petti. Offerite spontanei que’ libri che, se non saranno procacciati utilmente da voi, il bisogno, l’esempio, la seduzione li procacceranno in secreto.

8 Risposte to “«O Italiani, io vi esorto alle storie»”

  1. Morgaine Says:

    Un gigante questo Foscolo! e, nonostante il male che dice dei verseggiatori, per me anche un bravo poeta.
    E mi pare anche che l’innatismo in linguistica sia oggi la teoria prevalente.

  2. lucadebiase Says:

    salve, grazie per il suo commento al mio blog.. le ho risposto… http://blog.debiase.com/2012/07/complessita-senza-paura/

  3. Sul ruolo del parlamento, Monti ha ragione o torto? « Sbagliando s'impera Says:

    […] chiedere: «Scusi, ma di che stiamo parlando, esattamente?». Italiani, non potendovi anch’io esortare alle storie, vi invito almeno a consultare le fonti. Nell’era dell’informazione non dovrebbe […]

  4. Demagogia e buona amministrazione: un esempio facile | Sbagliando s'impera Says:

    […] non essere accusato di partigianeria, e secondo la mia abitudine di andare alla fonte (cosa quanto mai opportuna quando si parla d’acqua) riporto la notizia dal sito […]

  5. No, per favore, il vilipendio no | Sbagliando s'impera Says:

    […] poco convincente; ma se volete farvi un’opinione personale – ne avette tutto il diritto, e vi esorto a farlo – andate a leggere qui la sentenza del 1974 (n. 20 del […]

  6. John Williams – Augustus | Sbagliando s'impera Says:

    […] delle notizie, riportate per sentito dire (la presunta eutanasia di Noa Pothoven) – «O Italiani, io vi esorto alle storie». E così, in un passato abbastanza remoto (fatto, allora come ora, di letture compulsive) ho letto […]

  7. Vincenzo Papadia Says:

    Il tradimento di Napoleone fu grande. Venezia, Trento, Trieste tornarono all’Italia dopo tanti morti lacrime e sangue ed oltre un secolo dopo…

    • borislimpopo Says:

      Il commento mi sembra fuori tema, oltre che discutibile, dal momento che non stavo parlando di Napoleone. Forse perché c’è un fugace accenno al fatto che N. abolì la cattedra di Foscolo? Forse perché Foscolo, via Jacopo Ortis, deplorò la cessione (con il Trattato di Campoformio del 1797) delle isole Ionie (tra cui la natale Zacinto), che peraltro erano veneziane? Venezia, ancorché in decadenza, era un impero marittimo a carattere multietnico: forse gli imperi vanno bene quando sono “italiani” e non quando sono ottomani o asburgici? Trento e Trieste erano da secoli anch’essi asburgici e, con buona pace dell’irredentismo, alla fine della Prima guerra mondiale in Italia ci andarono, e non certo ci tornarono (a Trieste, ancora nel 1910, poco più della metà degli abitanti era di lingua italiana). L’Italia in epoca napoleonica non esisteva come entità statuale. Era – come scrisse Klemens von Metternich nel 1847 e come ci facevano studiare a scuola (predatando l’affermazione al Congresso di Vienna del 1815) – un’espressione geografica: «La parola “Italia” è un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle»


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